Piero Chiambretti: “In Rai non per il mio colore politico. I miei programmi non sono tutti uguali, sono coerenti”
Piero Chiambretti, buona la prima. A Fanpage.it, il conduttore descrive il primo ciclo di Donne sull'orlo di una crisi di nervi come una fase sperimentale nella quale sono state gettate le basi per un ciclo di venti puntate pronte a partire in autunno: "Sono state cinque puntate zero che mi hanno permesso di rifare, secondo alcuni, sempre lo stesso programma, anche se invece non lo era. A me va benissimo rifare sempre lo stesso programma per me l’importante è che sia sempre meglio degli altri. Da adesso fino a quando torneremo, l'obiettivo è fare questo programma sempre meglio".
Piero Chiambretti difende a Fanpage.it l'identità del suo lavoro: "Ho fatto almeno venti titoli diversi tra di loro, ma quello che io nella mia carriera ho fatto è stato cercare di costruire un brand. Quando accendi, devi capire che sono io. Non è sempre lo stesso programma, è sempre la stessa coerenza". Sullo scenario attuale del servizio pubblico: "Se sono tornato alla Rai non è certo per il mio colore politico, anche perché non ce l’ho. Ho lavorato a Rai1, Rai2, Rai3, Rete4, Canale 5, Italia1 e La7. Ho lasciato segni indelebili ovunque, mi sono interfacciato con ogni tipo di dirigente sempre e solo sulla base di un progetto televisivo".
Piero, ieri sera si è conclusa la prima parte di questo tuo ritorno in Rai. Il tuo bilancio?
Sono state cinque puntate zero che mi hanno permesso di rifare, secondo alcuni, sempre lo stesso programma, anche se invece non lo era.
Sento una vena polemica.
A me va benissimo rifare sempre lo stesso programma per me l’importante è che sia sempre meglio degli altri. Dopo queste cinque puntate partirà l'appuntamento fisso nella stagione di Rai3 ad ottobre per almeno di una ventina di trasmissioni. È stato utilissimo confrontarmi con tutti quelli che hanno partecipato, è stato un ritiro spirituale. Da adesso fino a quando torneremo, l’obiettivo è fare questo programma sempre meglio.
“Donne sull’orlo di una crisi di nervi” sarà sempre in prime time?
Assolutamente, sarà in prime time. Ci sarà un altro programma in primavera, a maggio 2025, che andrà tra le 20.15 e le 20.35, tutti i giorni e sempre su Rai3. È una cosa volutamente diversa, costruita per essere diversa a questo programma ‘unico’ che faccio da trentacinque anni.
Torniamo al tormentone del programma che è sempre lo stesso. Eppure Chiambretti fa Chiambretti. Cos’altro dovrebbe fare?
Lo dico con ironia e con paradosso. Ho fatto almeno venti titoli diversi tra di loro, ma quello che io nella mia carriera ho fatto è stato cercare di costruire un brand. Quando accendi, devi capire che sono io. Per il resto, temi, ospiti, collocazioni, scene, sono sempre cambiati. Non è che posso mettermi a fare danza classica o il portiere della nazionale di calcio. Posso fare infotainment che passa in rassegna, in modo originale, tutti gli argomenti della cronaca, della cultura, della politica, che corrispondono alla televisione. La televisione è questo e nient’altro. Vengo considerato un innovatore, altro paradosso. Faccio sempre lo stesso programma e sono un innovatore. Visto che ho questa nomea, il programma cosiddetto nuovo ci sarà a maggio.
Se posso lasciare una considerazione, forse sei riuscito, nel giusto compromesso tra stare sulla notizia e allargare il campo. Hai evitato, dove possibile, di avere personaggi in promozione. Detto questo, cosa puoi migliorare e cosa puoi tenere?
L’attenzione sugli ospiti, per qualunque programma, viaggia purtroppo dentro la schiavitù della loro ricerca. Solo pochi eletti possono avere quelli che non ha nessuno. Io ho puntato su quegli ospiti che piacciono a me. Tutti quelli che sono venuti sono stati importanti per disegnare quel presepe che ha raccontato, in un mese e mezzo, una contemporaneità in modo originale. La logica della promozione l'ho evitata, rischiando pure di non portare il faccione, perché non volevo correre il rischio di fare, appunto, il solito programma. "Donne sull'orlo di una crisi di nervi" è stato immaginato su un titolo scomodo e politicamente scorretto. Un linguaggio che passa dal talk show all’informazione pura con la velocità del cambio di tema, l’uso dei tiktoker in forma televisiva, la musica giocata sui sapori di mondi lontani con le due cantanti che interpretavano canzoni che sceglievo per loro, che avessero sapori dietro i quali si nascondevano i temi del programma.
Hai corso più di un rischio?
Io credo sia molto più importante essere repulsivi che banali. Le critiche, gli epitaffi sulla mia morte creativa, sono tutte cose che mi fanno enormente piacere perché non corrispondono alla realtà dei fatti. Poi, i fatti basta leggerli non dico su Wikipedia, ma anche su quella che è la mia storia professionale. Abbiamo lavorato a fine stagione, mentre c’erano le elezioni europee con la maledizione della par condicio che non ti permette di avere politici, con gli europei di calcio che incombono, abbiamo avuto anche la soddisfazione di superare Rete4 con la quarta puntata. Sono risultati che ci hanno messo in condizione di sentirci vivi.
I momenti più difficili di questo ritorno?
