Rocco Papaleo: “Mi sono sentito spesso inadeguato, questo lavoro non era la mia vocazione”
Le stagioni della carriera di Rocco Papaleo sono molteplici e nulla è stato inatteso, a parte l'inizio. C'è chi lo ricorda per Classe di Ferro, chi pensa a lui per il sodalizio al cinema con Pieraccioni, chi per quel gioiello Basilicata coast to coast e gli altri suoi film, chi ancora come intrattenitore al Premio Tenco e Sanremo da co-protagonista, il suo percorso è una carrellata di istantanee in cui lo scorrere del tempo consente sempre di vedere in modo chiaro la sua maschera, distinta e riconoscibile come poche. Ora l'esperienza delle serie Tv con No Activity – Niente da segnalare, in uscita su Prime Video dal 18 gennaio, parte di un cast numeroso in cui figurano anche Luca Zingaretti, Carla Signoris, Emanuela Fanelli, Fabio Balsamo, Maccio Capatonda. Lui veste i panni di un malavitoso atipico, inevitabilmente e volutamente poco credibile, come racconta in questa intervista.
In questa serie sei un malvagio essenzialmente insicuro, un fragile che non rispetta l'idea standard del cattivo. Come ci hai lavorato?
Il testo mi suggeriva di andare in quella direzione. In condivisione con il regista, Valerio Vestoso, ho lavorato in una dimensione particolare, questo è un progetto speciale, c'era un'atmosfera quasi teatrale. Il cattivo insicuro viene un po' fuori da una linea che rendeva questo personaggio disagiato. In fondo credo che tutti i personaggi di questa serie siano vulnerabili, inadeguati alla situazione che vivono.
La comicità è una chiave di questo tuo personaggio e una tua dote innata, quasi involontaria. Ti ha mai limitato nella carriera?
È una mia forma di empatia ormai piuttosto conclamata, non posso dire di non rendermene conto, essendo ormai vicino al quarantesimo anno di carriera. Il mio approccio tiene conto di questo aspetto, ma cerco sempre una credibilità. Quello che emano inconsciamente, ma anche un po' consciamente, fa parte del corredo.
La voce, la parlata, l'atteggiamento, c'è un po' di Rocco Papaleo in ogni personaggio che interpreti. Un vantaggio o uno svantaggio?
Ironicamente direi che io non entro in nessun personaggio, ma se il personaggio vuole entrare dentro di me lo accolgo volentieri. Quando il ruolo è scritto bene, in modo efficace, mi domina un po', quando invece la scrittura si rivela più debole capita che venga fuori io. Ahimè, non sono un attore alla Favino, per usare un termine di paragone nobile, mi capita spesso di stare davanti ai personaggi, non di nascondermi dietro a questi.
Anche la tua parlata, a tutti gli effetti un suono, fa parte di questo discorso?
Sì, il mio accento è molto particolare non perché sia particolare io. Vengo da una regione ibrida, non c'è lo stereotipo del lucano nella galleria della commedia italiana, è un accento diversamente meridionale. Anche per questo difficilmente abbandono il mio dialetto, succede nell'ultimo film dei fratelli Manetti al quale ho lavorato, in cui oso un calabrese abbastanza filologico e ora vedremo se sono riuscito a far dimenticare un po' questo accento che mi contraddistingue.
Il fatto che il lucano non abbia stereotipi riconoscibili è una colonna portante della tua poetica. Il celebre intro di Basilicata coast to coast giocava proprio ironicamente su questo aspetto: "dateci la nostra fetta di mafia".
Lo stereotipo in fondo ti condiziona, che tu ce l'abbia o meno. È naturale che se hai un bacino riconoscibile ne trai vantaggi e svantaggi. Un bagaglio ricco ti dà al contempo un conforto e ti fa perdere un po' di singolarità. Io tante volte dico che se fossi stato napoletano sarebbe stata molto più dura per me emergere. Ammesso che sia emerso, ma se dopo 40 anni ancora mi intervistano, vuol dire che in qualche modo sono interessante.
Quando pensi al successo, si tratta più del riconoscimento in sé, o dell'accesso a possibilità che prima non avevi?
Direi la seconda. Faccio i conti con le mie possibilità, nella mia carriera ci sono state stagioni e stagioni, ho avuto momenti più alti, con più opportunità, altri con meno. Nel primo caso ho seguito strade che più mi si confacevano, mentre quando c'era poco da scegliere ho fatto le cose che venivano e mi permettevano di dare continuità. D'altronde, ogni occasione è un'opportunità di crescita. Questa serie, ad esempio, è stata una grossa occasione per misurarmi con qualcosa di nuovo e aggiungere un altro tassello al mio percorso di ricerca.
Hai detto che sei entrato nel mondo dell'arte per caso e non per vocazione. Lo è poi diventata col tempo?
Confermo che non avevo una vocazione conscia da ragazzo, non ambivo a diventare attore. A 11 anni ho iniziato a suonare la chitarra e scrivere canzoni e magari quello poteva essere un obiettivo.
Puntavi alla musica?
