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Riccardo Polizzy Carbonelli: “Roberto Ferri doveva fare una sola scena. Se UPAS continua è merito di chi non si è arreso”

Riccardo Polizzy Carbonelli è l’attore che dà più di 23 anni dà corpo e voce ad uno dei personaggi più iconici di Un posto al Sole: Roberto Ferri. Il villain della soap di Rai3 che, però, era destinato ad una sola scena, come racconta lui stesso in questa intervista.
A cura di Ilaria Costabile
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Se si dovessero passare in rassegna i personaggi di Un posto al Sole, nessuno potrebbe mai dimentica Roberto Ferri, il villain per eccellenza della soap più longeva della televisione italiana. A dargli corpo e voce, da più di 23 anni è Riccardo Polizzy Carbonelli. Attore poliedrico, innamorato del suo lavoro, che gli ha permesso di veicolare messaggi ed emozioni ad un pubblico desideroso di ascoltare. Per anni ha calcato le scene di noti teatri italiani, fino ad arrivare al piccolo schermo, in cui ha interpretato ruoli che lo hanno portato alla notorietà, prendendo parte a varie fiction tra Rai e Mediaset. Quando lo raggiungo a telefono si trova a Napoli, giusto il tempo di trascorrere una giornata sul set, per poi ripartire, una vita con la valigia alla mano, ma stavolta per staccare un po': "Le vacanze sono un po' come la pensione per me, non ci ho mai pensato. Non ho mai pensato a questo lavoro con un qualcosa da cui andare in vacanza". Nemmeno dopo l'incredibile traguardo delle 6500 puntate.

Riccardo Polizzy Carbonelli studente del liceo artistico, appassionato di pittura, il piano iniziale sembrava essere differente. Cosa è accaduto?

Dopo il liceo artistico, con la mia fidanzata dell’epoca, ci iscrivemmo all’Accademia di Belle Arti, al corso di pittura. Passammo entrambi, mentre lei ha continuato, io dopo qualche mese non ero più convinto. Non potevo stare senza fare nulla, quindi mi cercai un lavoro che mi consentisse di guadagnare e iniziai a fare il manovale. Sentivo la fatica, ma non era quella che mi pesava, quanto la consapevolezza che avrei dovuto iniziare a fare, davvero, qualcosa che mi piacesse. Così mi sono dato una chance e ho intrapreso questo percorso, nel mondo della recitazione, che già mi incuriosiva da un po’.

Una chance che ha dato i suoi frutti. 

Sì, ma sono sempre stato molto critico. Sono cresciuto in un famiglia in cui se prendevo 7 a scuola, mi dicevano "e perché non hai preso otto?". Se prendevo otto, mi chiedevano del nove e una volta arrivato al massimo, commentavano dicendo “hai fatto solo il tuo dovere”. Non sempre ho avuto soddisfazioni, però questo mi ha portato ad essere estremamente perfezionista, attento.

Ed è concesso ad un perfezionista prendersi un momento di pausa, andare in vacanza?

Mi ritengo così fortunato per quello che faccio, che non ho mai avvertito la stanchezza vera e propria tale da dire "ho bisogno di staccare". Il mio lavoro è fatto di compressione e dilatazione, nei momenti di dilatazione riesco anche a ritagliarmi degli spazi per ritemprarmi. Se non ci fosse stato Un posto al sole la mia vita, probabilmente, sarebbe stata quella del teatrante, del doppiatore, andare in tournée e passare da un posto all’altro, da una fiction all’altra. Cosa, quest'ultima, che mi piacerebbe fare, ma non è più così facile.

Cos'è cambiato?

Adesso c’è meno possibilità di fare fiction rispetto a prima, ma non perché manchino i prodotti, perché penso che sia cambiato il concetto della fiction. Oggi vanno per la maggiore quelle in cui si cerca il dialetto stretto, una cosa che restringe molto il campo. Poi, a dirla tutta, i grandi attori di un tempo, recitavano usando le cadenze, non il dialetto vero e proprio. Era tutta un’altra cosa, che ti consente, ad esempio, di interpretare un napoletano senza necessariamente esserlo.

A dimostrazione del fatto che, per fare gli attori, bisogna studiare e non improvvisare. 

