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Renzo Arbore: “Nella vita e in Tv non mi sono mai ripetuto. Gli amici sono stati la mia famiglia”

Renzo Arbore apre le porte di casa sua a Roma per raccontarsi a Fanpage. La collezione di oggetti in plastica, gli anni in cui Napoli gli ha cambiato la vita, Luciano De Crescenzo e Paolo Villaggio, la consolazione di Totò, la goliardia e il cazzeggio come motore dell’esistenza, il rapporto con il danaro: “Mai avuta l’idolatria dei soldi. Il solo oggetto di valore che ho è un gilet”.
A cura di Andrea Parrella
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Entri a casa di Renzo Arbore e ti pare di essere in un luogo che è per metà museo e per l'altra un set televisivo. La prima foto che si incontra immortala lui insieme a Mariangela Melato e Eduardo De Filippo, mentre sul tavolino in salotto c'è una risma di fogli con intestazione "Materiale restaurato", poi in sequenza i titoli dei suoi programmi, di fatto una schedatura di tutto quello che ha realizzato in radio e Tv. Ci si guarda intorno e l'accumulo di oggetti è sconcertante, perché apparentemente senza senso, mentre un senso ce l'ha: "Sono il primo collezionista italiano di oggetti in plastica, se non altro cronologicamente. Il mio primo amore è stata una radio che ho trovato a New York, poi ho finito per comprarne 60". Parte da qui questa conversazione con Arbore in cui si parla di tutto, o quanto meno di qualsiasi cosa possa venire in mente se l'adepto ha la fortuna di accedere a un colloquio col profeta, in casa del profeta.

Parliamo di tutta questa plastica e la tendenza all'accumulo. Sei di quelli che non sanno buttare le cose?

Qualche psicologo venuto a casa mia mi ha chiesto se avessi avuto un'infanzia senza giocattoli. In effetti è stato così, non che fossi povero – la mia famiglia non lo era – ma all'epoca i giocattoli erano i fucilini di latta, le pecorelle. Forse si capisce da queste cose che sono molto vecchio.

Si diventa collezionisti per caso, o con l'intento di farlo?

Non saprei. A me è successo che quando ho cominciato ad avere disponibilità di qualche soldo, mi sono detto su qualsiasi cosa: "Che me ne fotte a me, questo non posso non averlo". Seguendo questo criterio ho comprato tutto ciò che potevo comprare di superfluo e inutile. Come cosa di valore credo di conservare solo un gilet di Depero.

Una parte del "museo di plastica" di casa Arbore
Una parte del "museo di plastica" di casa Arbore

Cimelio autentico.

Sì. Poi è capitato che anni fa sono andato a una mostra a Venezia che si chiamava "Gli anni di plastica". Lì ho trovato i portatovaglioli che da bambino avevo sul tavolo, oggetti che vedevo in casa mia da bambino. Questa cosa ha corroborato la mia passione per la plastica.

Continui a cercare oggetti nuovi?

Fortunatamente il superfluo non si trova più, gli anni formidabili della plastica sono stati gli Ottanta, nella Milano da bere spuntavano "negozi di stronzate", che in americano poi amavano chiamare gadgets. L'asciugacapelli a forma di colt ce l'ho, la sveglia con il suono delle bombe di guerra pure.

Hai una specie di catalogo, conservi alla rinfusa?

No, molte cose sono ancora imbustate o inscatolate, però so che sono lì. Non so più dove metterle. Spero comunque che si realizzi presto il progetto di Foggia, dove mi hanno concesso, graziosamente, uno spazio molto importante, un ex liceo scientifico dove ha studiato Gegè Telesforo. Si chiamerà Casa Arbore e dentro ci saranno tutti i miei cimeli. Spero diventi un riferimento culturale e ci finirà anche tutto il materiale di repertorio. Dagli sketch con Benigni, Troisi e tutti gli altri alle stronzate di plastica. Mi pare giusto così.

Un altro angolo dell'abitazione di Arbore
Un altro angolo dell'abitazione di Arbore

Il tuo rapporto con Foggia, la città in cui sei nato, è sempre stato complesso.

