All’inizio, avevo seguito con poco interesse il processo per diffamazione ai danni di Johnny Depp, che lo vede impegnato in una causa contro l’ex moglie Amber Heard per un articolo scritto sul Washington Post nel 2018 in cui parlava della sua esperienza di vittima di violenza domestica. L’interesse è stato poco finché non sono stata indotta a seguirlo. Dopo aver guardato un breve estratto del processo su Facebook, che è trasmesso in diretta dal tribunale di Fairfax da diverse emittenti tv americane come se fosse un reality show, sui miei social sono comparsi decine di video correlati. Ho notato subito due cose: tutti ritraevano negativamente Amber Heard ed erano abbastanza sgrammaticati, come se il testo fosse stati tradotto con Google Translate da un’altra lingua. Pochi giorni fa un’inchiesta di Vice News ha confermato i miei sospetti, ovvero che ci sia uno sforzo organizzato e interessato per diffondere contenuti negativi sull’attrice, che prevede anche il ricorso a bot. L’inchiesta, condotta in collaborazione con la non profit The Citizens, ha analizzato i post sponsorizzati su Facebook e Instagram sul processo, scoprendo che la media company conservatrice The Daily Wire ha speso decine di migliaia di dollari per promuovere articoli e contenuti contro Amber Heard.
Questa è, in effetti, un’opportunità perfetta per l’agenda politica conservatrice promossa da siti come The Daily Wire, che fa proprio la sua opposizione al femminismo uno dei suoi cavalli di battaglia. Heard, infatti, in questo momento è considerata una sorta di rappresentante del movimento #MeToo e una sua eventuale sconfitta al processo contro Johnny Depp diventerebbe, per osmosi, la sconfitta di un intero movimento, ignorando il fatto che molti altri casi si sono conclusi col riconoscimento della colpevolezza degli accusati (da R. Kelly a Ghisaline Maxwell, oltre che, naturalmente, Harvey Weinstein).
Non so come andrà a finire questo processo e dagli elementi emersi finora in aula credo che sia Depp che Heard abbiano colpe gravi e si siano macchiati di manipolazioni e bugie nei confronti dell’altro. D’altronde, non spetta nemmeno a me né al tribunale di Internet esprimere un verdetto, come invece sembra dal tenore dei commenti. Ma penso che al di là dell’esito, questo processo non solo segnerà molto l’opinione pubblica e verrà strumentalizzato, come sta già accadendo, da chi lo vuole usare per attaccare le lotte delle donne contro la violenza, ma in qualche modo è anche lo specchio di una guerra culturale. E ne rispetta tutte le regole.
Leggendo le cronache, sembra che si stiano svolgendo dieci processi diversi in cui accadono cose diverse. A seconda della posizione abbracciata dall’autore dell’articolo o del post, vengono omessi diversi dettagli che invece sono fondamentali non tanto per determinare chi “stia vincendo”, ma proprio cosa stia accadendo in aula. Che si parteggi per Depp o per Heard, sembra che a contare non siano le testimonianze o le carte, ma il linguaggio del corpo di tutti, dagli imputati agli avvocati. Si sta costruendo un’impalcatura sui non detti che ricorda, e non a caso, certe teorie cospirazioniste in cui c’è una realtà dei fatti che viene totalmente ignorata per insistere su congetture costruite sul nulla. I commenti al processo, che siano negli articoli di giornali o nei thread delle numerose dirette che lo trasmettono 24 ore su 24 sui social, arrivano a conclusioni affrettate e spesso paradossali: Depp ha già vinto, ha una storia con la sua avvocata, Heard ha sniffato coca in aula.
Uno spettacolo morboso e disturbante, una gigantesca base meme che sta facendo la fortuna delle testate di gossip e arriva a oscurare temi ben più importanti come la sentenza Roe v. Wade. Nessuno sembra in grado di riconoscere le uniche verità che emergono con chiarezza da questo processo: che tutti possono mettere in atto comportamenti violenti e abusanti, che le relazioni possono diventare tossiche e dannose, che la spettacolarizzazione della sofferenza altrui è atroce. In un’altra epoca, questo avvenimento sarebbe senz’altro stato raccontato con altrettanta attenzione dai giornali, ma il consumo immediato che offre Internet è un’altra cosa, e ci offre uno spaccato di come ormai facciamo fatica, come società, a distinguere i fatti dalle opinioni o di come ogni tragedia venga considerata alla stregua di una serie tv.
Diversi sociologi hanno scritto che la nostra epoca è caratterizzata dal cosiddetto collasso del contesto: quando abitiamo gli spazi digitali, non solo ci rivolgiamo contemporaneamente a platee completamente diverse, con sensibilità, età e dimestichezza dei linguaggi di Internet diversi, ma comunichiamo anche attraverso scritti sempre più brevi e slegati fra di loro. Questo processo ne è un perfetto esempio, in cui ciascuno trae le conclusioni che vuole, scegliendo solo gli elementi che confermano la propria visione del mondo. Succede per un caso di diffamazione che coinvolge due star di Hollywood, ma succede quotidianamente per ogni notizia nei confronti della quale ci sentiamo in obbligo di schierarci subito e in maniera inequivocabile.
Un’ultima cosa che dimostra con forza questo spettacolo è quanto ci piaccia vedere le donne cadere. Heard è il perfetto esempio di trainwreck, come Jude Ellison Sady Doyle chiama le celebrità di cui amiamo guardare la spettacolare caduta in disgrazia: da donna di successo, bella, sexy e sposata con uno degli attori più amati di Hollywood, Heard è diventata l’epitome della donna mostruosa, cui ogni espressione facciale, comportamento o capo d’abbigliamento viene analizzato in maniera esasperata. Si potrebbe obiettare che Heard si sia messa in questa posizione da sola, e si tratta di un’obiezione legittima. Ma forse questa morbosità dovrebbe far riflettere sul fatto che per le donne la colpa da scontare quando sono cattive è doppia: a quella delle loro azioni si aggiunge quella di un intero genere, che dall’alba dei tempi viene accusato di provocare guerre e sciagure di ogni tipo. Che l’attrice sia colpevole o meno, in un processo dove è palese non esista un’innocenza assoluta, il modo in cui viene trattata la dice lunga sul modo in cui amiamo capitalizzare sul disagio degli altri, quando non ci tocca da vicino. Qualunque sia il modo in cui questo processo finirà, sarà una sconfitta. Non di chi perderà la causa, ma della nostra capacità di giudizio.