Myrta Merlino: “Sono la prova che il talk show non è morto. Giletti? Non lo avrei mai abbandonato”
Venerdì 17 giugno 2022 va in onda l'ultima puntata del l'undicesima edizione de L'Aria che Tira. Il talk mattutino condotto da Myrta Merlino in questi anni è diventato un punto fermo della programmazione di La7, segnando senza ombra di dubbio una decade fatta del racconto di risvolti politici decisamente inaspettati e stravolgimenti sociali, cui si sono aggiunte una pandemia e una guerra. Merlino, alla vigilia della pausa estiva, dopo le recenti polemiche sul posizionamento a Non è l'Arena per il caso Giletti in Russia, parla a Fanpage.it dello stato di salute dei talk show, dei fatti televisivi più caldi delle ultime settimane e di dieci anni di diretta quotidiana per i quali, spiega lei: "Ci è voluto un fisico bestiale".
Un decimo anno impegnativo, quello appena trascorso, con gli sconvolgimenti del Covid ribaltati da una guerra che ha imposto un nuovo cambio di temi e di vocabolario.
Quest'anno abbiamo avuto tre racconti completamente differenti: dalla pandemia fino a Natale, alla cronaca politica con il Mattarella Bis, per poi reinventarci come programma di esteri. Non è stato semplice, perché in questo Paese non c'è mai stata una cultura molto profonda in fatto di politica estera.
Come si riprogramma interamente l'impostazione di un programma che va in onda tutti i giorni?
Senza dubbio con pochissimo tempo a disposizione. Siamo stati veloci e camaleontici in diretta, non avremmo il tempo di programmare. Tutti i cambiamenti li immaginiamo la sera e la mattina dopo li facciamo. Per questo lo definirei un anno di grande soddisfazione e orgoglio per la mia squadra, che ha fatto un lavoro complesso e straordinario.
Da due anni, e per ragioni diverse, ci sono narrazioni del reale opposte e incompatibili: pro vax-no vax, pro Putin e contro Putin. La Tv si è trovata in mezzo, come l'avete affrontata?
Innanzitutto impermeabili alle critiche, che sono arrivate sui vaccini e sulla guerra, il che mi rende fiera perché significa che non siamo mai di parte. Sul tema vaccini io ho preso una posizione, schierandomi nettamente, perché credo nella scienza ed è un fattore dirimente. Ma pur avendolo fatto ho dato spazio a tutte le voci, siamo stati sempre aperti a tutte le posizioni. Sulla guerra io la vedo in maniera diversa, non può esserci uno schema manicheo, ha a che fare con la nostra libertà, la coscienza, le nostre regole morali.
Con la guerra è scoppiato definitivamente il caso ospiti, l'opportunità di chiamare voci in contrasto con una logica pro Ucraina a prescindere. Anche voi siete stati molto criticati per questo.
Premetto sempre che esistono un aggressore e un aggredito e che le morti sono sempre di innocenti, ma in studio ho avuto le parti più lontane, da Michele Santoro a Rula Jebreal, da Vauro a Nathalie Tocci, e ho provato con entrambe a fare il mio lavoro, capire e fare le obiezioni quando ho ritenuto giusto farlo. Il fine era non avere un racconto ideologico ed etichettato. Voglio che le persone abbiano gli strumenti per capire e farsi un'idea, proponendo loro tutti gli elementi necessari. Per me c'è un solo nemico: la propaganda. Il racconto non può mai tenere conto solo di una parte.
Tra i momenti topici di questo periodo la puntata di Non è l'Arena da Mosca, dove lei ha avuto un importante ruolo di mediazione. Che clima si respirava quella sera?
Ci siamo ritrovati davanti all'orrendo atteggiamento, propagandistico e arrogante, di Maria Zacharova, che ha offeso chi fa il nostro mestiere e cerca di stare attaccato alla realtà delle cose, alle verità per quanto effimere possano essere.
Sallusti ha abbandonato la trasmissione, mentre lei è rimasta. Lo ha fatto per solidarietà verso Giletti, oppure per una ragione giornalistica?
Entrambe le cose. Se sono stata lì è perché credo in uno spirito di squadra, nel modo di fare informazione della mia rete, sapevo che avrei assistito all'intervista a una spin doctor mefistofelica, lo sottolineo perché è una donna che ho trovato orrenda ma al contempo furba e molto capace.
L'idea di essere in studio da Roma per gestire la trasferta da Mosca di chi è stata?
Mi è stato chiesto da Giletti e dal mio direttore (Andrea Salerno, ndr), ma in ogni caso non mi sarei mai alzata mettendo in difficoltà un collega. Con Massimo siamo legati da un lungo rapporto di amicizia e avevo compreso si trovasse in una posizione molto complessa, con una esponente di spicco del regime russo. Capisco anche Sallusti, che ha un altro ruolo e non è un pezzo di questa squadra. Ma sono rimasta anche perché credo che, come ho detto in onda, siamo persone intelligenti e informate, così come il pubblico. Abbiamo tutti gli strumenti per smascherare bugie, falsità e quegli artifici retorici che Zacharova ha saputo usare molto bene, non rispondendo mai nel merito.
Il dibattito su cosa si possa dire o non dire in Tv è sempre più centrale. Sta condizionando il modo di fare televisione?
Non credo, non ho un'idea didattica e pedagogica della televisione, sono sempre stata convinta di avere a che fare con adulti che hanno capacità di farsi un'opinione. Per quello che mi riguarda sono me stessa per forza di cose, se vai in onda tutti i giorni e non lo sei, diventi schizofrenica. Mi viene spontaneo esprimere posizioni e opinioni su cose che hanno a che fare coi miei convincimenti morali, ma lo faccio meno sui temi della politica, di cui vanno raccontate luci e ombre lasciando la possibilità di giudizio al pubblico.