In generale a Foggia non hanno mai avuto grande simpatia per me, date le mie simpatie per Napoli. Si sa che i tifosi, in generale, tendono a schedare le persone. Con il tempo le cose sono cambiate, i foggiani hanno iniziato a mostrare un pizzico di gratitudine in più. Racconto in giro la mia città, mentre prima parlavo solo di Napoli.

D'altronde, nella tua carriera così come nella tua casa, la presenza di Napoli è debordante.

Lo è, indubbiamente. Quello (indica un dipinto di Napoli in casa, ndr) ritrae Napoli quando c'ero io, erano gli anni Sessanta, non c'erano nemmeno gli chalet. Io andavo a far l'amore lì, vedi, con la Seicento di un amico, in quel posto dove oggi non si può andare più. Quello è un quadro che un pittore veneto aveva regalato a Fred Buscaglione. Poi la moglie l'ha dato a un antiquario e io l'ho preso.

Anche a Napoli, se pure in parte minore, c'è chi ha osteggiato la tua operazione internazionale con l'Orchestra italiana. 

Sì, sono stato tacciato di cartolinismo su Napoli, di aver abusato dell'idea di città più bella del mondo. Ma è vero, io con l'Orchestra Italiana ho girato tutto il mondo e non ce n'è alcuna paragonabile, da Acapulco alle Canarie, Rio De Janeiro, quello che vuoi, ma non ce n'è.

Un affetto, il tuo, che è motivato. Passi a Napoli il periodo più dolce della vita, quello da studente. Tant'è che quando nel '63 torni a Foggia per la fine degli studi, vai quasi in depressione.

Esatto, tornai reduce da un amore napoletano impossibile, purtroppo, con una donna più grande di me e sposata. Non sapevo che fare, le indicazioni di mio padre erano o l'avvocato a Foggia, o la flotta Lauro con una raccomandazione. Io invece ero malato di musica, a Napoli avevo conosciuto tutti alla galleria, da Sergio Burni a Roberto Murolo, oltre a quelli del jazz.

Ecco, parliamo di questa cosa che conoscessi tutti. Come hai fatto a entrare in contatto con tutti gli artisti più noti nonostante fossi "straniero"?

È successo dopo un anno di sofferenza, vissuto in via Orsini 40 (lo stesso palazzo della redazione di Fanpage, per puro caso). Mi trovavo in affitto in una stanza dove ho vissuto solitudine vera, anche perché provenivo dalla provincia e la cosa comportava una sorta di complesso del forestiero. Non riuscivo a legare con i miei amici foggiani che si trovavano a Napoli, perché volevo cambiare vita: quel posto era la libertà. La Tv non c'era e fu una noia terribile. A salvarmi fu mio fratello, Alfonso, nato a Napoli perché mio padre aveva studiato come dentista lì per due anni con il padre della moglie di Peppino Di Capri.

Sento odore di inciucio. Che c'entra adesso Peppino Di Capri?

Ricordo che a un certo punto ebbi un problema ai denti, un dolore atroce. Chiamai mio padre per chiedergli che dovevo fare. "Vai dal dottore Gagliardi", disse lui. Mi risolse tutto. Quando qualche anno dopo sono diventato deejay, mio padre mi chiamò chiedendomi se potessi dare una mano a questo Peppino Di Capri che aveva sposato la figlia del suo amico.

Renzo Arbore, ritratto nel salotto di casa sua
Renzo Arbore, ritratto nel salotto di casa sua

Come andò?

Eravamo già amici con Peppino e non ci fu bisogno, ma ammetto che fu una telefonata molto curiosa e insolita.

Il detonatore della tua vita sociale a Napoli è stata quindi la musica?

Sì, mio fratello mi portò a vivere in una nuova pensione in via dei Mille dove ebbi modo di conoscere una serie di musicisti che mi hanno cambiato la vita. Iniziai a lavorare con gli americani e per me frequentare certi luoghi era come andare in America, con quelle bevande terribili, coloratissime. Poi c'era un club di musicisti tutti napoletani, che avevo conosciuto grazie a un amico della facoltà di medicina, figlio di un paroliere famoso di Sergio Bruni, che si chiamava Rocca. Faceva queste cene con nomi noti, da Nunzio Gallo a Roberto Murolo, che diventò mio amico prediletto.

