Roberto Sessa, produttore di Mare Fuori: “A febbraio 2024 la quarta stagione, presto la terza su Netflix”
Sono trent’anni, racconta Roberto Sessa, che fa il produttore. Ha cominciato in televisione, sulle generaliste. E lì ha conosciuto un mondo diverso: uno in cui ci si doveva fare strada con le proprie mani e ogni giorno regalava una lezione. Poi è arrivato in Fremantle, e ha visto ancora un’altra dimensione. Una rivolta all’intrattenimento scripted e unscripted, con fiction e grosse produzioni, dove resisteva una certa idea di struttura e di metodo.
Alla fine ha deciso di tornare indipendente e ha fondato Picomedia, ora parte dell’Asacha Media Group. Ha prodotto Mare fuori, serie dell'anno ai Nastri d'Argento 2023, sta lavorando con Uberto Pasolini al suo prossimo film internazionale; ed è riuscito dove nessun altro, prima di lui, era riuscito: ha ritrovato il contratto che Elsa Morante aveva firmato per la cessione de La storia, e ne ha fatto un’opportunità per creare una serie tv, con la regia di Francesca Archibugi.
L’anno scorso ha prodotto anche Tutto chiede salvezza e Nostalgia, ed è da qui che vuole partire. Dal film di Mario Martone e dai David di Donatello. “Quello che io ho trovato molto strano e francamente un po’ incomprensibile, pur essendo di parte, è che Pierfrancesco Favino è stato selezionato per la cinquina dei migliori attori europei per gli EFA (European Film Awards, ndr), mentre in Italia, per motivi per me incomprensibili, è stato ignorato”, dice. “Siamo evidentemente disallineati come paese rispetto al resto del mercato. Mi sta bene tutto, davvero. Questo, però, vorrei capirlo”.
Rilancio il tuo dubbio con un altro. Nostalgia era stato selezionato per rappresentare l’Italia agli Oscar, come possibile candidato nella categoria dedicata al miglior film straniero. Ai David, a parte la statuetta data a Francesco Di Leva come miglior attore non protagonista, non ha ricevuto altro. Perché secondo te?
Non lo so, ma condivido questa perplessità. Però fammi sottolineare, di nuovo, questo aspetto: gli EFA sono una realtà internazionale verso cui dobbiamo tendere. Che tutti, anzi, diciamo di voler seguire. Io parlo della nomination a Pierfrancesco, nemmeno della vittoria: poteva essere nominato, e poi, ovviamente, giocarsela. È qualcosa che mi lascia perplesso.
Parliamo di Mare fuori e del suo successo. Quando sono andate in onda le prime due stagioni su Rai2, ha fatto bene, certo, ma non così bene. Poi, non appena è arrivata la terza stagione in anteprima su Raiplay e le prime puntate su Netflix, è scoppiato il fenomeno. Per quale motivo? Brava Netflix o miope la Rai?
Guarda, siamo in una fase particolare. Di profondo mutamento. Il mondo è totalmente cambiato dopo la pandemia. Il consumo ha preso un’altra velocità, e le stesse abitudini degli spettatori si sono trasformate. Il pubblico, oggi, può scegliere. E questa possibilità di scelta non divide, ma aggrega. Con Mare fuori ci siamo trovati davanti a un caso da studiare, e non solo in Italia: in Europa. Quello che tu mi chiedi è quello che io sto urlando – a volte, non te lo nascondo, un po’ nel vuoto. Una delle basi del mercato audiovisivo, in futuro, sarà esattamente questa: aggregare diverse piattaforme. Un nuovo modello di business che permetterà di fare cose importanti, con un grande valore, capaci di competere con le produzioni internazionali.
Che cosa serve?
Innanzitutto rimodellare le finestre distributive e la collaborazione tra le varie realtà. Ti do un dato. Ed è un dato oggettivo. Su tutte e tre le piattaforme su cui si è mossa in questi mesi Mare Fuori, la televisione lineare, Raiplay – che non è totalmente libera, visto che ha la pubblicità – e Netflix, sono state superate le diverse medie di ascolto. Su Raiplay, mentre il titolo andava in onda su Rai2 ed era su Netflix, Mare Fuori ha raccolto 104 milioni di visualizzazioni su 150 complessive di quel periodo. Su Netflix, mentre andava in onda su Rai2 ed era su Raiplay, Mare Fuori era sempre nella top ten: ci è rimasta per circa trentuno settimane. Una produzione originale di Netflix difficilmente resiste nelle stesse posizioni per cinque o sei settimane. Su Rai2, l’ultima puntata ha raggiunto il 12% di share. Se decidi di togliere una di queste tre gambe, potrebbe crollare tutto.