Nessuno in particolare, ma ti dico che dopo i risultati della prima puntata, ho registrato la seconda con una serenità assoluta. Perché avevo la convinzione di un progetto solido. Non ho cambiato nulla tra la prima e la seconda e non ho cambiato nulla tra la seconda e la terza. Sono arrivati i risultati, e tutti a dire che bello. Ma così è facile. L’ascolto è sempre importante, altrimenti uno lavorerebbe a un video-citofono. Per il servizio pubblico, però, sento che è più importante sapere di produrre un programma da servizio pubblico. Se io me ne sono andato da Mediaset, dove stavo benissimo e dove ho mantenuto un rapporto stretto con l'azienda e con il suo proprietario, è perché volevo cimentarmi con una cosa che avesse difficoltà che una televisione commerciale non ha. Sulla terza rete, è chiaro che la partenza è dura e la salita è ardua, ma se il progetto sta in piedi prima o poi il lavoro paga.
In una intervista a TvBlog, a conclusione de La Tv dei 100 e uno, hai parlato della critica televisiva di oggi che usa "la roncola".
Intanto, la critica televisiva di oggi non c’è. Quella che viene espressa dai quotidiani più importanti, è una critica al massacro. Non c’è visione dei linguaggi utilizzati, dell’uso della luce, della preparazione del conduttore alle interviste o delle risposte dell’interlocutore. Il più delle volte sono vendette personali che servono unicamente per cercare un titolo e avere dello spazio. Il critico televisivo, come è stato definito da grandi letterati del passato, è un generale che spara sui propri soldati. Ecco, noi soldati abbiamo la pelle dura, quindi penso che possiamo fare a meno di questi generali.
Il fatto che ci sia un contesto che prepara a chi esce dal servizio pubblico uno status di ‘vittima’, inevitabilmente pone chi resta, chi viene promosso – e nel tuo caso, chi arriva – nella spiacevole condizione di ricevere un’etichetta? L’ho presa larga, me ne rendo conto: TeleMeloni esiste o no?
Credo che esista una televisione lottizzata e le ho conosciute perché in Rai ci sono stato 15 anni. Non c'è lottizzazione a Mediaset, quasi nulla a La7. La Rai, invece, vive come appendice del Governo che sceglie uomini del proprio colore politico per gestire informazione e palinsesto. Detto questo, però, credo che se gli spazi, come nel mio caso, vengono difesi e il lavoro di tutti costruisce un discorso, non dico pluralista, ma non unico, questo è già una buona risposta a quella che viene chiamata TeleMeloni. Al momento, non ho ricevuto pressioni di nessun tipo. Se sono tornato alla Rai non è certo per il mio colore politico, anche perché non ce l’ho. Sono abbastanza deluso dalla politica e anche le ultime elezioni, con l’astensione che c’è stata, ha dimostrato questa delusione. Dopodiché, io non mi sento il cocco di nessuno, vivo e accarezzo la mia bacheca con dentro quello che ho fatto. Mi sono proposto e Roberto Sergio e il resto dell’azienda ha accettato le mie proposte. È importante la coerenza. Per questo quando mi dicono ‘il solito programma’, io dico non è ‘il solito programma’, è la solita coerenza. Ho lavorato a Rai1, Rai2, Rai3, Rete4, Canale 5, Italia1 e La7. Ho lasciato segni indelebili ovunque, dai Festival di Sanremo al Laureato, dai Chiambretti Night alla Repubblica delle donne. Mi sono interfacciato con ogni tipo di dirigente, con ogni tipo di colore politico, con ogni tipo di obiettivi. Il fatto di aver lavorato in tutte queste aziende vuol dire che se uno fa progetti televisivi e basta, può avere più vita lunga di chi invece è espressione di un colore o di una bandiera politica che rappresenta.
Hai un rapporto con la tua città, Torino, che percepisco molto risolto rispetto a quello che in genere un artista ha. Tutti hanno sempre qualcosa da ridire sulla propria città, mentre invece tu no.
Sono molto innamorato di Torino. Mi ha messo alla prova sin da ragazzino quando dicevo ai miei amici che se fossi riuscito a vivere di questo mestiere, anche uscendo solo cinque chilometri da qui, allora voleva dire che sarei diventato un campione. La Torino della mia giovinezza era una città fabbrica, una città dormitorio e un lavoro come questo non avrebbe avuto senso. Nonostante quest'ambiente oppressivo, io riuscivo a lavorare nei cabaret e nelle piazze. Torino mi ha messo fortemente alla prova. Tanto è vero che quando sono uscito da Torino, sono riuscito a vincere un concorso su novemila entrando dritto dritto in Rai. Poi trovo Torino, la città che ha il giusto compromesso qualità-prezzo.
Cioè?
Ha le dimensioni di una città di provincia ma ha la storia, la profondità, la cultura, il gusto pari alle grandi capitale europee. Il connubio di vivere una città dove puoi andare a piedi, dove non devi fare code per andare a trovare un amico di un altro quartiere, dove i servizi funzionano, tutto questo è proprio Torino. Torino mi vuole bene ed è un amore reciproco. Se sono tifoso del Torino, per esempio, non è solo perché mio nonno me l’ha trasmesso dal Grande Torino, ma soprattutto perché il Torino ha nel suo nome, appunto, la città.
Sul Grande Torino ho letto un libro di recente (Solo il fato li vinse di Stefano Radice, Urbone) che riporta le parole di Don Riccardo Robella: “Tutti devono portare nel cuore un coccio di quella squadra che non può rinascere, ma può risorgere ogni volta”. È questo che vuol dire essere tifosi del Toro?
È una storia importante che rimane nelle orecchie, negli occhi e nel cuore di chi tifa la squadra, ma anche di quelle che settimanalmente affrontiamo in campionato. È una squadra anche simpatica a tutti, ma solo perché non vince mai. Altrimenti, sarebbe antipatica come tutte le squadre che vincono. I tifosi del Torino, nonostante tutto, non mollano mai. Esattamente come me.