Raoul Bova: “Il mio Don Massimo è amato dalle suore. Ho fatto pace con il giovane sex symbol che sono stato”
Da una parte Don Massimo, dall'altra il "love interest" romano di Sylvie Grateau in Emily in Paris. Due ruoli totalmente opposti ma in piena armonia con il talento recitativo di Raoul Bova. A Fanpage.it difende la serie con Lily Collins dalle accuse di restituire un'immagine stereotipata dell'Italia: "Lo trovo un omaggio alle cose belle che abbiamo nel nostro Paese". È grato per l'affetto e il calore che riceve da parte del pubblico per il suo ruolo in Don Matteo, fiction amata "da nonni e nipoti". Da sempre considerato un sex symbol, rivela di essersi "pentito" di non aver apprezzato abbastanza l'appellativo da giovane: "Non c'è bisogno di dire "io sono tanto altro", il tuo corpo e il tuo viso si legano a ciò che hai dentro, basta semplicemente essere". Nell'intervista ripercorre alcune tappe della sua carriera, dal successo con Piccolo grande amore fino al desiderio di "arrivare bene e senza essere un peso" al 2040. E sull'intervista a Belve? Chiarisce di essersi "totalmente chiuso" quando ha capito che "non c'era sintonia".
Ti sei lasciato alle spalle il debutto nella fiction Don Matteo. Come stai vivendo la fase di assestamento?
Con più tranquillità. L'andata via di Terrence è stato quasi un lutto. All'inizio c'era un po' di diffidenza per Don Massimo e lo guardavano con sospetto ora, invece, parto con grande affetto e sicurezza. C'è modo di godersela di più, senza troppa ansia.
Non hai paura di rimanere intrappolato nel ruolo?
Quest'anno sono riuscito a concentrarmi su altri progetti, da Emily in Paris a Buongiorno Mamma, fino a uno spettacolo a teatro. Per fortuna ho la possibilità di cimentarmi in tanti ruoli diversi senza il rischio di rimanere imprigionato in uno.
Variando riesci a "proteggerti" dal rischio.
Non si tratta di proteggersi, ma è vero che gli addetti ai lavori possono vederti soltanto in un ruolo o pensare che tu possa fare solo questo.
Rocío Muñoz Morales diceva che le più grandi fan di Don Massimo sono le suore. Confermi?
Le suore che conosce lei sì, siamo molto affezionati a loro. Però devo dire che il pubblico è molto vario. Mi sono reso conto che è ampio il raggio d’azione, da nonna a nipote c'è di mezzo una generazione.
Nel ruolo di Don Massimo indossi i panni di un religioso. Qual è stato un momento nella vita in cui hai dovuto avere fede?
Sarebbe facile rispondere "nel momento della difficoltà". Ma è un atto di fede anche riconoscere che una cosa che ti sta succedendo è bella e provare riconoscenza. In passato non ho apprezzato la felicità, facendola passare per normalità.
Sostenevi che "il malessere mentale è al pari di quello fisico". Credi che nell'industria dello spettacolo venga riconosciuta questa parità di trattamento?
No, non solo nel mondo dello spettacolo ma anche nella società. Il malessere mentale è una malattia nascosta, ancora un tabù. Hai paura di dire di soffrire di attacchi di panico o che vai dallo psichiatra perché temi gli sguardi degli altri. Facilmente la gente giudica e ti può far fuori perché hai dato un giudizio sulla tua salute mentale.
Come gestivi la pressione degli esordi?
Mi sentivo soltanto incredulo. Mia madre diceva: "È come fare tredici al Totocalcio, hai vinto una volta poi basta. Adesso torna a studiare". Poi al progetto successivo: "Sei proprio fortunato". Al terzo film, che è stato Piccolo grande amore, mamma mi ha detto che avrei potuto continuare a fare questo lavoro ma tenendo un occhio sullo studio. La pressione c'era nel momento in cui pensavo di non meritare il successo. Certi riconoscimenti li senti più tuoi dopo anni di lavoro.