E tu che cosa ne pensi?
Da produttore, da persona che ci ha scommesso fin dal 2017, che ha aumentato i suoi investimenti su Mare fuori, dico che se dovesse succedere una cosa del genere la serie potrebbe subire un gravissimo danno. Chi vede Netflix non vede per forza Raiplay, e chi vede Rai2 probabilmente non vede né Raiplay né Netflix. Abbiamo trovato un’interlocuzione molto positiva con Rai Fiction: parliamo, diciamo, la stessa lingua. Non parliamo sempre la stessa lingua con altre parti dell’azienda. Ma restano, per fortuna, i dati. Su Raiplay si registrano dati straordinari sotto i 35 anni, e su Rai2 si registrano dati straordinari sopra i 35 anni. Torniamo un attimo ai David, scusami.
Prego.
Il film che ha vinto il premio per il miglior produttore è La stranezza. Ecco, per quel film hanno lavorato insieme Rai Cinema e Medusa. Gli stessi Del Brocco e Letta hanno ammesso che senza mettere insieme le forze non sarebbe stato possibile raggiungere lo stesso risultato. Queste cose, ora, fanno parte del mercato. Non possiamo spaventarci né rallentare.
Ora c’è qualcuno che vuole togliere una delle tre gambe che citavi – Rai2, Raiplay, Netflix – a Mare Fuori?
C’è qualcuno che ha questo prurito, sì. Perché non riesce ad accettare il cambiamento. Io, francamente, penso che sia un errore.
Netflix, a un certo punto, ha finito per spingere anche la nuova stagione su Raiplay?
È successa una cosa ancora più interessante, secondo me. Figlia, tra l’altro, di un problema tecnico. Quando Raiplay ci ha chiesto il box set della terza stagione di Mare fuori noi non avevamo ancora finito di montarla. E quindi che cosa abbiamo fatto? Abbiamo consegnato i primi episodi in un momento, e gli ultimi in un altro. In questo modo l’attenzione del pubblico non è diminuita. Si è innescato un circolo virtuoso. Una cosa ha sostenuto l’altra e così via.
A che punto è la quarta stagione di Mare fuori?
Siamo in piena preparazione. Le riprese partono il 22 maggio. Oramai ci siamo. Mancano appena dieci giorni. Abbiamo lo stesso tipo di impianto che abbiamo avuto fino a oggi, e probabilmente finiremo di girare durante l’ultima settimana di settembre. Ora dobbiamo parlare con i nuovi vertici Rai, ma immagino che la programmazione sarà molto simile a quella di quest’anno.
Perché?
Perché è fondamentale sapere prima tutti i tempi. Quando girare, quando finire, quando andare in onda. Noi, in questi anni, abbiamo costruito un andamento preciso: iniziamo a girare quando finisce una stagione, e andiamo in onda già pronti per ricominciare. All’inizio dovevamo andare in onda a novembre. Poi, con i mondiali di calcio, ci siamo spostati ai primi mesi del 2023. E anche qui, se vuoi, è stato un caso: siamo entrati in questo circolo virtuoso senza pensarci più di tanto; è successo e basta. Ovviamente, ecco, dipende dalla Rai. Ma noi ci stiamo muovendo in questo senso: per andare in onda con le nuove puntate a febbraio 2024. Anche questo è un elemento di forza. Per la comunicazione e per il consumo. Per l’azienda e per il pubblico.
E la terza stagione, invece, quando arriverà su Netflix?
Questa estate.
Per curiosità: Netflix ha provato ad acquistare Mare fuori come original dopo questo successo?
È una cosa impossibile. Questa è una co-produzione Picomedia-Rai. Quindi no, non ci hanno provato. Non ci hanno fatto nemmeno una proposta formale. Però questo rappresenta un modello per il futuro, ed è innegabile. Qui ci stiamo muovendo in attacco: vogliamo migliorare a tutti i livelli, e Mare fuori è un esempio positivo.
Parallelamente alla televisione, state lavorando anche per il cinema con The Return di Uberto Pasolini. Nel cast, per ora, sono stati confermati Ralph Fiennes e Juliette Binoche. Mi pare che lì l’intenzione sia quella di puntare subito a un pubblico internazionale.
Assolutamente. È da un po’ che ci siamo messi su questo doppio registro, televisione e cinema. Alcune cose puoi farle solo in un linguaggio. E a volte devi puntare al mercato mondiale, non solo locale. Lunedì scorso abbiamo cominciato le riprese. Siamo a Corfù per cinque settimane. Nel cast, si sono aggiunti anche Charlie Plummer e un importante attore italiano Claudio Santamaria. Qui c’è una grande scommessa.