Certo, bisogna studiare, anche se ho un mio pensiero sulla questione.

Sarebbe?

Sarò drastico, però credo che, soprattutto negli ultimi tempi, chi non sa fare insegna. È chiaro che le scuole siano un escamotage per far lavorare sempre più attori, consentendogli di istruire altre persone. Però, così, si creano solamente aspettative. La generazione di oggi che si iscrive alle scuole ha delle mire diverse da quelle che potevamo avere noi. Uno degli intenti primari è quello di diventare famosi, ma prima di diventarlo sono tante le delusioni da superare.

E dopo tante delusioni superate, qual è l'aspetto più bello di questo mestiere?

Ci ho messo anni per capire cosa mi piacesse di più del mio lavoro e ho scoperto che facendo teatro puoi diventare un veicolo per raccontare qualcosa, nel modo migliore possibile, affinché lo spettatore possa entrarvi e apprezzarne la bellezza. Ma soprattutto l’emozione.

A proposito di emozione, da anni lavori anche come doppiatore, cosa pensi dell'incalzare dell'intelligenza artificiale?

L’intelligenza artificiale crea un po’ di problemi, non potrà mai ricreare l’emozione vera e propria, però inevitabilmente prenderà sempre più piede.

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E sulla necessità di lasciare che i film si vedano in lingua originale? Alcuni lo ritengono un atto di civiltà. 

Noi siamo un paese retrogrado, anche da questo punto di vista, considerando che le lingue non le impariamo con la stessa frequenza con cui accade in altri paesi, dove si aiutano anche guardando l’originale sottotitolato. C’è da dire che la scuola del doppiaggio italiano, come poche nel mondo, è riuscita a fare la fortuna di certi attori, imponendoli all’attenzione del pubblico. La bravura del doppiatore sta nell’accompagnare in maniera umile, senza protagonismi, il lavoro che per il 95% ha già fatto l’attore, soprattutto se è bravo. Poi, ci sono aspetti da non sottovalutare.

Ad esempio?

Ultimamente il doppiaggio è diventata una catena di montaggio, mi è capitato di fare dei provini per degli audiolibri e ricordo che chiedevano di leggere non so quante pagine al minuto. Ma, mica faccio il dattilografo? È più importante la velocità o la qualità? Poi l'emozione può giocare brutti scherzi.

È capitato che un provino fosse compromesso per questo motivo?

È accaduto di recente. Succede a qualunque età, avessi avuto meno ansia da prestazione, fossi stato meno agitato, la resa sarebbe stata sicuramente diversa. Ma con le delusioni bisogna conviverci, chi si ferma al primo "no", significa che non fa questo lavoro perché spinto dal desiderio di raccontare qualcosa.

E a questo punto, veniamo al dunque: interpreti il ruolo di Roberto Ferri in Un Posto al Sole, uno dei personaggi più amati e odiati al tempo stesso. Come è arrivato?

È arrivato dopo due mesi che mi ero fidanzato con mia moglie (l'attrice Marina Lorenzi ndr). Marita D’Elia, la casting director, mi chiamava spesso mentre ero in tournée, quell’anno mi propose un provino che valeva sia per Un Posto al Sole che per La Squadra, il regista volle vedermi, ma io non potevo muovermi perché ero a teatro con le prove generali. Nel frattempo mi stavo mangiando le mani, perché temevo di perdere quell’occasione. Marita mi chiamò, per l’ultima volta, e mi disse “Questo è il tuo ruolo, se non vieni a fare il provino non ti chiamerò mai più”. E sono andato.

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Ventitré anni dopo siamo ancora qua. 

Non sapevo che sarei durato così tanto. Roberto Ferri nasce per girare una scena sola. Poi si sono appassionati alle caratteristiche di questo personaggio e ne hanno scritte di più, fino a svilupparlo completamente. Il suo ingresso trionfale durante le gare dell’America’s Cup è stato determinante. Diciamo anche che quando esce un cattivo, che all’epoca era Maurizio Aiello, ne serve un altro. E io ero nei paraggi.

Il tuo personaggio, in effetti, è esattamente il villain di Un posto al sole. 

