Per Elisa, Vincenzo Ferrera è Antonio Claps: “Ho percepito il suo dolore, forse avrei reagito come lui”
Vincenzo Ferrera è uno di quegli attori senza sovrastrutture, un attore che parla chiaro, che non infiocchetta e racconta le sue esperienze con estrema lucidità e chiarezza, ma soprattutto con emozione. La stessa che si percepisce dalla sua voce nel raccontare il lavoro fatto su Per Elisa – Il Caso Claps, la miniserie di Rai1 in cui interpreta Antonio Claps, il padre della sedicenne potentina scomparsa il 12 settembre di trent'anni fa.
Un uomo buono Antonio Claps, come quelli che solitamente Ferrera porta in scena, per quella sua aria "non da cattivo" che ha sempre determinato, a priori, ogni suo ruolo. Il dolore di questa vicenda che, dopo anni, ancora tocca le corde degli italiani, si intreccia con la capacità di poter interpretare un personaggio senza farsi sopraffare dalla proprie emozioni, ma accompagnandole. Ed è anche di questa capacità che l'attore palermitano ci parla, in questa intervista, dove tratteggia la sua carriera, toccandone anche il culmine, arrivato con la serie di Rai 2 Mare Fuori.
Partiamo da un dato tecnico. La prima puntata della fiction ha avuto un ottimo riscontro da parte del pubblico, 3 milioni di telespettatori. Ritieni sia stato merito della curiosità nel vedere come è stato reso un caso di cronaca così sentito oppure il desiderio da parte del pubblico di conoscere qualcosa che non sapeva?
Poteva andare anche meglio se non avessimo avuto il Napoli contro, siamo stati fortunati, abbiamo fatto il 16 % di share, che ormai conta più del numero dei telespettatori, siamo arrivati anche a punte del 21%, quindi un ottimo risultato. Tralasciando il lato tecnico, la storia di Elisa è piuttosto sentita negli italiani, la conoscono bene. Nonostante sia recitato, il nostro è un prodotto reale, fatto con la consulenza della famiglia. Forse, inconsciamente, chi lo guarda cerca anche delle risposte che non ha, vede la fiction per capire se c’è qualcos’altro che è stato scoperto. Ma è una matassa che ancora deve dipanarsi.
È interessante la sottolineatura del è "un prodotto reale". Altre rappresentazioni televisive non lo sono?
Abbiamo avuto grande rispetto, molte volte le fiction che trattano di storie con famiglie che ancora soffrono non ne hanno. Tutto viene fatto in nome della sceneggiatura, deve avere un certo filo logico, si arriva ad inventare delle cose e quindi molte famiglie, nella maggior parte dei casi, rimangono male o non approvano il prodotto finale. In questo caso, invece, i Claps ci sono stati molto vicino.
A proposito di questo, però, rispetto agli altri interpreti che hanno potuto incontrare i membri della famiglia che avrebbero impersonato, purtroppo Antonio Claps è scomparso nel 2014. La mancanza di questo confronto ti è pesata o ti sei sentito libero di rappresentare il dolore in una certa maniera?
Non avevo tanto materiale. All’inizio mi sono detto “sono nei guai”, avere a che fare con Gildo è stato molto bello, ma con me si commuoveva sempre. Quelle poche volte che ci siamo visti, mi diceva "grazie, questo è un omaggio che fate a papà perché se lo merita". La mia fortuna è stata percepire quel dolore e il fatto che questo padre meritasse di essere ricordato, perché non è soltanto con la battaglia che si può essere considerati eroi, ma anche con quella chiusura e quella depressione. Raccontare un uomo che si arrende era doveroso. Ho portato me stesso, ho provato a far vedere come poteva essere per me Antonio.
Il dolore di Antonio Claps, infatti, si manifesta diversamente dall'irruenza di Filomena e Gildo. Il silenzio è stata la risposta ad una ricerca della verità che gli avrebbe portato ancora più sofferenza.
Gildo e Filomena sono degli eroi moderni, un unicum, la gran parte delle persone reagirebbe come Antonio. Sono convinto che io stesso avrei reagito come lui a questa perdita. Era la sua unica figlia femmina e mi sono reso conto che ho portato quello che avrei sentito io “che importa, tanto lei non c’è più, tanto vale arrendersi, la mia vita è già finita".
Quando viene trovato il corpo di Elisa, però, Antonio Claps si sveglia da quel torpore in cui aveva vissuto per 17 anni e si rende protagonista di una scena fortissima. Lancia i piatti per aria, si dimena, il suo dolore finalmente esplode.
