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Mare Fuori 5, Antonio De Matteo: “La storia di Lino merita un finale. La crudezza va raccontata per non anestetizzarci”

Antonio De Matteo si racconta in un’intervista parlando del ruolo di Lino in Mare Fuori 5, di personaggi scomodi e dell’importanza di dover raccontare anche la crudezza: “Ci stiamo piegando al poeticamente corretto. La realtà non è così”.
A cura di Ilaria Costabile
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Antonio De Matteo è uno di quei volti che sul piccolo schermo si è visto spesso e di cui colpisce la durezza, ma anche la dolcezza dello sguardo esaltata da quei ruoli in cui questo connubio è più vivo che mai. Sarà forse per questo motivo che il ruolo di Lino, sin dalla prima stagione di Mare Fuori, è diventato una seconda pelle, sebbene di strada prima di arrivare ad interpretarlo ne ha fatta tanta. Un lavoro come quello dell'attore richiede passione, ma per certi versi anche incoscienza: "Mi sarei dovuto prendere più rischi" racconta parlando del passato, sebbene ad oggi ammette di avere la giusta esperienza per poter vivere serenamente della sua creatività. Fotografo e anche attivista, De Matteo racconta: "Non possiamo lasciare che certe cose passino in sordina, ora che so di essere qualcuno, è giusto far arrivare la mia voce".

Partiamo dalla fine. Nell'ultima scena della quinta stagione di Mare Fuori, il destino di Lino sembra essere in bilico, è probabile che lo rivedremo nella prossima?

Credo, spero di sì, ancora non lo sappiamo, stanno lavorando alle sceneggiature. Ci piacerebbe scoprire, sia a me che a Lino, che sta sempre con me, cosa ci fanno fare. I presupposti per una bella sesta stagione ci sono, quindi è un monito per gli sceneggiatori: "Ci siamo e vogliamo dare il massimo".

La storia di Lino, in fin dei conti, non è mai stata indagata in maniera davvero approfondita, pur essendo un personaggio molto intenso. 

Nella seconda stagione si è parlato del suo passato, dopodiché Lino è andato a servizio delle altre storie, rimanendo a margine ma in maniera naturale. Dopo aver compiuto certe azioni, piuttosto dense, stava cercando di capire come muoversi, dopo aver affrontato i suoi mostri. Ha provato a non ritornare quello che era, ha iniziato a guardarsi intorno e, purtroppo, si è invaghito di una ragazza molto più giovane di lui.

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Quando hai iniziato pensavi che il tuo ruolo sarebbe durato così a lungo?

Mi sono sempre augurato questo successo. Non me l'aspettavo, perché il mio personaggio nella prima stagione non era nemmeno molto scritto, per cui con l'accordo del regista abbiamo lavorato molto anche di improvvisazione. È stato nella seconda stagione che hanno capito, almeno credo, che poteva essere una bella risorsa trovare la sua storia e addentrarsi nel suo passato. Per fortuna, perché c'è mancato poco che me ne andassi.

Cosa era accaduto?

In quel periodo mi era stata offerta una cosa gigantesca, che era The Barbarian, la serie tedesca. C'è da dire che lì sarei morto al terzo episodio della terza stagione e poi Lino, come personaggio, mi incuriosiva di più, volevo restare in Italia e tra le due strade, scelsi quella di Mare Fuori.

Quando hai avuto la percezione che Mare Fuori stesse diventando un vero e proprio fenomeno?

C'era stata Gomorra da poco, non pensavamo che potessero esserci due successi così grandi e ravvicinati. Ci siamo resi conto della risonanza della serie all'inizio della terza stagione, la seconda abbiamo rischiato di non farla, un mese prima di girare non sapevamo nulla. Evidentemente, però, i numeri davano ragione al prodotto. Su RaiPlay avevamo fatto visualizzazioni che nessuno si sarebbe aspettato, siamo arrivati ad equiparare Sanremo. È sempre stato un prodotto che aveva bisogno di respiro, spazio e gliel'hanno dato.

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Lino è un personaggio che vive di contraddizioni, ma finisce con il cedere al suo lato oscuro. Quante volte hai dato ascolto al tuo di lato oscuro?

