Peppe Lanzetta: “Sorrentino non è per tutti, Parthenope è un monumento. Tesorone? Le signore adesso mi chiamano Eminenza”
Peppe Lanzetta non è semplice da incasellare in una categoria, perché è fuori da ogni schema. È una figura che incarna la Napoli più cruda, poetica e intensa. Per la seconda volta sul set con Paolo Sorrentino, Lanzetta interpreta l'arcivescovo Tesorone in Parthenope, un ruolo che sembra sublimare tutta la sua carriera. Per Tesorone, il regista gli ha chiesto di ingrassare e lui ha accettato senza se e senza ma. A Fanpage.it, Lanzetta racconta il day by day di questo lavoro, da quando Sorrentino gli ha consegnato il copione che avrebbe dato il via a un meraviglioso anno di prove intense e meticolose. Con lui, Celeste Dalla Porta, la protagonista giovane e bellissima del film, una presenza scenica che ha portato Lanzetta a misurarsi con le sue stesse insicurezze.
La conversazione che segue non è solo un'intervista; è uno scambio tra due voci che, in modi diversi, raccontano una città ferita e fiera. Peppe parla della sua esperienza a Cannes, il confronto tra la prima volta con Martone: "Non avevo ancora capito niente", e poi di Napoli e dei suoi giovani, traditi da un mondo che non gli appartiene. E, con la consapevolezza di chi ha vissuto e continua a vivere il doppio filo di amore e odio per la propria città, si concede anche un sogno, quasi un desiderio nascosto: vedere uno dei suoi libri, Un Messico napoletano, finalmente portato sullo schermo (Alessandro Siani, da produttore, ne ha opzionato i diritti), magari da un giovane regista che sappia sentire e respirare quella Napoli di cui Lanzetta è simbolo e voce, nel bene e nel male. Benvenuti in un dialogo che si trasforma in un viaggio. Con Peppe Lanzetta, nulla è mai solo apparenza, nulla è mai solo una parte.
Un po’ di tempo fa – saranno passati almeno due anni – eravamo a un bar di Capua e dicesti: “Prendo un gelato perché Paolo Sorrentino ha detto che devo ingrassare”. Io partirei da qui per raccontare Tesorone.
Sì, mi ha chiesto di ingrassare perché aveva già in mente quel personaggio. Ricordo che era il 29 settembre quando andai da Paolo Sorrentino e quello che mi colpì fu il suo atteggiamento. Era affettuoso. È stata una cosa importante per me. Credo che lui avesse già in testa tutto. Mi diede subito il copione e da quel momento è cominciato un anno, più o meno, dove abbiamo provato e riprovato con Celeste Dalla Porta. Lui lavorava già con la telecamera perché c’era la necessità di creare un rapporto, di creare una coppia. La sua meticolosità è stata importante perché mi ha aiutato a sciogliermi soprattutto rispetto alla bellezza di Celeste. Non era facile per uno della mia età, il rischio di cadere nel ridicolo era alto. Grazie a tutto questo lavoro, siamo arrivati prontissimi al set.
La tua scena con Parthenope è una delle più forti, una di quelle che ha anche causato qualche polemica.
Polemiche che noi abbiamo stoppato subito. È la rappresentazione della fragilità delle anime di fronte alla tracotanza del potere. Ma quello che è più interessante è quello che succede dopo. Lui mette subito in chiaro di non potersi permettere nessuna frequentazione con Parthenope perché "m'aggio miso ‘ncapa ‘e addiventà Papa".
È la seconda volta che lavori con Paolo Sorrentino. La prima fu per "L’uomo in più". In una intervista a Tintoria, il regista ha rivelato di aver convinto Toni Servillo a lavorare con lui lasciandogli credere di aver affidato a te la parte del protagonista.
Involontariamente ho fatto la fortuna di Toni, che è un grande attore e non ha certo bisogno di incensamenti da parte mia. Sai, penso che le cose accadono sempre nel momento giusto. Questo nuovo ruolo è stato incredibile. Sorrentino mi ha fatto tornare a Cannes. C’ero già stato con Martone per L’amore molesto, ma all’epoca non avevo capito niente.
Perché?
Trent’anni fa non ero pronto. Quando tornai da lì, a pagina 5 e 6 di Repubblica c’era la mia foto con Anna Bonaiuto . Io mi sconvolsi. La testa andò per conto suo, mi dissi: a chi ho ucciso per essere a tutta pagina?
Pensi che il ruolo di Tesorone possa aprire nuove possibilità?
Oggi sono equidistante dalle forte emozioni e dalle cadute. Ho puntato su altre opere quando ero più giovane, su una carriera differente. La verità è che il cinema è strano. Nel 2002 ho fatto “Gli indesiderabili”, un film di Pasquale Scimeca, che veniva dal successo di “Placido Rizzotto”, con un cast importante – c’erano Vincent Gallo, Vincent Schiavelli, Violante Placido – e le cose non andarono come previsto. Anche il ruolo che ho avuto in “Spectre” (di Sam Mendes, ndr) immaginavo che aprisse altri orizzonti, ma non è stato così.
Con questo vuoi dire che non ti aspetti niente?
Guarda, bisogna saper aspettare piuttosto che aspettarsi qualcosa. Che tu abbia trenta o sessant’anni, non devi stare per forza in mezzo perché inevitabilmente scadi a fare marchette. Un sogno forse ce l’ho ed è quello che dai miei libri si possa realizzare un film.
