Sergio Castellitto: “Chiunque fa serie, il cinema è devastato. Mio figlio Pietro è migliore di me”
Sergio Castellitto, attore, regista e sceneggiatore, è uno dei protagonisti di maggior successo – dagli anni ‘80 a oggi – del miglior cinema italiano e un interprete fra i più completi, anche a teatro, in grado di passare da ruoli drammatici a quelli della commedia e sempre imprimendogli un proprio stile personale. Fanpage.it lo ha incontrato tra una pausa e l’altra del nuovo film con Valerio Lundini e in vista di una data importante, ma alla quale non sembra dare troppo peso: il 18 agosto compirà 70 anni.
"I sogni non li avevo neanche a 30, si portano appresso la frustrazione di non averli realizzati", ci racconta quando gli chiediamo se, dopo tante soddisfazioni, ha ancora un desiderio da realizzare. Nel mentre, ci ha raccontato i suoi inizi senza una particolare vocazione e a causa di "una nevrosi giovanile". Perché, ne è certo, "le cose che ami le fai meglio se un po’ le detesti". Ancora, di come Shakespeare, Čechov e Molière lo hanno salvato dal terrorismo e dalla droga e cosa sta diventando il cinema in un’epoca dominata dalle piattaforme streaming: "È sempre meno influente in generale, non solo quello italiano".
Intanto, ci confessa, "il vero grande successo sarebbe quello di smettere. Mi piacerebbe prendermi la soddisfazione, per qualche anno, di non sentirmi per forza un attore". Anche perché c’è già in famiglia chi, a detta sua, è ormai diventato più bravo di lui: il figlio Pietro Castellitto.
Sergio Castellitto quando ha capito che voleva fare l’attore?
Non ho mai avuto una particolare vocazione. Ho cominciato più per il rigurgito di una nevrosi giovanile in risposta alla sceneggiatura che mi era stata consegnata dalla vita. Provengo da una realtà dove non era stata contemplata la possibilità artistica. Una famiglia di lavoratori italiani.
Cosa prevedeva quella sceneggiatura?
Il mio progetto di vita era naturalmente scelto da una famiglia normale che tira su i figli, li fa studiare e poi li spinge a trovarsi un lavoro sicuro. A quel percorso ho detto no. Un rifiuto che è un diritto dei giovani. Infatti ho cominciato lavorando in una azienda che si occupava della distribuzione dei giornali. Poi ho conosciuto dei ragazzi che frequentavano l'Accademia nazionale d'arte drammatica e cominciato di nascosto a intrufolarmi come uditore. Finché un giorno ho rotto quel “vetro” e ho iniziato, un po’ come nell’attimo fuggente, che è una metafora ancora attuale.
Se non avesse funzionato la carriera da attore ha mai pensato a una alternativa?
No, mai! Quando mi facevano questa domanda anni fa rispondevo, per amore di originalità, che avrei fatto l’attrice. Oggi la problematica gender non mi permetterebbe più di dirlo. Io credo che il mestiere dell’attore si fondi su una nevrosi. C’è qualcosa di straordinario e sconcertante in un individuo che sale su un palco e pretendere l’attenzione degli altri. È quantomeno bizzarro. Poi ci sono le banalizzazioni per cui l’attore vince la sua paura verso il mondo attraverso il mettersi in mostra, ma io credo che le cose che ami, in fondo, le fai meglio se un po’ le detesti.
Un po’ come ha raccontato il tennista Andre Agassi nella sua autobiografia Open.
Sì, vedo questo mestiere anche come qualcosa di riprovevole e deleterio, che può tirarti fuori le parti peggiori, dalla competitività all’ego smisurato. Ti spinge a compiere delle rinunce, non solo sociali, ma interiori. Per affrontarlo con convinzione devi accettare anche la possibilità di diventare peggiore. Sono convinto non ci sia niente di più politico della psiche. Certo, è anche un mestiere che mi ha portato gioie e soddisfazioni, in un mondo nel quale spesso la gente non lavora o non fa il lavoro che ama.
Quando si è accorto, invece, che avrebbe potuto mantenersi facendo l’attore?