Che ricordo hai di Murolo?

Era genuinamente ingenuo, vittima dei peggiori scherzi: gli abbiamo fatto credere di tutto. Per questa ingenuità ha passato anche dei guai, dopo i quali usciva di casa con una certa riluttanza. A Napoli per le sue vicende successe di tutto, le persone buttavano i suoi dischi dai balconi, fu un periodo molto brutto per lui, alimentato da grandi dicerie sul suo conto (nel 1954 Murolo fu arrestato con l’accusa di corruzione di minore, ndr).

La prima volta che ti ho incontrato, per caso, in strada, mi lasciasti un bigliettino da visita dove c'era scritto: "Renzo Arbore, clarinettista jazz". È questa la tua definizione professionale?

Direi di no, l'ho messa sul biglietto da visita perché sono filoamericano e perché il clarinettista jazz è quello che avrei voluto fare. La definizione è di Roberto D'Agostino, una volta mi guardò e disse che mi vestivo come un clarinettista newyorkese degli anni Sessanta. Io ho avuto sempre una fede politica che partiva dall'idea che l'America di allora fosse il faro della democrazia occidentale. La canzone Tu vuo' fa l'americano, in un certo senso, descrive la persona che sono stato in giovinezza. Nel '57-'58 eravamo pochissimi, ci riconoscevamo dai vestiti, ci contrapponevamo alla moda napoletana del tempo. Era una bellissima Napoli, la percorrevo tutta a piedi. Si vendevano i dischi americani alla Duchesca, io li compravo e trascrivevo i testi, facendo una fatica immane. La mia formazione è stata quella.

Esistono i falsi ricordi. Io, nato nell'87, sono ad esempio convinto che il primo programma televisivo di cui abbia memoria è Indietro Tutta, che andava in onda proprio nel 1987. Sta anche qui la potenza della Tv che hai fatto?

Non mi attribuisco i meriti dei tuoi falsi ricordi, ma posso dire che la sensazione, al tempo, fu di aver ribaltato la televisione dell'epoca, quella dei Falqui per intenderci, una Tv innovativa ma fatta sempre nel solco della tradizione, con un copione e attori che lo rispettavano. Il primo talk show non l'hanno fatto Costanzo o Vespa, ma l'ho fatto io nel 1969, era Speciale per voi. Un dirigente Rai venne a sentire un programma radio che facevo con Boncompagni. Mi propose di fare una cosa in Tv e io proposi un programma in cui i ragazzi fossero liberi di fare le domande che volevano agli artisti. Naturalmente ci furono baruffe, liti, ma soprattutto momenti indimenticabili. E non a caso me lo tolsero. Successe una cosa controversa con Bracardi e per cinque anni io e Boncompagni non lavorammo più in televisione.

E poi?

E poi tornai solo nel '76, dopo la riforma Rai mi chiesero di pensare un programma e io proposi L'altra domenica, che avevo inventato per l'esame del mio ingresso in Rai. Un telegiornalone dello spettacolo in cui, al posto di Piero Angela, c'ero io con i vari corrispondenti Ruggero Orlando da New York, Isabella Rossellini. Era un programma improvvisato e fu una rivoluzione. Lì passavano tutte le cose libere, ci fu la prima apparizione in Tv di Vasco Rossi.

Le carte in tavola, però, cambiarono definitivamente con Quelli della notte, quasi 10 anni dopo.

Forse sì. Non volevo fare un programma per persone anziane, andai da Minoli, allora direttore, e gli dissi che volevo fare un talk show di notte. "Ma di notte c'è solo il monoscopio", rispose lui. Poi si convinse e disse che potevamo provare. Era morta mia madre da poco, non sapevo che fare, ero a Foggia con gli amici, avevo partecipato a una riunione di condominio e mi ero ricordato delle chiacchiere che si facevano al bar in Puglia: il mare o la montagna? Quelle cose inutili che pur di fare tardi si iniziano a esplorare. Questa fu l'idea di base del programma. Feci un elenco di persone che stimavo moltissimo, da Pazzaglia a Frassica, Marisa Laurito, Andy Luotto e abbiamo fatto Quelli della notte. Fu un successo strepitoso.