Dimmi.
Claudio ha avuto visione e coraggio a gettarsi in quest’avventura. Ci sono diversi nostri attori che lavorano fuori, all’estero. E spesso interpretano ruoli e personaggi italiani all’interno di un racconto internazionale. In questo caso non è stato così. Uberto poteva scegliere uno spagnolo, un tedesco, un inglese o un americano. È un ruolo che non ha una forte connotazione italiana. E quindi rappresenta una grandissima occasione per Claudio per farsi notare nel mondo con una parte che il regista gli ha dato perché l’ha scelto e l’ha voluto.
Che cosa mi puoi dire del film?
Che ci crediamo moltissimo. Conosco Uberto da anni. Per un po’ di tempo, pensa, abbiamo condiviso casa a Los Angeles. Stiamo sviluppando questo progetto ma ne abbiamo in cantiere già un altro. Dovremmo finire le riprese entro l’estate, cominciare a montare e capire quale percorso seguire. Per noi è un grande impegno. Ci siamo messi in prima fila. È una co-produzione che coinvolge la Francia, l’Inghilterra e la Grecia. Rai Cinema ci ha dato un grande mano, e ce l’ha data, ovviamente, anche la nostra casa madre in Francia, Asacha Media Group.
Invece a che punto è La storia, la serie tv di Francesca Archibugi?
Anche lì, ti dico la verità, sono molto contento. Perché non è stato facile.
In che senso?
In tanti, in questi anni si sono posti la stessa domanda. “Perché non si fa un film da questo libro di Elsa Morante?”
Lo chiedo a te: perché?
Perché Elsa Morante aveva venduto da sola, in modo indipendente, i diritti cinematografici. Aveva firmato un contratto con un produttore che poi è fallito. E di questo contratto si era persa ogni traccia. Quando ho chiesto di parlarne, l’agenzia letteraria mi ha detto: guarda, è inutile; non siete gli unici interessati. Ed è vero: non siamo arrivati primi su questa storia. Lì, però, ho fatto la mia controproposta: se troviamo il contratto, ci date la possibilità di parlarne con la famiglia? Di negoziare? Marco Vigevani, che ringrazio, mi ha dato quest’occasione. E dopo quattro o cinque mesi di lavoro, grazie a due avvocati, abbiamo ritrovato il contratto. L’abbiamo consegnato, e a quel punto è partita la trattativa con la famiglia.
E le cose sono andate più velocemente?
No. Ma alla fine siamo riusciti a convincerli. Per l’idea artistica che avevamo, credo. Abbiamo fatto tante verifiche con loro. E grazie a Carlo Cecchi, che è il curatore del trust della famiglia, abbiamo avuto la possibilità di partire. Francesca ha fatto un lavoro eccezionale. Abbiamo presentato la serie a Cannes, al MIPCOM di qualche settimana fa; e abbiamo fatto vedere un trailer. C’è stata molta attenzione. Ci sono andato con Jasmine Trinca, che si è fatta in quattro per questo progetto: una cosa che, di solito, non succede con gli attori.
E ora?
Ora lo stiamo montando. Lo stiamo finendo. E dobbiamo parlare con i vertici della Rai per capire come e quando mandarlo in onda.
Con Caracas di Marco D’Amore, invece, pensate di andare a Venezia?
Marco è una spada, aveva già tutto il film in testa. Abbiamo appena finito le riprese e ora stiamo montando. Speriamo davvero di fare in tempo a sottoporre il film ad Alberto Barbera.
Avete annunciato, poi, la seconda stagione di Tutto chiede salvezza.
Quando ho letto il libro di Daniele Mencarelli, su cui è basata la serie, me ne sono immediatamente innamorato. E lui, Daniele, lo conosco da trent’anni. Non gli ho chiesto niente né del libro precedente né di quello successivo. In questo ho trovato un argomento di una potenza infinita. E sono stato in dubbio, fino alla fine, se farne una serie o un film. Poi ho ricevuto una telefonata di Francesco Bruni, che conosco da una vita ma con cui non avevo mai lavorato, e mi sono appuntato mentalmente il suo nome e le sue idee. Ho incontrato Tinny Andreatta, per dirle che cosa avevamo in pentola, e quando le ho parlato di Tutto chiede salvezza lei mi ha fatto il nome di Bruni. Bingo.
Perché?
Perché ci voleva la sua sensibilità.
È stata una scommessa?
