Vincenzo Salemme: “Con Natale in casa Cupiello omaggio Eduardo senza paragoni. Dopo 50 anni di lavoro, penso a una pausa”
Giovedì 26 dicembre in prima serata su Rai1, in diretta dall’Auditorium Domenico Scarlatti della sede Rai di Napoli, Vincenzo Salemme porta in scena Natale in casa Cupiello, la commedia di Eduardo De Filippo. Dopo una tournée tutta sold out in giro per l'Italia, il noto attore e regista napoletano approda in prima serata sulla rete ammiraglia per "omaggiare Eduardo e dare una carezza al pubblico, che mi dimostra sempre il suo affetto", ha dichiarato in questa intervista a Fanpage.it, "c'è quella bella tensione da debutto, teatro e televisione che si incontrano".
Sulla possibilità di un paragone con Eduardo De Filippo: "Non mi ha mai sfiorato l'idea, epoche e attori con un umanità interpretativa superiore, io poi non gli somiglio proprio". Il presepe che non fa da anni, il caffè che preferisce prendere al bar e una paura in particolare, quella di non farcela più a reggere questi ritmi: "Dopo 50 anni di lavoro incessante, forse dovrò pensare a un momento di pausa".
Una bella responsabilità entrare nelle case degli italiani il giorno dopo Natale.
Vorrei fare una carezza al pubblico e un omaggio a Eduardo, più che una responsabilità è un impegno bello. È come essere Babbo Natale che porta un sorriso, un ricordo di quei tempi magnifici, di quella bellissima civiltà teatrale. La voglia di portare un messaggio d'amore alle famiglie italiane.
La differenza tra teatro e tv?
Anche in teatro tendo ad annullare la quarta parete, è come se scendessi sempre in platea dal pubblico. Sulla Rai avrò anche la platea ma in uno studio televisivo, è inevitabile che l'enfasi che si crea a teatro possa creare un freno sul piccolo schermo. Per cui, bisogna richiedere agli attori di essere più naturali possibili, dare la sensazione che tutto stia avvenendo davvero in quel momento.
Cosa ci dobbiamo aspettare?
Una compagnia ben preparata, questa è una certezza. Le persone devono capire quanto rispetto c'è per questo modo di scrivere il teatro, per Eduardo. Aspettatevi il testo di Natale in casa Cupiello con la sua solennità e le nostre interpretazioni. Lo stesso messaggio e lo stesso calore.
E cosa proprio no?
Una comparazione con Eduardo in senso stretto. Non ho timore di confrontarmi con lui perché questo contemplerebbe il potermi confrontare e non ci penso proprio. Per me gli attori di quell'epoca sono inarrivabili. Noi viviamo in un'epoca di benessere, e sì di nevrosi, che non può essere minimamente comparata con il terrore della guerra, della fame, il freddo vero. Non potremmo mai raggiungere quella umanità interpretativa. Il problema non me lo sono posto, anche perché non ci somiglio proprio ad Eduardo. Il paragone con Eduardo, poi, sarebbe sminuire il testo, perché vorrebbe dire che il testo è secondario e invece no, per me il testo è superiore a Eduardo attore.
Ci dici il ricordo più nitido di una scena o un aneddoto con il quale possiamo far capire l’eccezionalità di lavorare con un mostro sacro come Eduardo?
Mi ricordo le chiacchierate nelle pause delle prove. Gli altri attori andavano a prendersi il caffè e io invece restavo vicino a lui, che mi raccontava un sacco di fattarielli. Una cosa in particolare mi fulminò: mi disse "perché credete che viene tutta questa gente a teatro? Perché aspettano che io muoia sul palco". Mi fece capire che il teatro è proprio l'arte del presente assoluto, è assenza totale di passato e futuro, puoi anche morire in palcoscenico e quel decesso lo potranno vedere solo quegli spettatori di quella sera precisa. Più che un aneddoto, è stato un insegnamento per tutta la vita.
Hai paragonato questa commedia a Pinocchio, perché?
Per la figura di Geppetto, questo padre falegname che cerca di avere un figlio e trasforma in carne e ossa un pezzo di legno. Lui è un discolo e lo fa penare, ma quanto amore c'è che li unisce? Ed è lo stesso amore che fa da collante tra Luca Cupiello e suo figlio, quell'amore che cerca di trasmettere a entrambi i figli ma non sempre è ricambiato, tende alla conflittualità. In ogni epoca c'è il divario generazionale, la difficoltà di incontro tra passato e futuro, che lascia spazio solo al presente, al sapersi mostrare qui e ora ai figli, senza sguardi nostalgici o particolari presunzioni.
Parlando di falegnami, grande protagonista è il presepe. Tu lo fai?
No, non lo faccio più. Da bambino lo faceva mio zio, oggi mi piacerebbe ma non ho più lo stesso tempo.
E nell'accezione più eduardiana, sei allineato a quel ‘semmai qualcosa, io non ne so niente, faccio il presepe’?
Un uomo che non riesce a maturare e una moglie che lo ammonisce da un lato, ma gli ricorda che fuori fa freddo e lo tiene all'oscuro di alcune cose, per non farlo soffrire. Questo non va bene perché la vita non è un presepe, scorre, è impossibile trattenerla.
Sappiamo dai social, che sei un bravo cuoco, ma il caffè lo sai fare?
Non lo so fare (ride, ndr), preferisco il caffè del bar con la sua crema e la convivialità che lo accompagna.
La lettera di Tommasino è un cult. Togliendo la specifica nota della salute, se dovessi scriverne una tu per Natale, chi terresti fuori?
Non includerei gli ipocriti, mi piacciono le persone che si mostrano per quelle che sono. Escluderei tutti quelli che si propongono per quelle che non sono.
Il tuo rapporto con il pubblico negli ultimi anni si sta consolidando particolarmente sotto Natale, in prossimità delle feste. È una dimensione familiare in cui senti di essere compreso?
Sempre, faccio lo spettacolo grazie al pubblico. Noi artisti senza di loro non esistiamo, è una legge quantistica.
Eduardo ha attraversato il sentimento della paura nelle sue sfumature più ampie, un'emozione che può essere uno sprone, non solo un limite. Qual è la paura che oggi senti maggiormente?
La sofferenza delle persone a cui voglio bene, non la riesco a gestire, mi prende il panico.
E quella artistica?
Alla luce di circa 150 giorni di prove per riportare in scena Natale in casa Cupiello, temo che in futuro non riuscirò a reggere questo tipo di ritmo. Non so ancora quanto fisicamente riuscirò a sostenerlo, per cui un po' di paura di non farcela ce l'ho adesso. Dopo 50 anni di lavoro incessante, forse dovrò prendermi una pausa.