Un frammento di "Quelli della notte", 1985
Un frammento di "Quelli della notte", 1985

Ma il successo porta i suoi problemi, come quello di ripetersi. 

Eh, dopo tutti mi dissero "ora so' cazzi". Il programma fu un'epidemia, io ho fatto più successi di risonanza che di ascolto. Era difficilissimo inventarsi un bis. Così nacque Indietro Tutta, che era totalmente diverso da Quelli della Notte. Nessuno poté dire o scrivere che ci fosse una somiglianza.

Un comune denominatore però c'era: la goliardia. Il cazzeggio è un elemento che ha fatto da sfondo alla tua Tv e, mi verrebbe da dire, alla tua esistenza.

Assolutamente sì, non saprei dirlo meglio.

Quando hai capito che era la tua cifra?

Da ragazzino, nella mia città, c'era la festa della matricola e i goliardi venivano nell'ambulatorio di mio padre a chiedere l'obolo. Sfilavano per le strade della città con dei carri, giocavano su delle cose che mi stimolavano molto: il sesso, inteso in senso vacuo, e la religione dei misteri gloriosi. Insomma, le cose intoccabili. La parola goliardia ha ancora un'accezione negativa, ma non è così. È sempre stato un ambito in cui lo studioso "alto" si divertiva a scherzare col "basso". Col tempo scoprii che alla goliardia avevano aderito i personaggi italiani più illustri. Io poi ne sono diventato un teorico, a Bologna Umberto Eco mi consegnò la laurea in goliardia.

In cosa consisteva la tua forma goliardia?

È sempre andata di pari passo alla jam session, che è stata un'altra chiave interpretativa della mia vita. Ho sempre amato scherzare su cose sulle quali non era lecito scherzare, ma non si trattava solo dei doppi sensi. La goliardia entra ovunque, nel cinema, persino in un certo giornalismo. A questo va aggiunto l'umorismo napoletano, che per me ha avuto un ruolo fondamentale: io ho spinto per far ottenere a Totò una laurea honoris causa in spettacolo a 50 anni dalla sua morte. Tenni una lectio che intitolai "Totò grande consolatore".

Perché questo titolo?

Napoli è l'unica città in cui il piacere è legato al concetto di consolazione, perché dietro c'è tutta la sofferenza patita prima di quella gioia. "Mi sono consolato", si dice quando si mangia qualcosa di buono o si fa un'esperienza soddisfacente. Intitolai così quella lezione spiegando che per me Totò era stato questo. Negli anni dell'infanzia andavo al cinema con i miei genitori e non vedevo che pianti con i film del neorealismo, i ricordi della guerra. La prima volta che li ho visti ridere è stato con i film di Totò. Ecco perché è stato la mia consolazione.

Un volta hai citato il tuo amico Mario Marenco, che diceva: "Io lavoro per sfregio". La pigrizia è stata un tratto comune di molti personaggi che sono stati tuoi amici e con cui hai avuto grande sintonia artistica, penso anche a Boncompagni. Ma tu in realtà non sei mai stato pigro.

Assolutamente no, però io valorizzo l'ozio anziché la pigrizia. L'ozio non è il padre dei vizi, ma il nonno e, come tutti i nonni, è simpatico. De Masi parlava di ozio creativo e io sposavo perfettamente questa definizione. Le migliori idee della mia vita sono arrivate in momenti di ozio.

Cambiare per te, in particolare in televisione, è stata sempre una necessità.

Sì, la Tv oggi è diventata seriale, si inventa un formato e te lo porti dietro, guarda il caso fortunato del bravissimo Fabio Fazio. Io ho sempre preferito inventarmi dei varietà anomali, o delle parentesi come il processo a Sanremo. Programmi destinati a chiudersi come dei film, senza ripetizioni. In questo senso io sono stato un regista, più che un conduttore. Immaginavo format concepiti per non essere replicabili, penso che la vita funzioni così.

Toccherà cambiare il bigliettino da visita.

In effetti sì, oltre a clarinettista jazz potremmo aggiungere "regista prima di tutto" (sorride, ndr).