In un certo senso sì. Ma questi sono i temi che Netflix sa trattare. Nella top ten italiana, Tutto chiede salvezza ha avuto un’ottima permanenza; è andata meno bene all’estero, ma me lo aspettavo. Ora, come dicevi, stiamo preparando la seconda stagione. Abbiamo quasi chiuso la scrittura. Le riprese dovrebbero partire durante la seconda settimana di agosto. Bruni ha avuto una grandissima idea per il cast. Pure Tutto chiede salvezza richiede molto, molto realismo e una cura particolare. Speriamo anche in una terza stagione.
Come si costruisce un successo?
Non te lo so dire. Non c’è un’unica ricetta. Io sono curioso e sono un lettore attento. Faccio questo mestiere perché mi piace. Ho un grandissimo rispetto per il pubblico. Sono figlio della televisione generalista; sono figlio delle 10 e 01, quando arrivano i risultati degli ascolti della sera prima. Per me l’incasso al cinema o lo share sono elementi importanti, che tengo in alta considerazione. Dopo trent’anni di lavoro, mi sono creato delle mie linee guida. Mi interessa moltissimo seguire la storia. Il suo contenuto. In quest’ultimo periodo ci siamo concentrati, eccezioni a parte, su un racconto più realistico. È una cosa che mi ha guidato ai miei esordi, con La squadra. E poi c’è il caso. Le cose succedono. E così questo realismo, adesso, sta coinvolgendo un target specifico: quello che viene chiamato young adult. Per dirti, stiamo lavorando anche ad Adorazione di Alice Urciuolo.
L’avete coinvolta nella scrittura? Lei, tra le altre cose, ha lavorato a SKAM e Prisma.
Guarda, no. Ma anche lei ha preferito così. Ha deciso di dare massima libertà a un altro gruppo di scrittori e di permettere a questa storia di trovare un’altra dimensione in un altro linguaggio. È difficile, per chi scrive, rimettere mano a quello che ha scritto per cambiarlo o adattarlo. C’è un livello di coinvolgimento estremo.
E quindi, allora, il successo dove si trova?
Nella propria esperienza, forse. Nella sensibilità. In quello che vediamo, leggiamo e in cui, alla fine, crediamo.
Da appassionato lettore, hai qualche idea sui fumetti?
Confesso la mia ignoranza: non mi sono mai avvicinato a questo mondo. Per nessun pregiudizio in particolare, non c’è mai stata occasione. Non sono un divoratore di fumetti, non lo sono mai stato. Picomedia ha una dimensione semi-industriale: non possiamo seguire tutto, e al momento non stiamo seguendo questa strada. Ho voluto tornare a essere indipendente come produttore anche per questo. Per concentrarmi sulle cose che voglio fare.
Perché fare il produttore? Perché continuare, nonostante i tanti problemi?
Perché mi appassiona ancora. Ho avuto la possibilità di fare delle scelte e le ho fatte. Ho deciso di lavorare in un certo modo, ed è un modo che ha i suoi pro e i suoi contro. Ma io mi sento a mio agio. Lavoro tanto. Come ho sempre fatto, banalmente perché mi piace. Sono consapevole, ovviamente, di non avere più 40 anni. E tra l’altro io penso anche a un’altra cosa.
Quale?
Non mi sono mai confrontato con i miei colleghi su questo, ma penso che sia un aspetto da tenere in considerazione in Italia. Per dare spazio ai giovani, bisogna farsi da parte. L’abbiamo vissuta anche noi, sulle nostre spalle, quest’esperienza. C’è una certa chiusura nel nostro mondo e quando qualcuno riesce a superare i primi ostacoli si prova a rallentarlo. Nel corso della storia di Picomedia, ci abbiamo provato a dare una mano. Come con Groenlandia. All’epoca Matteo Rovere aveva bisogno di un ulteriore sostegno, e noi glielo abbiamo dato. Oggi viaggia a un’altra velocità, è lanciatissimo e lavora a livelli incredibili. Bisogna farsi vedere, però. Proprio come ha fatto Matteo.
I produttori giovani si tengono un po’ indietro?
Veniamo da mondi estremamente diversi. Io, come ti dicevo, vengo dalla televisione commerciale. Una dimensione più dinamica, più piratesca. Imparavi facendo. Ti dovevi impegnare praticamente. Ogni giorno. Ho un’esperienza pragmatica. Alcuni dei ragazzi, oggi, vengono da percorsi differenti, magari anche più strutturati, e quindi si nota un’impostazione diversa, più rigorosa, con un’altra filosofia. È interessante quando queste due strade si toccano. È una di quelle riflessioni che, a 64 anni, puoi permetterti di cominciare a fare.
Qual è la lezione più importante che hai imparato nella televisione commerciale?
Mi ha sempre guidato un modo di dire di mio nonno: “Niente se mi considero. Molto se mi confronto”.