Tim Burton a Fanpage.it: “Il mio incubo da bambino? Svegliarmi per andare a scuola”
Dice Domenico De Gaetano, direttore del Museo del Cinema di Torino, di aver sempre amato la settima arte. Da Cronenberg a Greenaway passando per Lynch. Tim Burton, a cui è dedicata un’intera mostra e a cui verrà consegnato il Premio Stella della Mole, "ha reinventato il cinema americano e hollywoodiano con uno stile particolare: dark, talvolta macabro e cupo, quasi grottesco. Ha privilegiato l’attenzione per personaggi marginali e outsiders, rendendoli protagonisti delle sue storie".
Ma soprattutto, spiega De Gaetano, lo stile di Burton è stato capace di appassionare innumerevoli generazioni. "È l’artista perfetto per la Mole Antonelliana e questa mostra ci permette di entrare nel suo immaginario creativo, mostrando tutto ciò che c’è dietro e attorno al suo cinema". Clown colorati che reggono boccette contrassegnate da teschi e ossa; pesci alieni di tutte le forme e dimensioni, armati di razzi e pistole, che circondano (abbracciano?) la Terra. E poi sagome nere e stralunate, con gli occhi circolari e senza bocca, donne bellissime e fluttuanti, una sposa cadavere sorridente e delicata, pirati, ancora clown, quello che sembra essere un circo, e poi numeri, sagome, linee che si ritrovano e si rincorrono.
Il mondo di Tim Burton riprende vita nei suoi disegni, nelle sue opere e nei suoi bozzetti. Parla una lingua universale, che è la lingua delle matite e dei colori, delle dita che sfumano il carboncino o delle gomme che cancellano con forza. È la lingua delle idee che si piegano davanti alla bidimensionalità di un foglio di carta e un foglio di carta, per i segni che lo solcano, si trasforma nella porta per un altro universo. È la lingua che esprime chiaramente non solo la visionarietà – che è tanta, enorme, totale – ma anche quelli che sono i pilastri della creatività. Dopo il successo di Wednesday su Netflix e le riprese del sequel di Beetlejuice, Burton è pronto per Torino e si dice contento: “Ho visto fotografie del luogo dove sarà allestita la mostra. E per me questo, il luogo, è un elemento fondamentale”.
Perché?
Perché, se il luogo è giusto, può addirittura migliorare ed esaltare i contenuti della mostra, rendendo l’esperienza del visitatore più emozionante.
Che effetto le fa ripercorrere la sua carriera in questo modo?
È strano. Anche anni fa, quando hanno messo insieme per la prima volta alcune delle cose che ho fatto, è stato sorprendente. Io non ho mai curato o seguito direttamente nessuna di queste mostre; e quindi ogni volta, proprio come se fossi uno spettatore qualunque, scopro quello che è stato selezionato. Nella maggior parte dei casi parliamo di cose vecchie: disegni, bozzetti, schizzi. Cose di cui ho finito per dimenticarmi completamente. Vederle insieme, esposte, è stupendo. E allo stesso tempo inquietante.
Inquietante?
Sento emozioni contrastanti. Da una parte sono ovviamente orgoglioso, ma dall’altra sono anche spaventato, esposto, vulnerabile. Alla fine provo soprattutto felicità. Rivedere questo tipo di mostre riesce a darmi una nuova energia.
Che cosa ricorda degli anni che ha trascorso alla CalArts, la scuola che ha frequentato?
(ride, ndr) Me li ricordo come un periodo piuttosto strano. Nelle altre classi c’erano persone come John Lasseter, Brad Bird e John Musker. Persone con un talento incredibile. Ricordo anche il rapporto con gli insegnanti. Per me, fu un’esperienza decisamente nuova e utile, perché non ero mai stato in un posto simile. Ho imparato tantissime cose dagli altri. Si organizzavano delle feste di Halloween semplicemente pazzesche.
E invece che cosa ricorda dell’esperienza come animatore alla Disney? Di quella sente la mancanza?
No, per niente. Innanzitutto ero un animatore terribile. E per diverso tempo, proprio per questo motivo, mi hanno lasciato disegnare per altri progetti. Ho lavorato per almeno un anno su The Black Cauldron, e ho aiutato a sviluppare il design di altri film, sia di animazione che in live action, che poi non sono mai stati prodotti. Ma sì, ho avuto la possibilità di disegnare. Disegnare e basta. Ed è questo, se proprio devo scegliere, che alla fine mi manca. Venivo pagato per fare quello che volevo fare. Certo, ufficialmente ero un animatore, ma sono riuscito comunque ad avere idee mie, idee che sono diventate film.
Quanto è importante, per lei, disegnare?
Non sono un grande disegnatore. Poter disegnare mi permette di perdermi nei miei pensieri, di affrontarli, di trovare strade che non pensavo di poter trovare. Non sono mai stato un abile comunicatore, mai. Soprattutto con le parole. Il disegno mi ha permesso di esprimermi, di esplorare le mie idee, di dare una consistenza precisa ai miei pensieri. Fa parte di me.
Come regista, qual è l'aspetto che più le piace del suo lavoro?