Sì, anche se non mi prefiguravo una carriera da cantautore, mi sembrava una condizione irraggiungibile. Una mia amica mi iscrisse a una scuola di recitazione, che inizialmente ho affrontato anche con una certa leggerezza. Poi il teatro mi ha rapito, quell'opportunità di introspezione, quel gioco con le parole e i sentimenti mi ha completamente pervaso e sono arrivato al punto di sentirmi molto coinvolto in ciò che facevo.
L'occasione è arrivata subito?
Non subito, nei primi anni Novanta, quando si è affermata una nouvelle vague del teatro off qui a Roma dove vivevo e vivo, abbiamo cominciato a lavorare nei piccoli teatri con una religiosità quasi laica, su testi contemporanei o scritti da noi. In quegli anni sono stato letteralmente fulminato sulla via di Damasco.
Tendi a guardarti nelle cose fatte in passato?
Non mi piaccio molto e il teatro è bello proprio perché non c'è la proiezione di quello che è accaduto e manca la possibilità di rivedersi. Diciamo che pur non piacendomi del tutto, riesco a guardarmi di più nei miei film, perché lì mi sento più adeguato, sono più me stesso per davvero, più Rocco che il personaggio.
Dagli interventi da tappabuchi al Tenco, al monologo che si chiude con Stormy Weather a Sanremo 2012. Come ti rapporti al fatto che alcune tra le tue cose più celebri siano reperti introvabili?
Diciamo che non sto lì a cercarmi. Nel caso specifico il vantaggio è che non essendo stato molto prolifico come autore, con il monologo di Stormy Weather ancora chiudo spesso i miei spettacoli e l'ho fatto fare anche a Giorgia nel mio film recente.
Quando Morandi ti cercò per fare Sanremo ti percepisti adeguato a quel ruolo, o ti parve gigantesco?
Un po' entrambe le cose. Quando mi hanno chiamato l'ho vissuta ovviamente come un'opportunità, non si può fare finta che Sanremo non sia un fatto eclatante nella nostra cultura mainstream. Il sentirmi inadeguato è un po' una spia interiore sempre accesa, ma quella pressione è svanita all'ingresso, alla prima sera ti rendi conto che non è una missione impossibile. Le telecamere non le vedevo, ero in un teatro con il pubblico in platea e quindi, tutto sommato, ero a casa mia. La follia che c'è in quella settimana non l'ho subita molto. Sicuramente il rapporto splendido con Gianni ha fatto andare tutto nel verso giusto.
La sacralità di Sanremo non ti ha assalito?
Da adulto non sono stato un amante e fan del Festival, mentre da giovane ne ero molto suggestionato. Ho sempre coltivato il desiderio di partecipare per conquistare la benedetta patente di cantautore che in questo paese è un po' negata agli attori, non sei preso sul serio. Poi ho smesso di seguire Sanremo, non è il mio show preferito in generale, ma non sono andato lì con la spocchia, bensì per godermela.
Sanremo e il tuo primo film da regista sono due esperienze che arrivano vicinissime tra loro, intorno ai tuoi 50 anni. Li consideri traguardi giunti in ritardo?
Sono riflessioni inevitabili, un po' si rimugina per i ritardi, come tutti esercito l'autonalisi ed è chiaro che la mia storia ce l'ho ben presente. Però devo dire che il mio percorso è stato fortunato, ho avuto una crescita costante e credo le cose mi siano accadute nel momento giusto, quando avevo le spalle larghe. Se Sanremo fosse capitato dieci anni prima, forse me la sarei fatta addosso. Il primo film da regista è giunto nel momento in cui ero più pronto. Una delle componenti fondamentale della mia storia è stata la scansione delle occasioni che ho avuto. E che mi sono cercato, direi.
La sorte ha un ruolo più importante della volontà in questo mestiere?
Al primo posto metto la fortuna, ho conosciuto e incrociato tanti artisti sublimi che non hanno avuto fortuna, non hanno trovato le occasioni giuste. La casualità gioca un ruolo determinante, ma diciamo che se ti capitano le cose devi anche avere le capacità di sfruttarle.
In diverse occasioni hai detto che ti senti distante dal mondo social. Trovi lì delle forma di intrattenimento accattivanti?
Come tutte le cose me ne interesso. Al pari di televisione e piattaforme, si tratta di mezzi neutri in cui il contenuto fa la differenza. Anche se io sono di una generazione precedente all'esplosione di queste piattaforme, dico che dipende da cosa c'è dentro e non guardo alla cosa da vecchio. I miei social non li curo io, anche se li controllo, non mi piace esibire la mia vita quotidiana ma ne faccio uso indiretto.
E sui film da vedere attraverso le piattaforme?
Beh è una realtà inevitabile. Penso che il film sia meglio vederlo al cinema, ma le piattaforme non vanno demonizzate, ti consentono di arrivare al pubblico in modo differente e bisogna farci i conti, usandole nel miglior modo possibile. Non mi sento di fare muro contro muro.
Anche questa moderazione arriva con il tempo?
La mia età mi spinge a una pacatezza che non definirei democristiana, ma realistica. Quando ero più giovane ero ideologicamente più rivoluzionario, oggi mi rendo conto che su tutto bisogna ragionare con equilibrio, scendere in piazza per affermare i propri diritti ma capire che le cose si cambiano solo con equilibrio e democrazia. Così affronto il mio rapporto con la novità, cercando di capire come sistemarmi in questo flusso nuovo.