Se penso all'attualità, il solo che riesce ad avere il tuo stesso approccio è Fiorello.

Sì, senza dubbio. Rosario si è sempre fermato prima di stancare e di stancarsi. Questa trovata dello show al mattino è geniale, la differenza sostanziale rispetto a quello che facevo io è che lui ha scelto di scavare nell'attualità, servendosi della formula della news come canovaccio su cui improvvisare.

Fiorello, con Amadeus e Jovanotti a Viva Rai 2
Fiorello, con Amadeus e Jovanotti a Viva Rai 2

L'attualità invece non ti interessava?

La considero caduca, dopo tre giorni scade. Ho preferito fare cose che si conservassero e non è un caso che oggi sto facendo programmi con cose conservate. Anche con Boncompagni era così, anziché fare imitazioni ci inventavamo personaggi di fantasia.

Nell'ultima puntata di Indietro Tutta, chiudi cantando "Io faccio ‘o show". In studio, dopo 65 puntate, tutti commossi, Frassica compreso.

Successe anche con L'altra domenica. Alla fine di Indietro Tutta avevo capito di aver bissato un successo irripetibile. Al pubblico, in quei secondi finali sussurro "ci vediamo tra vent'anni", percependo che sarebbe andata così e così è andata.

Hai sempre resistito alla ripetizione.

Per Indietro Tutta io mi fermai anche per la pigrizia di Alfredo Cerruti, che a un certo punto non aveva più voglia di fare altre cose. Capii che era giusto chiudere in bellezza prima di ammosciarsi. Io però dopo quel successo ebbi il problema di cosa avrei dovuto fare.

In effetti hai attraversato un ventennio in cui hai fatto cose laterali, o incentrate su altri o che comunque non seguivano lo stesso schema.

Sì, dopo Il caso Sanremo è partita l'avventura dell'Orchestra Italiana, che doveva durare due anni, lanciare le canzoni napoletane più belle e poi andare su altro. Invece, malgrado l'invidia strepitosa di molti artisti napoletani, forse un po' di disistima, l'orchestra è durata trent'anni. La più longeva al mondo, credo, 1600 concerti circa con quasi sempre gli stessi interpreti. Abbiamo suonato in qualsiasi posto.

Il caso Sanremo che hai citato, è un altro micromondo assurdo. Cinque prime serate al sabato in cui creavate questo processo al festival nel 1990.

Fu miracoloso, anche se non ci dormì per alcune notti. Avevamo fatto una specie di conciliabolo a casa con Banfi e Mirabella divertendoci moltissimo. Poi una volta in teatro per le prove capimmo che non funzionava la conversazione salottiera. Lì dovevi fare battute da varietà. Una notte mi svegliai, chiamai entrambi e dissi che dovevamo fare Totò e Peppino, io che trattavo male Banfi, Mirabella che faceva l'intellettuale e battute anche un po' goliardiche. Funzionò moltissimo, ridevano anche i tecnici.

Fatto sta che il ritorno in Tv effettivo avviene dopo più di vent'anni, ovvero con Meno siamo meglio stiamo nel 2005.

Sì, lì nasce un'altra operazione con gli Swing Maniacs, con la quale provavo a rievocare lo swing italiano sull'onda del successo internazionale che quel genere stava avendo nuovamente.

Arbore in un angolo di casa sua e il gilet di Depero di collezione.
Arbore in un angolo di casa sua e il gilet di Depero di collezione.

Non ripetersi, significa anche evitare il tonfo dopo il successo. Nella tua carriera ci sono stati dei fallimenti?

Se penso ai fallimenti, mi vengono in mente le occasioni in cui mi hanno tolto programmi e progetti miei. Penso a Speciale per voi, che un dirigente democristiano del tempo diede a un conduttore democristiano e che fallì in due anni. Poi Per voi giovani, che io avevo inventato alla radio, così come l'operazione di Rai International, una cosa che mi deluse molto, stava andando bene e me la tolsero.

Ci sono invece dei programmi mancati?