Sì, si rende conto di essere stato preso in giro da una città intera, una città che non meritava nemmeno la sua presenza al funerale, e che ha voltato le spalle a questa famiglia.
Addentrandosi in maniera così viscerale nella storia della famiglia Claps, come si riesce a non portare nella narrazione di un caso così delicato anche la propria rabbia, la disillusione nel vedere che la giustizia poteva fare il suo corso molto prima dei 17 anni che ha impiegato?
Come si fa ad affrontare il nostro lavoro, questa è la domanda. Lo abbiamo fatto con grande passione e lucidità, abbiamo fatto un lavoro molto meticoloso sulla recitazione, sulla situazione che si creava sulla scena. Marco Pontecorvo (il regista ndr.) ci frenava quando un’emozione doveva essere più tenuta, meno mostrata di come si farebbe in un’altra fiction, dove per coinvolgere il pubblico magari è necessario. Qui abbiamo tolto, soprattutto con Antonio, un uomo che non era un piagnone, ma teneva tutto dentro. Poi, però, oltre a quello attoriale c'è anche un livello personale.
Lì la rabbia si è fatta avanti.
L’abbiamo vissuta nella città quella rabbia. Ci siamo trovati due mesi e mezzo a Potenza, in inverno, abbiamo vissuto la difficoltà di stare in una città del genere, bisogna ricordare che Elisa stessa voleva andarsene, non era una città facile.
Con Gianmarco Saurino si parlava della responsabilità di interpretare certi ruoli, dell'interpretare non un personaggio, ma una persona che ha realmente vissuto una vicenda tragica. Ritieni anche tu sia un privilegio?
Certo. La conoscenza di Gildo, l'incontro che mamma Filomena ha avuto con la nostra Elisa, è stato un momento intenso, piangevamo tutti. Quando hai a che fare con Gildo hai la consapevolezza che non è finzione e ti rapporti con un uomo che ha vissuto tutto da solo, come fai a non accostarti a tutto questo con grande rispetto, ma pensare di recitare in una fiction? Diventa una responsabilità più etica nei confronti dei telespettatori, non è solo intrattenimento. Per questo, sì, è un grande privilegio, perché noi viviamo le nostre vite da privilegiati, ma a queste povere persone è capitata una cosa terribile.
Quello di Antonio Claps, d'altra parte, non è il primo personaggio realmente esistito che interpreti.
Purtroppo io sono un palermitano e come tanti attori palermitani abbiamo recitato sempre in storie di mafia. Ho interpretato il Commissario Montana ammazzato dalla mafia nell’88, uno dei ragazzi della scorta di Borsellino, quindi sì non è il primo. Però a cinquant’anni sono padre di un ragazzo di 15, mi ritrovo con una maturità diversa, un percorso artistico un po’ più profondo, non mi era mai capitato un personaggio in cui si entrava così in profondità.
I ruoli interpretati finora sono sempre stati dalla stessa parte, quella dei "personaggi positivi". Ti è mancato, in passato, non cimentarti nel lato oscuro di un personaggio?
Assolutamente sì, ma subiamo il cliché un po’ italiano per cui al cattivo dobbiamo associare una faccia da cattivo, non pensando che una faccia da buono può essere anche più spaziante. Questo non viene mai recepito in Italia.
Perché?
Perché si va nella direzione più semplice, l’Italia è sempre stata molto superficiale in queste cose. D’altronde facciamo fiction in gran parte superficiali, in cui c’è il cattivo, il buono, non si va mai a fondo e soprattutto non si rischia mai, all’estero si rischia di più.
Da attore di teatro mi insegni, però, che sul palcoscenico non funziona così.
Se uno deve fare Tartufo di Molière, è un prete buono che diventa cattivo, lo si fa, lo si interpreta, il teatro è meritocratico, è l’attore bravo che fa il personaggio. Non sempre nella televisione funziona così.
Sei reduce dalla Festa del Cinema di Roma, dove sono stati presentati i primi due episodi di Mare Fuori 4, in cui interpreti Beppe Romano. La serie è ormai diventata un fenomeno, a questo proposito non c'è una certa ansia da prestazione nei confronti della riuscita del prodotto?
Certo, ma è un'ansia da prestazione che compete più ai produttori, per quanto mi riguarda non ne ho, il personaggio di Beppe Romano funziona bene. Il successo di Mare Fuori è stato deflagrante, come se il pubblico ne volesse sempre di più e, infatti, la produzione sta già firmando per Mare Fuori 5 e 6. Come in tutte le fiction si assiste ad una parabola narrativa: si arriva al culmine del successo e poi c'è una discesa fisiologica. Di sicuro, bisognerà trovare nuove storie da raccontare e non sarà semplice, anche perché molti ragazzi a cui gli spettatori si erano affezionati sono andati via e non è scontato che si leghino ai nuovi che arriveranno.
