Zerocalcare: “Sostituzione etnica ed estrema destra sembravano storia passata. E invece no”
Incontrare Michele Rech alla presentazione della sua nuova serie appare da subito un appuntamento immancabile e non solo per la stampa. La città dell'altra Economia di Roma si riempie a poco a poco di fan di Zerocalcare ed è un attimo alla ressa quando la voce si è sparsa sulla possibilità di vedere i primi due episodi di Questo mondo non mi renderà cattivo con lui.
Di lì a poche ore la nuova serie di Zerocalcare finirà su Netflix e potrà aggiungersi alla precedente, Strappare lungo i bordi, che continua a macinare accessi e riflessioni. Fanpage.it lo ha raggiunto per capire quanto questo mondo ci ha peggiorati e come, ma soprattutto in che modo potremmo ancora contrastare l'ondata d'odio che si nutre delle solitudini di chi resta inevitabilmente indietro perché abbandonato a se stesso.
Partiamo dal titolo Questo mondo non mi renderà cattivo. Quale mondo ci ha reso cattivi e come?
Quello in cui a un certo punto abbiamo pensato che non esistesse più un modo di salvarci tutti insieme e ognuno ha pensato a salvare se stesso. E quindi sgomitando, passando sopra a qualcun altro e questa roba per forza poi te peggiora.
La serie si apre su un manifesto strappato che recita ‘No alla sostituzione etnica' e i singoli episodi denunciano gradualmente la violenza nazista di gruppi di estrema destra. Hai detto di averla scritta quattro anni fa, come ti sei sentito a sceglierla in questo particolare momento storico?
In realtà c'è stato un periodo in cui sembrava storia passata. E poi invece, mentre ci stavamo lavorando, tutta una serie di temi sono ritornati all'ordine del giorno. A partire dal termine sostituzione etnica che sembrava fatto apposta, ma in realtà era molto precedente. Non sono particolarmente stupito perché penso che poi tutto quello che è stato seminato a un certo punto doveva per forza ritornare. Le cose non spariscono nel nulla, anche se avrei preferito fosse invecchiata.
L'odio si nutre della solitudine delle persone, mi è parso di capire.
Sì, infatti è una serie che in realtà parla anche molto dei limiti dell'amicizia, cioè dei fallimenti dell'amicizia, di certe amicizie, anche le mie in primis, per tutte le volte in cui non sono stato in grado di stare accanto alle persone a cui volevo bene e le ho lasciate indietro. Le reazioni che ne derivano sono sempre di rancore.
Il non lasciare indietro le persone lo vivi in modo utopistico?
No, penso che sia una cosa realizzabile, anche se è molto difficile. Io stesso non sempre ci sono riuscito. Al netto di questa difficoltà, è quello verso cui dovremmo tendere, sia a livello individuale, nei nostri rapporti umani, sia a livello politico.
C'è una parola ricorrente: accoglienza. Parte dal centro di accoglienza che vogliono vedere chiuso nel quartiere e si estende, in generale, a un'accoglienza verso l'umanità. Questo sentimento è derivato da qualcosa che vedi carente nella società di oggi?
Sì, ma io penso che non sia una questione di bontà. Se vedi crescere delle società in cui ci stanno cittadini di serie B, dove si creano delle sacche di rancore e discriminazione, è qualcosa che poi prima o poi verrà a bussare alla porta. Non puoi pensare di vivere sempre come nei quartieri fortificati brasiliani con i mitra che tengono lontani i poveracci. Per forza di cose uno deve pensare al fatto che dobbiamo vivere insieme e non possiamo trincerarci ognuno nel suo.
L'Armadillo, quindi Valerio Mastandrea che lo doppia, è molto più presente in questa serie. È un momento che ti richiedeva maggiore coscienza?
Diciamo che era molto necessario che ci fosse un personaggio che facesse da contraltare ai miei dubbi, che o a volte me li alimentasse o me li deridesse. Perché sennò rischiava di diventare qualcosa di melenso. Il fatto di avere un personaggio che in qualche modo riporta tutto alla concretezza è qualcosa che serve anche a me, proprio nella vita.