È qualcosa che accade tutti i giorni, è una questione di scelte, ma anche della capacità di acquisire informazioni tali per cui ciò che scegli è dettato dal volere restare nel giusto, poi gli errori si fanno e si ammettono.

Continuando con il parallelismo, Lino non sempre l'ha fatto. Anzi. 

Lino, ad esempio, a me piace perché la rappresenta la contraddizione profonda dell'essere umano, ha pochi strumenti, cerca di barcamenarsi, fa delle scelte che sono suo malgrado cattive. Sa che è sbagliato, ma si prende il rischio. Di solito si dice "Chi non risica non rosica", lui lo fa e si mette in guai davvero grossi, che il più delle volte non riesce a gestire.

E qual è il rischio più grande che hai corso finora?

L'arrivo di mio figlio, mi ha messo di fronte a delle responsabilità. Forse l'azzardo più grande è stato quello di comprare una casa, dover pensare ogni giorno a guadagnare uno stipendio che consenta non solo a me, ma anche a mio figlio, di vivere serenamente. La vita è una sola e va presa a due mani, dobbiamo prenderci la responsabilità di rischiare, altrimenti tutto intorno a noi ristagna, resta fermo, soprattutto il pensiero e non ci si evolve.

Hai raccontato di aver cambiato anche più lavori negli anni, aVanity hai detto di aver lavorato come operatore ad Amici. Come è successo?

Una serie di incastri. Un mio carissimo amico, che conosce la mia passione per il digitale, mi ha proposto di dargli una mano nella gestione delle luci negli studi di Amici. Erano delle strutture a LED, mai usate prima, è stato uno dei primi rischi che mi sono preso. Però mi è servito a staccare da una vita che non volevo più, dopo anni come cameriere, ero stanco. Qui si è vista la caparbietà dell'attore.

Quello dell'attore è un mestiere dinamico, ma segnato da lunghi momenti di vuoto. Quanto è facile perdersi in quei periodi?

Ci si può perdere nell'apatia, la recitazione ti fa notare questo aspetto in maniera plateale, concreta, in altri mestieri non succede, ti danno l'illusione di vivere una vita più serena, ma sta iniziando ad assopirti. Essere ambiziosi per fare gli attori è fondamentale, ma non significa sgomitare per sovrastare gli altri, ma competere in maniera leale, con i propri strumenti e migliorare.

Pensi di esserci riuscito?

Quando scegli di fare questo mestiere devi capire quali sono i pro e i contro, perché ad un certo punto dovrai campare e non è facile fare due, tre mestieri mentre stai cercando un posto tuo, che non sia l'avere successo, ma garantirti una continuità. Grazie a Mare Fuori sono riuscito ad uscire da un momento di oscurità, facevo altri mestieri, ma volevo vivere facendo quello per cui avevo studiato, volevo avere la possibilità di creare e avere la serenità di fare una cosa fondamentale nella mia vita: il papà.

La distanza da tuo figlio pesa. 

Si mette in conto anche la perdita di quei momenti, purtroppo. Appena posso lo porto sul set con me, quando ci sono lunghi periodi di pausa, poi, abbiamo tempo di recuperare. Si tiene conto del tempo che è passato, ma si può migliorare il presente per costruire un buon futuro.

In questi anni in cui hai coltivato il tuo mestiere, cosa pensi di aver riscoperto di te?

Un'empatia maggiore negli esseri umani, era una cosa che già sapevo, ma ho messo in pratica male. Ho sempre avuto problemi a gestire la moltitudine, perché temevo diventasse una valanga, ma nel rapporto uno ad uno riesco a sviluppare ancor di più quell'empatia che ti fa capire che ogni essere umano ha una storia da raccontare. La recitazione ti apre all'ascolto, è un dare e ricevere costante.

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Lino è stato definito un personaggio scomodo, ma in realtà nell'Arte della Gioia hai interpretato un ruolo delicatissimo: il padre di Modesta. Affronti una scena di violenza carnale con lei bambina, quanto è stato difficile lavorarci?