La "viralità" è ormai un parametro di riuscita dei talk show. Se imprevisti o interventi di ospiti vengono ripresi e trovano spazio su social e giornali, hai fatto rumore. Programmi come il suo sono condizionati da questa dinamica?
Assolutamente sì, è una logica che ormai conta tanto. Molte volte L'Aria che Tira crea il dibattito e detta l'agenda della giornata, tenendo banco su social e testate online proprio per gli interventi e le cose dette in trasmissione. Questo elemento è vitale soprattutto per programmi del mattino come il mio.
Perché sottolinea l'aspetto della fascia mattutina?
Semplice, io sono partita in un orario che dieci anni fa era considerato la Serie C degli ascolti. Non dimentico le parole del mio direttore di allora, Lillo Tombolini, mi chiese se fossi sicura di volerlo fare definendo la fascia della tarda mattina "la Fossa delle Marianne" dal punto di vista degli ascolti. Oggi facciamo spesso il secondo, se non il primo ascolto di rete, e credo che a dieci anni distanza possiamo dire di aver cambiato completamente i connotati di questa fascia. Ma non solo per l'audience, che resta un parametro essenziale, quanto dal punto di vista dell'autorevolezza: quello che avviene da noi viene ripreso anche grazie a questo rapporto con il mondo dei social e dell'online. Chi viene sa che si tratta di una fascia pregiata.
Le piattaforme social danno e tolgono. Luoghi come Twitter e Instagram sono sempre più il terreno fertile per un'ostilità ai talk show quasi aprioristica. Che ne pensa?
Do un peso relativo alla cosa. Da anni mi dicono che il talk è morto, se così fosse io sarei televisivamente sepolta, visto che ne faccio uno di due ore e mezza tutte le mattine. In un certo senso sono la prova provata che il talk non è finito. Per il resto polemiche, critiche e odio sui social sono quasi fisiologici e finché colpiscono me, che ho strumenti e possibilità per potermi difendere e spiegare, non è un problema. Spaventa piuttosto in che modo questi mezzi possano influire sulle persone più fragili. Abbiamo il dovere di riflettere sulla questione e cambiare le cose, perché la violenza impatta sulle persone in modo diverso.
Dieci anni fa la politica italiana pareva molto più interessante di oggi e anche L'Aria che Tira sembra andato oltre il solo racconto di palazzo che imperava dieci anni fa. È solo un'impressione mia?
Ho sempre considerato L'Aria che Tira una barca molto leggera, che prende vento molto facilmente. Quando sentiamo qualcosa nell'aria, proviamo a interpretarla e raccontarla. Nel periodo berlusconiano e renziano avevano personaggi che prendevano tutta la scena e questo è meno vero oggi, ma se penso a momenti topici come l'elezione di Mattarella o i referendum, i dati sono stati ottimi perché La7 resta il luogo dell'approfondimento politico.
Anche il racconto del distacco della politica dalla realtà è racconto della politica, d'altronde.
Esatto, anche se c'è da dire che in termini televisivi i governi tecnici sono una iattura. Ministri che si espongono poco, presenza rarefatta, mancano i personaggi. Peculiarità degli esecutivi tecnici, però, è di essere meno legati al consenso ed è proprio in fasi come queste che noi viriamo sul paese, le crisi sociali, le fabbriche che chiudono, le delocalizzazione. Il momento in cui i voti qualcuno deve prenderli arriverà e a quel punto ricomincia il giro.
Sul governo Draghi che idea ha?
Ebbi modo di conoscerlo quando mi occupavo solo di economia, in una lettera pubblica che gli ho indirizzato tempo fa, all'inizio della sua esperienza da premier, gli riconoscevo qualità che forse nessuno italiano aveva avuto prima di lui, ma gli rammentavo che ogni tanto avrebbe dovuto mettersi ad altezza sguardo con gli italiani. Se non lo fai il paese a un certo punto lo sente e cambia, perché questo è un paese che cambia spesso, un attimo ti vede come un salvatore e quello dopo ti percepisce come un aguzzino.
Per la versione estiva de L'Aria che Tira l'impostazione resterà quella di Magnani al suo posto?
Assolutamente sì, Francesco Magnani nasce come autore del programma e l'idea fondamentale è che la mia squadra, guidata da Riccardo Zambon, resti sul pezzo e a presidio di uno spazio, non solo per la conduzione ma per tutto il gruppo che ci lavora. L'Aria che Tira diventa L'Aria d'Estate, ma la continuità autoriale e contenutistica resta un elemento imprescindibile.
Questa edizione che si chiude segna la fine di un decennio alla guida di questo programma. Ha sempre la stessa voglia o ambisce anche ad altro?
Negare che avrei curiosità e voglia di fare anche altro sarebbe ipocrita. Questo mestiere lo faccio da tempo e ho fatto tanti chilometri di diretta, che non è mai in modalità pilota automatico perché tutto ciò che dici resta lì per sempre, quindi richiede grande attenzione ed è non poco usurante. La voglia di altre cose c'è, ne parliamo spesso con il direttore, il problema è trovare ciò che mi corrisponda. In questi anni ho costruito pian piano un vestito perfetto per me e, sebbene come metafora le donne abbiano sempre voglia di cambiare vestito, ho sempre trovato difficoltà a trovarne uno diverso che si sposasse con me.
Anche perché qualsiasi altro vestito sarebbe incompatibile con quello che porta oggi per ragioni di tempistiche…
E beh, sennò crepo (ride, ndr).