Nina Soldano e io incarniamo la soap per eccellenza, intesa come genere, perché poi in Upas c’è il lato Gomorra, il lato comedy, poi ci sono le storie comuni, quelle in cui ci si può rispecchiare raccontiamo anche quello che accade negli ospedali, le schermaglie d’amore, d’amicizia. Ma nessuno credo possa identificarsi in un personaggio come Roberto Ferri o anche come Marina Giordano.

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In tanti anni di messa in onda, hai mai temuto che alcune storie legate al tuo personaggio potessero ripetersi o essere poco credibili? 

È accaduto e lo abbiano fatto notare, perché se c’è un ingrediente fondamentale in questa seconda famiglia, è il fatto di parlarsi, se ci sono dubbi, se pensiamo che una scena possa essere forte o farci incorrere in critiche feroci. A volte ci sono forzature, diventano necessarie, però noi abbiamo completa libertà di parola, non siamo solo degli esecutori.

E come si può rinnovare un personaggio che esiste già da 23 anni?

La differenza la fa la proposta attoriale, deve essere fatta con uno studio più approfondito, più si va avanti e più si studia, perché devi essere consapevole del fatto che quello che tu proponi al pubblico, richiede un’aspettativa maggiore dal pubblico stesso, che tu non puoi deludere. Anche un buongiorno, non è mai un buongiorno qualunque per Roberto Ferri (ride ndr).

Tra le mille vite vissute da Roberto Ferri, qual è quella a cui sei più legato?

Più che vivere mille vite è il passare attraverso mille stati emotivi. Nessuno nella vita reale potrebbe vivere davvero tutto quello che è accaduto a Roberto Ferri in 23 anni di soap, ad una persona qualunque ci vorrebbero almeno 240 anni. Senza dubbio sono legato alla perdita della memoria, che tra l’altro si rifaceva al film A proposito di Henry. Ma anche la riconquista dell’amore di Eleonora Palladini (Heléne Nardini ndr.), che si chiudeva con una scena molto forte, un amplesso intenso, dopo il quale lei veniva sparata da Tony Santoro e poi moriva, una volta arrivata in ospedale. Tra l’altro sono profondamente grato ad Heléne, perché mi ha insegnato una cosa importantissima.

Helene Nardini e Riccardo Polizzy Carbonelli
Helene Nardini e Riccardo Polizzy Carbonelli

Ovvero?

Mi ha insegnato a congedarmi dalle persone dopo le scene d’amore. È importante che non resti nessuno strascico, è sempre uno scambio di intimità, un’invasione dell’altro, quindi bisogna avere rispetto. Che per me significa anche presentarsi puliti, profumati. Quindi dopo certe scene, piuttosto intense, ci si abbraccia è un modo per ringraziarsi, stringersi per salutarsi, perché in quel momento ti sei dato e ti stai separando.

In questi anni hai dato voce alle emozioni degli altri, ma di Riccardo cosa hai scoperto che non sapevi?

Ho scoperto di essere forte, di avere una pervicacia e una costanza che mai avrei immaginato e a volte mi stupisco di me stesso. Fare tanta gavetta mi ha portato ad essere l’attore che sono oggi, anche se mi rendo conto di essere un po’ retrò a dirlo, ma sono pochi quelli a cui interessa farla.

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Il 26 luglio Upas ha festeggiato 6500 puntate un traguardo incredibile. Come si arriva ad un risultato del genere?

Sono grato a tutti miei colleghi che hanno aperto questa soap, questa grande scommessa, sempre messa in discussione. Si sono sorbiti i grafici degli australiani, in cui parlavano di share, del pubblico calato. Ma loro hanno tenuto duro, ed è a loro che bisogna fare un applauso per le 6500 puntate, a quelli che hanno resistito ad ogni tipo di bordata, anche quando volevano chiuderlo, hanno resistito e capito. Io sono entrato alla fine del quinto anno, nel 2001, la soap è del 1996 e i primi cinque anni sono stati fondamentali perché sono stati quelli che hanno permesso anche l’ingresso di nuovi personaggi, da me a Ilenia Lazzarin, Marina Giulia Cavalli, Michelangelo Tommaso, Valentina Pace, Nina Soldano. Noi siamo arrivati, ma abbiamo fatto da volano a quello che era stato fatto prima di noi. Senza quella tenacia, Un posto al Sole non ci sarebbe stato.

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