Il tema del lavoro. Il vero gap relazionale stavolta lo vivi con la tua amica Sarah, che resta professionalmente indietro. T'ha detto bene a nemmeno 40 anni, ti senti a disagio rispetto ai tuoi coetanei?
Non solo ai miei coetanei, in generale rispetto alle persone con cui sono cresciuto. È strano perché magari sono persone molto più generose e intelligenti di me, però non riescono a collocarsi nel mondo. Stanno magari ancora a fare l'inventario al supermercato, nonostante abbiano più qualità di me, quindi questa cosa a volte mi sembra anche un po' ingiusta. Poi al tempo stesso, sono persone che hanno già due figli, un tipo di stabilità affettiva ed emotiva che invece io non sono assolutamente riuscito a costruirmi in questi anni. Vivo sicuramente una situazione strana.
Una situazione in cui convivono la gioia di fare le cose che ti piacciono, e in cui riesci, e il senso di colpa delle persone che lasci indietro.
In cui convivono male, appunto. E io cerco di esorcizzare questo malessere nelle serie tv, rompendo il cazzo a mezza Italia con i patemi miei.
L'uso del dialetto romano, in questa serie lo esorcizzi con una battuta, tirando in ballo I Cesaroni. Cosa ti diranno questa volta?
No, non lo so. Penso che ci sia molta più ciccia su cui polemizzare. Ma sono contento che sia stata sollevata quella obiezione perché in realtà, oltre a trovarla è ridicola, mi ha permesso di farlo diventare anche materiale narrativo per questa stagione.
Il doppiaggio: a parte Valerio Mastandrea per L'Armadillo, ci sono Chiara Gioncardi per Sarah e Paolo Vivio per Secco, con i quali torni ad alternarti in base alla narrazione.
Sì perché quando ci sono io che racconto, faccio tutte le voci. In mia assenza, in questo caso durante i loro interrogatori, entrano in campo i doppiatori.
Sbaglio o a un certo punto spunta la voce di Silvio Orlando in caserma?
Sì è lui.
Perché hai scelto proprio lui per quel personaggio?
Ci siamo incontrati sul treno, mi ha fatto i complimenti per Strappare lungo i bordi, e il mio editore gli ha chiesto se gli avesse fatto piacere doppiare uno dei nuovi personaggi. Ha accettato in maniera super tranquilla.
Torniamo alla trama. Le periferie sono viste ai margini della società e date in pasto allo stereotipo, perché è ancora così?
Perché spesso di chi ha gli strumenti per raccontare le cose non vive le periferie e quindi le racconta in maniera stereotipata e altrettanto spesso chi invece quelle cose le vive non ha gli strumenti o l'accesso a quegli strumenti per raccontarle. Quindi in realtà ne viene sempre fuori un racconto monco. Per fortuna sia attraverso la musica sia attraverso internet si riescono ad avere dei pezzi di racconto di periferia sicuramente più onesti.
Dopo le serie la tua difficoltà con la sintesi riuscirà ad accollarsi davvero un film?
Al momento non è all'ordine del giorno, non ho nulla di strutturato.
E come sogno tenuto in un cassetto?
A me piace molto il cinema, cioè l'esperienza della sala. Prima o poi mi piacerebbe, ma un'idea adatta al momento non ce l'ho.
Ok, allora parliamo di cose serie (ironica, ndr): per una serie di vicissitudini hai iniziato a mangiare il gelato a trent'anni. Come mai la fissa del gelato a secco con un alimento così poco familiare?
È vero, nel senso che però io per decenni, quando lui diceva ‘Andiamo a pijà er gelato' io prendevo il frullato. Adesso possiamo prenderlo insieme, mentre prima lo facevo solo contento.
E quali gusti prendi?
Io la frutta.
Mentre lui rigorosamente fondente sennò gli esce il sangue dal naso.
Esatto (ride, ndr)