A 20 anni dalla morte di Giorgio Gaber, il signor G è stato celebrato con la messa in onda su Rai3 del documentario di Riccardo Milani "Io, noi e Gaber", a lui dedicato. Un'occasione per celebrare un grande artista, ma soprattutto per riflettere del modo in cui Gaber ha interpretato il suo ruolo di personaggio pubblico tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio dei Settanta, per poi mantenere la linea fino alla fine dei suoi giorni.
Il suo è il caso rappresenta di un'insolita anomalia nella storia dello spettacolo italiano. Quella di Gaber è stata una sparizione senza sparire, una rinuncia al successo sintetico e materiale, l'opzione del rischio di qualcosa che fosse a lui più congeniale. Questo perché a pochi anni dall'inizio della carriera Gaber era arrivato al massimo, volto conosciuto da tutti quando stare in televisione significava essere noto a chiunque, essendo il solo canale di conoscibilità in cui voce e volto si univano in una cosa sola, potentissima per capacità di influenza se paragonata alla frammentazione contemporanea di questo mezzo.
Faceva tour con Mina, Gaber, e nel documentario Ivano Fossati racconta una cosa bellissima sebbene sia scontata: "Per la prima volta molti di noi videro Mina a colori". Insomma, il cantautore milanese era all'apice, ma proprio all'apice lasciò, in aperto contrasto con le logiche del mezzo di comunicazione di massa per eccellenza. La sua metamorfosi artistica, direi la sua naturale evoluzione, lo portò a coniare con Luporini una forma espressiva – il teatro canzone – diventata uno stile inimitabile ma allo stesso tempo ispirazione di tantissimi artisti che non sono riusciti ad avvicinarsi alla sua caratura, perché erano tempi diversi, perché loro erano troppo diversi.
Non è stato mica il solo a sparire, commenterà qualcuno, ma quella di Gaber resta una scelta unica. Questo perché, a differenza di quanto avrebbero fatto personaggi come Mina e Battisti, i quali si isolarono da un'attenzione ossessiva quasi per una necessità di sopravvivenza, Giorgio Gaber abbandonò semplicemente il tubo catodico. Come aveva raccontato a Guido Harari: "La fine degli anni Sessanta era un periodo straordinario, carico di tensione, di voglia, al di là degli avvenimenti politici e non, che conosciamo, e fare televisione era diventato dequalificante. Mi nauseava un po' una certa formula, mi stavano strette le sue limitazioni di censura, di linguaggio, di espressività, e allora mi dissi, d'accordo, ho fatto questo lavoro e ho avuto successo, ma ora a questo successo vorrei porre delle condizioni". Gaber scelse quindi di esistere solo in carne ed ossa, in teatro, sudando all'inverosimile ogni sera, sfibrandosi:
"Mi sembrò che l'attività teatrale riacquistasse un senso alla luce del mio rifiuto di un certo narcisismo".
Il rifiuto del narcisismo, una scelta che oggi potrebbe apparire inverosimile per chiunque si ritenga personaggio pubblico e navighi nell'universo mediatico contemporaneo tra televisione e piattaforme. E pure una svolta di questo tipo non è da escludere proprio nel tempo in cui l'onnipresenza, l'ubiquità multipiattaforma dei volti noti, il bisogno di essere ovunque, potrebbe presto portare alla tendenza di un'inversione di tendenza. Insomma, Gaber potrebbe fare scuola, diventare un riferimento, un simbolo, ma soprattutto un modello e sarebbe interessante se il dibattito sul suo valore artistico aprisse un varco. D'altronde, il talento risiede spesso in chi sa nascondersi e celarsi è diventata, non a caso, una tecnica di comunicazione. Basta considerare ai fenomeni di artisti che volutamente non dichiarano la propria identità, oppure a coloro che ragionano in una logica di sottrazione di sé.