C'è la tendenza a spolpare il successo di un prodotto, finendo per non avere più nulla da raccontare, sei d'accordo?
È così, se pensiamo che avevano intenzione di fare anche un film su Mare Fuori! Faranno il musical, diretto da Alessandro Siani, ma la maggior parte degli attori della serie a cui è stato proposto non hanno accettato, solo quattro persone hanno detto sì. Ad esempio, ci sarà Maria Esposito. Ma lo capisco, ha 19 anni e tutta la voglia di fare un po' di esperienza a teatro. D'altra parte lei è un valore perché porterà il marchio Rosa Ricci nello spettacolo. Ad ogni modo, credo sia il mood del momento quello di inseguire il successo della serie, che in questo caso assicura un sold out facile anche a teatro, nonostante il cast sia diverso.
Soprattutto dalla terza stagione della serie avete dovuto fare i conti con gli spoiler, ne sono usciti vari anche dei primi due episodi. Come si argina un fenomeno di questo tipo?
Nell’epoca dei social è tutto uno spoiler, questa anteprima ha contribuito, perché ormai tutti sanno quello che è successo. I ragazzi sono ossessionati dagli spoiler.
Un notissimo saggio di Karl Popper si chiama "Cattiva maestra televisione", a questo proposito, visto che la televisione sono anche in pochi a guardarla, credi che non abbia più senso parlare della missione educativa della tv?
In generale sì, credo si sia persa questa concezione. Il miracolo di Mare Fuori è stato quello di avvicinare per la prima volta i genitori a vedere gli episodi con i figli, e guardandola insieme hanno potuto far capire loro che commettere una certa cosa potrebbe avere certe conseguenze. Quindi un aspetto educativo l’ha avuto, ma lontano da qui sembra che le cose non vadano per il meglio. Sembra di fare i discorsi da vecchi, però, per certi versi è così.
Dopo una carriera divisa tra teatro, cinema, televisione, sei arrivato all'apice del successo con una serie teen. Vorresti fare inversione di marcia e avere l'età di uno dei ragazzi che lavorano con te?
No, potrei avere un po’ di invidia, ma mi tengo stretto il mio percorso. Alla loro età ho faticato tanto e ne sono contento perché poi ho sempre fatto teatro di qualità, lavorando con grandi maestri. Arrivare a 50 anni con un successo come Mare Fuori mi permette di viverlo in maniera più disincantata, perché so che potrebbe finire da un momento all'altro e ho gli strumenti per stare tranquillo. Per i ragazzi del cast è diverso, hanno una bomba atomica tra le mani e faranno più fatica, ci sarà una selezione naturale tra di loro.
Ovvero?
Pochi di loro continueranno ad essere attori desiderati dalla tv, altri arrancheranno, altri ancora si ritireranno. Sarà in quel momento che faremo i conti con chi non ha gli strumenti per sopportare il fatto che il telefono non squilli più. Si chiederanno "ma come è possibile, sono così famoso, ho fatto Mare Fuori e non mi chiamano?". A vent'anni è complicato, per questo devi avere le spalle protette dai genitori oppure studiare.
Puoi dirti soddisfatto della tua carriera, anche con gli alti e bassi, quindi?
Sì, molto, ma posso dirti che paradossalmente bassi non li ho mai avuti, quando non lavoravo in televisione. Ho lavorato 25 anni con Carlo Cecchi, tantissimi anni con Servillo, con Martone, quindi comunque sono sempre stato gratificato dal fatto di fare l’attore in compagnie così. Se poi mi chiedi con chi vorrei lavorare, Sorrentino e Garrone, ormai, per me.
Mai un momento di abbattimento, anche quando sembrava tutto nero?
Chi fa l’attore, lo fa per vocazione, per la gran parte di noi, soprattutto chi fa teatro da una vita, è una missione, quindi non conta il telefono che non squilla. Lo sentiamo dentro. Sarebbe banale dire che è il mestiere più bello del mondo. Mi pagano per fare una cosa che è un gioco, è incredibile come in Inghilterra e in Francia si dica giocare, jouer, to play, come fa a non piacerti qualcosa in cui ti travesti per fare qualcun’altro? Il fatto di poter avere stimoli continui, conoscere gente nuova, fare una tournée teatrale, spostarti, ti pagano per spostarti da una città all’altra. Quando non lo fai è un mestiere infame, è un mestiere che si fa veramente se lo si ama, se hai un dubbio non ha senso farlo.