In un'intervista del 1994 a proposito del futuro dicevi che speravi di raggiungere una serenità dal punto di vista sentimentale. Puoi dirti soddisfatto?
Non so perché a quell'età avessi risposto così. Probabilmente direi lo stesso anche adesso, non ci sono ancora arrivato. Io cercavo la serenità. È la cosa che più mi piacerebbe raggiungere. Cerco l'equilibrio, la forza impermeabile di farmi scivolare le cose addosso.
Dopo il divorzio da Chiara Giordano hai dovuto subire pesanti incursioni nella tua vita privata, raccontavi che i tuoi figli erano spaventati dall'assedio dei fotografi. Cosa hai fatto per tenerli al sicuro?
Non sai mai se hai fatto bene o hai fatto male, tutto ciò che ho fatto è stato per loro. In quei momenti ti senti come un gatto in autostrada mentre passano i tir che se possono schiacciarti lo fanno. Ti metti da parte e aspetti.
Sei sempre stato considerato un sex symbol. L'essere definito come tale ha mai interferito con il modo in cui desideri essere percepito?
Quando ero giovane mi dava un po' fastidio questo discorso, volevo essere apprezzato per altre cose, per la mia interiorità, per i miei pensieri. Ma nel momento in cui cresci e perdi la freschezza e la bellezza di ragazzo pensi: "Ah però, l'ho tanto contestata e adesso se n'è andata". Non c'è bisogno di dire "io sono tanto altro", il tuo corpo e il tuo viso si legano a ciò che hai dentro, basta semplicemente essere.
Madonna ti ha voluto accanto a sé in uno spot. Credi di essere in debito con lei per averti fatto conoscere al pubblico internazionale?
Io sono in debito e grato per ogni incontro che ho fatto, è stato un gradino in più. Ci sono state tante persone che mi hanno aiutato, certo, forse hanno visto in me qualcosa che avrebbe aiutato anche loro.
Tra l'altro in Emily in Paris, più di vent'anni dopo dallo spot, indossi i panni di un regista pubblicitario. Il tuo personaggio incarna un po' qualche stereotipo.
Tra tutti i progetti internazionali Emily in Paris forse non ha quella visione così stereotipata che hanno altri film internazionali. Io lo trovo un omaggio alle cose belle che abbiamo in Italia. Rivedere una Roma bella e curata fa anche piacere. Poi c'è da dire che la stiamo vedendo in una serie quindi c'è anche il beneficio dell'invenzione, del sogno.
Hai detto che Francesca Fagnani voleva creare sensazionalismo a tutti i costi però sapevi bene che ti stavi sedendo in un programma come Belve e non Domenica In. Pensi di essere stato un po' ingenuo, invece di permaloso?
Certo, si sapeva che Belve era una trasmissione un po' piccante ma quel piccante si tira fuori insieme, giocando e scherzando, senza metterti in imbarazzo. Quando non c'è collaborazione vuol dire che tu stai facendo il tuo show e non te ne frega di nessun altro. Se questa era la trasmissione allora ho fatto io uno sbaglio, ma non penso fosse questa l'idea del programma.
Credi che non si sia creato feeling tra di voi?
No, non si è creato feeling. Si è sempre un po' freddi all’inizio di un'intervista, non sai dove va a parare chi ti fa le domande. Non hai tu il coltello dalla parte del manico. Puoi accogliere le cose che dico oppure contestarmi. Puoi mettermi in difficoltà. È un percorso che si fa insieme. Io mi sono totalmente chiuso quando ho capito che non c'era sintonia.
Dicevi che nel 2040 ti auguri di essere nonno. Che mondo stiamo consegnando ai giovani?
Abbiamo maltrattato questo mondo, soprattutto dal punto di vista ecologico. Ecco, già che ci sembri assurdo quello che facevamo cinque o dieci anni fa è un passaggio di coscienza molto importante. Significa che i nostri figli avranno una coscienza diversa. L'augurio, poi, è che non ci siano più conflitti.
C'è qualcos'altro che ti aspetti dal 2040?
Spero di arrivarci bene, di non essere un peso per i miei figli.