Potrei dirti quando non ho più guardato il telefono aspettando che squillasse. Ma qui entriamo in un’altra questione interessante. Un attore esiste se c’è qualcuno che lo guarda e ne giudica il talento, quindi arriva un momento, se hai un po’ di sensibilità, che acquisisci una autocoscienza di ciò che stai facendo. Non è vanità. Cominci a giudicare il tuo lavoro al di là del giudizio degli altri. Detto questo, non considero gli attori artisti puri, ma semmai dei nobili artigiani.
C’è mai stato un periodo in cui quel telefono ha smesso di squillare?
Per fortuna sì. Come non credo nelle carriere integerrime, non ho mai immaginato che la coerenza fosse di per sé un valore. Ci sono molti motivi per i quali decidi di fare un film o di non farne un altro, dal piacere di condividere il set con determinati registi e attori, per la storia che ti propongono o per soldi. Ma la possibilità di cambiare opinione è una grande ricchezza. Certamente ci sono stati periodi nei quali il telefono è squillato di meno, però non me ne sono mai crucciato tanto. Ho la fortuna essermi costruito attorno un grumo affettivo, la mia famiglia, che mi ha fatto considerare l’essenzialità di quel che mi accadeva in maniera poco ego riferita.
In una intervista al settimanale Oggi disse: "Dal diventare terrorista mi ha salvato Shakespeare".
Gli anni dei miei inizi, i ‘70, erano terribili. Da frequentatore dell’Accademia, dopo aver superato l’esame, ho avuto l’opportunità di conoscere Shakespeare, Čechov, Molière che mi consentirono la mia piccola rivoluzione interiore. Nel teatro di quegli anni ho trovato la possibilità di costruirmi una consapevolezza che mi ha permesso di non cadere nell’orrore del terrorismo e anche quello della droga, i due passaggi infernali della mia generazione. E per me fare teatro era impegno politico.
Qual è la sua migliore e la sua peggiore interpretazione?
Non ci ho mai pensato, perché mi sono sempre sentito inadeguato. tutt’ora che sono arrivato a 102 film. Non la ritengo una fragilità, ma quasi uno strumento di lavoro. Il sentirsi “studenteschi” è una ottima base di partenza. Si dice “ho fatto del mio meglio”, oppure “faccio quello che posso e non quello che voglio”. Mi è andata bene che quello che ho fatto un valore lo ha avuto.
Lei è considerato una degli attori più completi, in grado di passare dai ruoli drammatici alla commedia ma sempre imprimendo una personale impronta. Qual è il segreto?
Se guardi un quadro di van Gogh o di Modigliani riconosci il loro tratto. Sono riferimenti altissimi, ma per dire che non vedo perché un attore non debba rivendicare di poter firmare in basso a destra la propria interpretazione. All’inizio non ce l’avevo, adesso ne ho coscienza. Un buon attore credo sia un buon narratore, un buono scrittore se vogliamo. Per questo mi piace pensarmi, più che come un realizzatore di una performance, come qualcuno che racconta una storia.
Anagraficamente può essere considerato un traghettatore del mestiere attraverso almeno tre generazioni. Come ha vissuto questi passaggi?
Tra le mie fortune c’è anche quella di essere stato una sorta di “attore cerniera”. Ero nella categoria giovani emergenti negli anni ‘70, allievo dei grandi come Scola, Monicelli e Ferreri, che sono stati fondamentali. Poi ho lavorato con quelli della mia generazione, come Tornatore o la Achibugi. A seguire con gli “zii” Bellocchio e Amelio, fino agli anni dove sono diventato il veterano che lavora con i giovani autori, ricordo tra gli altri il film Alza la testa di Alessandro Angelini. Ho avuto la possibilità di sperimentarmi sia da allievo che da esperto, quest’ultima una definizione terribile…
Come mai terribile?
L’esperienza è un valore importante, ma è anche una trappola infernale. Ti porta a non inventare più nulla, a rifare le stesse cose, a diventare il monumento, a volte patetico, di te stesso. Il vero grande successo, che io non mi posso permettere, sarebbe quello di smettere. Sogno un gesto straordinario come quello di appendere i famosi guantoni al chiodo.
"Io penso che un attore dovrebbe scrivere sempre accanto al curriculum delle cose fatte anche il curriculum delle cose che non ha voluto fare. Recitare significa anche esprimere la tua opinione, ogni film fatto rappresenta una scelta precisa", ha dichiarato al Corsera.