Non è mai accaduto?
Trent’anni fa, quando uscì “Un Messico napoletano”, la società di Massimo Troisi mi chiamò perché opzionò i diritti. Mi affiancarono una sceneggiatrice molto brava, che era la sua compagna Anna Pavignano, ma non venne fuori una cosa soddisfacente. Ero nel trip del libro e il film, per me, a quel punto non era necessario. Ero contento così. Dopodiché, ho capito che se tu insisti sulle cose, magari riescono meglio. Negli anni, altri registi ci hanno provato ma non è mai accaduto nulla. Adesso, Alessandro Siani ha opzionato i diritti come produttore e spero che questa volta si riesca a fare.
Ti piacerebbe che fosse proprio Paolo Sorrentino a girare il film di Un Messico napoletano?
Paolo è così unico che fa solo quello che sente davvero dentro. Penso che ora lui sia già in un viaggio suo, sa già quale sarà il prossimo passo. Forse “Un Messico napoletano” è più per un regista giovane che ha voglia di misurarsi con un testo del passato.
Quante volte hai visto Parthenope?
L’ho visto quattro volte. La prima volta ero in una saletta da sette posti a Roma, al mio fianco c’era Francesco De Gregori. Immagina l’emozione. Poi l’ho visto a Cannes, poi alle proiezioni di mezzanotte e con mio figlio una settimana fa.
Uno dei pezzi più letti su Fanpage.it è quello relativo al significato della scena del figlio del professore di Parthenope. Lo stesso Sorrentino non ha fornito idee o spiegazioni sulla scena, perché il bello è proprio che il pubblico rifletta su quella scena. Tu che idea ti sei fatto?
Credo che lui abbia voluto ingigantire il dolore del professore. Lo capiamo già dalla prima scena il suo turbamento, grazie a una grande interpretazione di Silvio Orlando. Il regista ha forse voluto rendere immenso e universale quello che poteva essere il dolore del professore, che fa il paio con il dolore della ragazza. “Com’è morto suo fratello?”, gli dice lui a un punto e credo sia uno dei momenti più belli dal punto di vista emotivo. Il dolore è un grande tema universale. Nel dolore c’è il rimpianto per la giovinezza e per la bellezza. Io credo che questo sia uno dei film più belli che ho visto al cinema e vado al cinema da cinquant’anni. “La vita non è per tutti”, dice Cormac McCarthy. Io aggiungo che Sorrentino non è per tutti perché con Parthenope ci ha consegnato una scultura, un monumento.
Napoli arriva da tre fatti di sangue che hanno colpito i più giovani.
Questo è il mio più grande dolore. Credo che dopo la pandemia il mondo ha avuto un rinculo pazzesco. Quarant’anni fa Eduardo diceva dei ragazzi di Nisida: “Dategli un lavoro”. Non è cambiato niente. Dare la colpa solo a questi ragazzi è una cosa scandalosa perché hanno ereditato soltanto allucinazioni. Sono ragazzi che hanno capito che gli adulti gli hanno fatto un pacco. Negli ultimi cinque anni, tra pandemie e guerre, non possiamo dire che abbiano veramente vissuto la loro infanzia e la loro giovinezza. I più sprovveduti, purtroppo, reagiscono. È come se ci fosse qualcosa di diabolico nell’aria che non li considera come un possibile futuro, ma che vuole che sia tutto qui, ora, pronto da consumare solo per noi. Vorrei tanto dare una mano, anche perché sono stato un ragazzo che aveva tutte le carte in regola per diventare uno sprovveduto. Non ci sono grandi iniziative adesso. Io li ho sempre chiamati “pescecani del sociale”. Venivano nei quartieri a rischio, prendevano i soldi delle istituzioni e se andavano. La stessa Gomorra ha fatto così.
Così, come?
Le produzioni sono arrivate, hanno dato 80 euro in mano ai ragazzi e sono andati via. Dico io, aprite una cittadella della cultura, una palestra? Fate un gesto. Trovo che sia anche una provocazione verso Saviano. Io so che inizialmente lui era in buona fede, poi non si è capito più niente. Il sistema, inteso come potere, ti fa credere che la voce dissidente deve esserci, però il sistema alla fine ti controlla.
A proposito di Saviano, c’è stata una risposta muscolare di Don Patriciello nei suoi confronti. Cosa ne pensi?
Io sono sempre stato accorto nei giudizi nei suoi confronti perché comprendo la sua situazione. Non sono polemico, il mio non è un intento polemico ma voglio allargare un abbraccio e penso che sarebbe bellissimo se Saviano scendesse in campo, sarebbe bellissimo se si sporcasse le mani. Mi piacerebbe vederlo qui, guardarlo negli occhi per dirci: “Ma vulimme fa quacche cosa ‘e overo pe’ sta città?”. Perché Napoli, in fondo, è stata venduta come un esercito di delinquenti.
Peppe, con chi ti piacerebbe lavorare in futuro?
Mi piacerebbe molto lavorare con Bellocchio e con Virzì. Poi, comprendo anche che c’è un cinema più leggero che si può continuare a fare. Certo è, che sia Martone sia Sorrentino mi hanno usato come nessuno mai. Entrambi mi hanno denudato.
Il Lanzetta “desnudo e seduttore”. Diciamo la verità: Sorrentino ti ha reso anche un sex symbol.
Eh, me vuò sfottere. È vero, però, che adesso le signore quando mi telefonano, mi fanno: “Eminenza…”.