È difficile da dire, ovviamente. Ma credo che il momento davvero speciale sia quello che condividi con gli altri, quando puoi stare con gli attori e ascoltarli. Quando disegni, sei da solo. Quando fai un film, invece, sei circondato dalle persone. Ed è una cosa che mi ha quasi costretto a esprimermi. Condividere del tempo con gli altri dà un’energia straordinaria; stare in compagnia ti permette di vedere il tuo progetto da un altro punto di vista e di capirlo – se possibile – più a fondo.
So che le piacciono i film di Mario Bava. Perché?
Sono cresciuto guardandoli. All’inizio non sapevo che fossero suoi. Ma a furia di rivederli, di ritrovarmeli davanti, ho scoperto anche il suo nome. Mi bastava una scena o una singola per riconoscerlo, forse la mia era più una sensazione che una certezza. Penso, per esempio, a La maschera del demonio. Se ho imparato a conoscere Mario Bava è stato grazie alle sue opere.
In una conversazione con Danny Elfman, ha detto di non aver mai avuto incubi dopo aver visto un film. Se li ha avuti, è stato per la sua famiglia e per il mondo che la circonda. È ancora così?
Quando ero bambino, il mio più grande incubo era sognare di dovermi svegliare per andare a scuola. E quando succedeva, mi alzavo di scatto, terrorizzato e sudato. I film sono una parentesi, un momento, ti permettono di vivere e di provare cose che solitamente non vivi e non provi. Gli incubi, invece, sono una parte di quello che sei, vivono dentro di te, non ti abbandonano mai. Non davvero.
Nei quasi quarant’anni della sua carriera, quanto sente di essere cambiato? O non è cambiato per niente?
Sono sicuramente più vecchio. Ci ripetiamo spesso che vogliamo cambiare, sì, e solo in meglio. Personalmente più volte ho provato a trovare dei compromessi con la rabbia o con ciò che non amo. La verità, però, è che non credo che cambiamo. Non davvero. Chi sei da ragazzo è la stessa persona che sei da adulto. Puoi trovare un equilibrio nella tua vita, certo: non dico di no. Ma alla fine sei quello che sei.
Perché ha scelto di fare proprio questo lavoro?
Onestamente non l’ho scelto. All’inizio mi sono avvicinato all’animazione, poi, però, ho scoperto di non essere granché come animatore. E allora ho continuato a disegnare e a fare i miei primi corti, e dai corti sono passato ai film. Mi sono sempre sentito strano e fortunato. Diventare regista è una cosa che mi è successa. Io ho seguito le mie passioni, e sono state le mie passioni a guidarmi.
Se non sbaglio, ha quasi finito Beetlejuice 2. Ma c’è qualcosa che le piacerebbe fare e che non ha ancora avuto la possibilità di fare?
Non lo so. Per dirle, non ho mai pensato di voler fare un sequel di Beetlejuice, ma eccoci qui. La cosa che mi ha incuriosito, in questo caso, è stato poter raccontare una storia dopo 35 anni, riprendendo quei personaggi e lavorando di nuovo con quegli attori per scoprire che cosa è successo. E questa, per me, è stata una motivazione più che sufficiente. È come nella vita di ogni giorno, no? Prima siamo giovani, poi siamo anziani. E vogliamo sapere cosa c’è stato nel mezzo. Volevo approfondire la storia di Lydia, vedere com’era cresciuta e cambiata. Quindi è questo, quello che cerco. Domande e motivi interessanti.
In che modo descriverebbe il suo rapporto con il tempo?
Non riesco a seguirlo, a tenerne una traccia. A volte, mi creda, faccio quasi fatica a ricordare in che anno ci troviamo. Mi piace essere in orario quando faccio qualcosa. Ma niente di più. Non ho nessuna idea di cosa sia il tempo o di che significato possa avere. Nella mia vita, navigo a vista.
In moltissimi hanno provato a definire lei e la sua arte. Ma qual è quella cosa, quell’elemento, che secondo lei la contraddistinguono?
Quando ero giovane pensavo di essere destinato a disegnare. Quando ho capito che non era la cosa che mi riusciva meglio, ho cercato di disegnare esattamente nel modo in cui sentivo di volerlo fare. E la stessa cosa, secondo me, si può adattare ai miei film. Ho sempre fatto quello che volevo fare. O almeno, ecco, ci ho provato. Non mi sono mai posto problemi come: questo film è per adulti o per bambini? L’idea è dare tutto sé stesso, è affidarsi a quello che si sente, e sperare nel meglio. Non ha alcun senso, per me, pensarci.
Dal suo punto di vista, come sta il cinema?
Prima e durante il COVID, tutti lo davano per spacciato, dicevano che non c’era più spazio per quel tipo di esperienza e che il futuro apparteneva allo streaming. Ma guardiamo in che situazione ci troviamo oggi; pensiamo ai film che sono usciti. La verità è che le persone vorranno sempre andare al cinema, stare in una sala insieme e vivere certe cose in compagnia di sconosciuti. I film continuano a essere stupendi, importanti ed è per questo che vogliamo vederli. Personalmente, mi sento molto positivo per il futuro del cinema.