La prima settimana, quando ho conosciuto Valeria (Golino ndr.) è stata una delle esperienze più belle della mia vita, perché è una persona spettacolare, ci ha messo nelle condizioni di realizzare un'opera d'arte, mantenendo sempre rispetto, gioia, un calore nella gestione dei nostri rapporti. Questo mi ha permesso di mettere in scena quella che per me è stata l'esperienza migliore e peggiore dal punto di vista attoriale. È il personaggio più ignobile che io possa mai incontrare e interpretare, ma c'è bisogno di raccontarlo, ci stiamo nascondendo dietro il poeticamente corretto, la crudezza va raccontata, altrimenti ci si anestetizza, diventa troppo semplice scappare.

Un attore può rifiutarsi di girare alcune scene?

Ci sono scene che un attore può anche rifiutarsi di girare e sono delle scene che, insieme al regista, agli scrittori può modificare in maniera che il racconto ci sia lo stesso, ma senza intaccare la propria dignità. Credo che raccontare certe cose sia necessario, perché non si può edulcorare quello che accade nella vita. La recitazione è anche un'azione politica, sociale, ideologica per me che sono un attivista.

Quindi credi ancora nel valore educativo del cinema o dei prodotti televisivi?

Bisogna sempre considerare che il racconto è un visione di un'esperienza, di una vita al limite, per quanto riguarda Mare Fuori, come accadde per Gomorra, bisogna educare le persone alla visione. È vero che un personaggio, per come è costruito, può avere successo e può portare un messaggio, ma questo non significa che deve essere considerato un eroe. È lì che sta l'errore, dimenticarsi del punto di partenza del racconto e non solo.

C'è dell'altro?

Bisogna lavorare in un altro senso. Mare Fuori ha successo? Bene, ma perché deve essere tutto educativo? Poi i genitori, tutti le famiglie, chi sta dietro ai ragazzi quand'è che si prende la responsabilità di confrontarsi con loro, prima che si venga a creare un muro sempre più alto tra le nuove generazioni.

Parlavi di attivismo, sostieni da tempo la causa palestinese e lo hai dimostrato pubblicamente. 

L'ho sempre sostenuta, prima però non ero nessuno e non c'erano occhi di bue su di me o su quello che facessi al di fuori del mio lavoro. Sono stato in Palestina, in Cisgiordania, a Nablus, a Ramallah, a a Tiberiade e ho visto con i miei occhi cosa cosa quello che accadeva. Era una causa sentita dalla mia famiglia, mio padre quando abitavo ancora a Caserta, mi portava a Roma alle manifestazioni. Ho dovuto prendere coscienza del fatto che sono un personaggio pubblico e quanto sta accdendo non può passare in sordina. Nel mondo dello spettacolo nessuno ne stava parlando, ed era una cosa che mi stava massacrando; era morto mio padre da poco, lui per me ha rappresentato tutti i valori della lotta alle ingiustizie, non potevo essere da meno. Ho fatto quel gesto sul red carpet della Festa del Cinema di Roma, mi sono sentito una piccola voce.

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Si possono sostenere alcune cause con varie forme d'arte, tu l'hai fatto con la fotografia. Cosa raccontano i 12 ritratti che hai realizzato?

Sono memoria. Ricordare questi casi di cronaca, anche se sono passati anni, ma ci sono familiari che in silenzio continuano la loro lotta per i cari che non ci sono più. E soprattutto quello che ne rimane dopo un'azione così ignobile da parte di chi pensa di avere un potere e di poter essere al di sopra di tutte le leggi, semplicemente perché dovresti essere colui che mantiene l'ordine, ma dovresti proteggere i cittadini invece che ammazzarli.

Emotivamente, qual è la differenza che avverti tra la recitazione e la fotografia?

La recitazione è un'esperienza diretta, con un grado di emotività più o meno intenso, però è un passaggio perché vive esattamente nel tempo dell'azione, se passa quel tempo l'azione è finita. Fermare un'immagine ti consente di espandere quel gesto, momentaneo, che però così può racchiudere un passato e un futuro.

C'è qualcosa che avresti fatto con un'intensità diversa?

Mi sarei preso più rischi, avrei voluto essere come sono adesso. Ero molto permaloso, con il tempo ho iniziato ad essere meno severo con me stesso, a volte ero cattivo, un giudice imparziale. Spesso ho avuto paura, ma più conosci, meno hai paura. Dovevo crederci di più.

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