Tre o quattro anni fa, poco prima della pandemia, io stavo pensando sempre con Banfi e Mirabella, a un programma totalmente anomalo. Si doveva chiamare TelePuglia International, in cui parlavamo solo in pugliese di cose quotidiane, dalla lampadina rotta all'angolo tra quella via e l'altra, dove è inciampato il prete tal dei tali. Tutte le conversazioni finivano sempre nel cibo.

"Sto con gli amici e con gli amici faccio lo show", diceva una tua canzone. L'amicizia è stata il collante di tutta la tua vita.

Senza dubbio, la sintonia che ho trovato sul lavoro è sempre stata con persone a me amiche, non poteva esserci distinzione. Uno poteva essere bravissimo, ma se non avevo sintonia con quella persona, non accadeva nulla. Mi è capitato con grandi attori e attrici di non trovare quella miscela. Roberto Benigni imparò a improvvisare con me, aveva già un'inclinazione, ma quando si trovò a L'altra domenica si chiedeva: "Ma questa è una prova?". Invece no, sarebbe andata in onda.

Un'immagine di Indietro Tutta
Un'immagine di Indietro Tutta

Quelle sedute spiritiche mitiche, Benigni che faceva Dante, Villaggio che appariva nei panni di Cristoforo Colombo.

Paolo mi diceva sempre che quella era la cosa più bella e divertente fatta in Tv, mi chiedeva spesso quando lo avremmo rifatto. Io considero Marenco e Villaggio due dei migliori umoristi in Italia, anche e soprattutto per quello che hanno scritto. Marenco ha scritto cacate incredibili, ma anche meraviglie di umorismo puro. Dovevamo stimolarlo io e Boncompagni, per quella sua pigrizia, ma ne è valsa la pena. Dico sempre che non ho fatto il servizio militare, ma il tiraggio di Marenco.

L'amicizia è stata più importante dell'amore per te?

Credo di sì. L'amore c'è stato, sicuramente, ed è stato potente, però l'amicizia è stata cruciale. Non credo sia un caso che non abbia formato una famiglia, evidentemente mi contentavo di avere amicizie su cui concentravo tutto il mio amore. D'altronde il regista si innamora dei personaggi che popolano la propria esistenza.

Hai parlato di un gilet come la sola cosa di valore che hai. Che rapporto hai avuto con i soldi?

Parafrasando una cosa che diceva Celentano, ho sempre pensato che il denaro e il potere hanno un pessimo valore. Di denaro da giovane ne ho avuto pochissimo, pur provenendo da una famiglia borghese. Quando ho iniziato ad averne, ho cominciato a comprare per divertirmi, ma non ho mai avuto l'idolatria dei soldi. Oggetti di valore ne ho comprati pochissimi, macchine belle sì, ma sempre di seconda mano. Luciano De Crescenzo diceva che io amassi spendere, ma forse perché lui era ‘pidocchioso'.

Ed anche precisissimo, da vero ingegnere.

Assolutamente. Ci incontravamo spesso a Capri, dove ci conoscemmo, io arrivavo lì con il mitologico Alberigo Crocetta, colui che inventò il Piper. La filosofia caprese era quella di non essere puntuali, tanto chi vuoi che ti corra dietro. Insomma agli appuntamenti con lui tardavamo sempre, un giorno mezz'ora, un altro tre quarti d'ora. "Abbiamo perso tempo", gli dicevamo per giustificarci. Un giorno, davanti a questa scusa, stufo ci disse: "Mi sono fatto un conto, fino ad ora voi avete perso un giorno".

Questa conversazione si chiude con i mitologici aneddoti su De Crescenzo, dalla madonna che nessuno doveva vedere su una scogliera di Capri per scherzare gli ospiti ignari, al caffè del bar che pareva una cioccolata perché in effetti De Crescenzo, senza rendersene conto, aveva preso la cioccolata del cliente di fianco. La vita con Arbore, o quantomeno una serata, potrebbe andare avanti così, per aneddoti meravigliosi che, come tutti gli aneddoti, si colorano negli anni di sfumature, accenti, retroscena che rendono una storia degna di essere raccontata e tramandata. In fondo, anche questa è goliardia.

Un'ultima foto con Arbore e chi s'è visto s'è visto.
Un'ultima foto con Arbore e chi s'è visto s'è visto.
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