Ma certo, è un bell’esercizio. Ogni tanto tutti abbiamo bisogno di fare un passo indietro e storicizzare la nostra vita come se non appartenesse a noi. Questo è un mestiere che ci fa stare troppo al centro di un ciclone dove i protagonisti siamo sempre noi stessi. Anche per questo smettere sarebbe un gesto meraviglioso. Mi piacerebbe prendermi la soddisfazione, per qualche anno della mia vita, di non sentirmi per forza un attore.
Fra i no che ha detto ce n’è uno di cui si è pentito?
No, perché non credo neanche ai rimpianti. Tu sei ciò che hai deciso di fare e quindi di sbagliare. Tutto compone quello che sei. Il filosofo Eraclito sostiene che il carattere determina il destino. Ricordo un episodio divertente. Scola mi chiamò per un piccolo ruolo nel bellissimo affresco che era La famiglia e rifiutarlo fu un gesto di alterità, perché me ne volevo andare in vacanza con la mia fidanzata, che poi è diventata mia moglie. In seguito mi richiamò per un altro ruolo e decisi di accettarlo. Alla fine ho lavorato con Scola e conosciuto mia moglie, penso sia meglio di un Oscar.
A proposito di Oscar, nel 2017 dichiarò: «Non hanno scelto il mio film, Fortunata. Agli Oscar la nostra coppia non può andare. Non abbiamo padrini né protettori. C’era successa la stessa cosa per Non ti muovere». È ancora così?
Io e Margaret siamo due persone molto libere e non raggruppabili a un sentire che vada di là o di qua. È stato il vero premio che ci siamo fatti, ma che in qualche misura abbiamo pagato. L’Italia è un Paese che fatica ad accettare il successo, bisogna sempre trovargli una motivazione recondita. Noi siamo una coppia molto amata e quindi molto invidiata. Fa parte del gioco. Ma oggi quelle cose non le ridirei, perché non me ne fregherebbe più niente di dirle. Non ce n’è più bisogno.
Pierfrancesco Favino qualche tempo fa ha detto che il cinema italiano è sempre meno influente all’estero. Ha ragione?
A me sembra che il cinema sia sempre meno influente in generale. Da quando faccio questo mestiere sento parlare di “crisi del cinema italiano”. Ricordo che nella parola crisi c’è una grande fertilità, ma il cinema è anche un gesto industriale. È poesia che costa un sacco di soldi. Penso che la sua complessità e la sua manifestazione assoluta siano in crisi e tutto ciò colpisce ancora di più perché in fondo è un’arte giovane. Ha solo un centinaio di anni, a differenza dei 4mila anni nei quali si tramandano le tragedie a teatro.
Crisi per crisi, il teatro paradossalmente sembra passarsela meglio?
Quando un’arte accetta la sfida della tecnologia è destinata ad accettare le mille trasformazioni che implica. Io sono di una generazione che assisteva al montaggio con la moviola tradizionale e quando arrivò l’Avid (un software di editing, nda) fu una rivoluzione a detta di molti dannosa. Adesso è diventato normale e superato. Ho un amico che lavora a una serie americana e mi racconta che gli attori vengono convocati e scannerizzati e poi se ne vanno a casa e verranno richiamati per il doppiaggio. Almeno fino a quando anche le voci non saranno clonate… Insomma, finiranno con lo stampare attori i 3D, anche per questo sono contrario alla carne prodotta in laboratorio. In questo scenario rimane straordinaria la potenza e la modernità del teatro, che è un continuo ritorno al bisogno della materia.
In una scena dell’ultimo film di Nanni Moretti, Il sol dell’avvenire, il regista al cospetto di alcuni responsabili di una piattaforma streaming si sente rispondere: "Nella sua sceneggiatura non c’è il momento motherfucker”, cioè quello che deve stupire il pubblico. A lei è mai capitato?
Per ora no, ma fa parte dell’inevitabile progresso. C’è una notizia di pochi giorni fa che è molto significativa e mi sembra sia stata sottovalutata ed è sullo sciopero degli sceneggiatori americani rispetto alla progettazione di storie da parte dell’intelligenza artificiale. Possiamo scandalizzarci, però è un processo inarrestabile perché legato al business. E comunque, non dimentichiamoci che Netflix ha dato un sacco di soldi al cinema.
Come si immagina il cinema dei prossimi 30 anni?
Quello che resisterà sarà un cinema di archeologia. Non lo intendo come museale, ma che dovremo andare a ritrovare le pepite d’oro scavando. Ora vanno di moda le micro-serie sul web o sui social, visto che tutti possono costruirsele con quattro amici e metterle online. Siamo devastati dalla democrazia creativa. C’è una tale democraticità nell’espressione artistica che chiunque può esercitare il diritto a inventare storie e raccontarle. E purtroppo questo va accettato.
Sembra quasi una bordata alla Carmelo Bene dire “c’è troppa democrazia”.
È vero e accidenti quanto ci manca Carmelo. Come quanto ci mancano Pasolini e Sciascia. Però è così. Siccome dietro questo progresso c’è il business, il processo che ne deriva sarà inarrestabile.
Per il momento ci salva ancora una certa imprevedibilità, come quella di Valerio Lundini con il quale sta condividendo il set del film Il più bel secolo della mia vita.
Valerio è un fenomeno. Un ragazzo intelligente e sensibilissimo, oltre che ironico e libero. Sono andato a vedere il suo spettacolo al teatro Ambra Jovinelli e ha fatto uno show costruito su una nobile prosa, non soltanto su schemi para-televisivi.
Prima ha parlato di sua moglie, che è la celebre scrittrice Margaret Mazzantini. Quanto sarebbe diversa la sua vita se non l’avesse conosciuta?
Enormemente diversa. Dal punto di vista intimo le devo moltissimo. Noi abbiamo personalità forti e che hanno sempre avuto una visione della vita in comune, senza neanche accorgercene più di tanto. E abbiamo raggiunto risultati attraverso strade, comportamenti e caratteri diversi, ma con uno scopo finale che ci ha uniti. È un’altra fortuna della mia vita quella degli incontri. Con lei si è formato questo aggregato di amore, affetti, relazioni, conflitti e cazzeggi che è la mia famiglia, che è l’autentico risultato della mia vita. A maggior ragione oggi che vedo Pietro lavorare così bene.
Oggi è suo figlio Pietro il “giovane emergente”. E lei come vive questa sua condizione?
Molti anni fa un giornalista mi chiese che lavoro avrei preferito per mio figlio. Pietro aveva solo 3 anni. Io risposti che mi sarebbe piaciuto scegliesse un mestiere che io non sapevo fare. Ma in qualche modo è così, perché il cinema lo fa meglio di me. È oggettivamente migliore, visto che non ha dovuto subire una serie di nevrosi.
Visto che ha scelto il cinema, lei gli ha dato consigli o lui gliene ha chiesti?
I consigli ai figli vanno dati facendo finta che non glieli dai. Meglio ancora non darli davanti a testimoni. In privato magari li seguono, in pubblico meno. In generale, ammiro molto l’indipendenza dei nostri figli (oltre a Pietro, anche Maria, Anna e Cesare, nda). È ciò di cui andiamo più fieri io a Margaret: la loro libertà.
Affascinante ma anche impegnativa…
È un lavoro enorme e continuo. Un diritto e un profondo dovere. Un equilibrio fra i diritti e i doveri.
Il prossimo 18 agosto compirà 70 anni. Dopo tanti successi, ha ancora un sogno nel cassetto?
I sogni non li avevo neanche a 30 anni, si portano appresso la frustrazione di non averli realizzati. Ho preferito far diventare dei sogni quello che mi accadeva di volta in volta. Sono grato al mio mestiere e adesso mi godo di riflesso i risultati del lavoro dei miei figli. Guarda caso non fanno gli ingegneri, ma sguazzano un po’ tutti nella nostra stessa acqua. Eppure, siamo stati una famiglia che non ha fatto programmi, tutto è successo abbastanza naturalmente. Se posso riconoscerci un pregio è quello di essere piuttosto simpatici, lo dico con grande orgoglio. Anche per questo, per miei 70 anni sarà, come salire sulla collina ed esclamare: "Tutto sommato non ci possiamo lamentare".