Ludovico Tersigni: “Dovremmo imparare a staccare da tutto. In tre anni senza social ho vissuto una vita autentica”
Prima era il cinema, poi è arrivata la tv, poi ci sono state le serie (Skam, Oltre la soglia, Summertime ndr.) ed è così che Ludovico Tersigni è diventato uno dei volti più amati tra i giovani attori della sua generazione. Spigliato e talentuoso, il 28enne circa tre anni fa, dopo aver condotto X-Factor, ha deciso però di prendersi una pausa, dopo anni di lavoro a tambur battente, ha realizzato che non riusciva a godersi nessuna delle esperienze che stava vivendo, non riusciva a trarne giovamento, ma soprattutto era difficile gestire un carico tanto emotivo, quanto fisico. Era necessario riconnettersi con una parte di sé e per farlo viaggiare non poteva che essere la soluzione migliore. Lo racconta in un libro, Ci vediamo oltre l'orizzonte, edito da Rizzoli, in cui affida a Lorenzo, il protagonista di quello che lui stesso definisce un romanzo di formazione, il racconto di questo cambiamento che, però, come racconta in questa intervista è ancora in atto: "Non so ancora dove mi porterà" rivela, ma almeno ha scoperto che scrivere gli piace più di quanto potesse immaginare.
Partiamo dall'oggi, in che momento della tua vita sei?
Un bel momento. Sono molto contento, emozionato, sto vivendo una nuova avventura in cui è ancora tutto in divenire, anche i tempi sono diversi. Con il cinema la risposta su quello che hai fatto è immediata, vai in sala, vedi il film e poi ne parli, il libro ha un tempo di lettura, che cambia per ciascuno di noi.
Ti sei chiesto quale sarà il tuo pubblico di lettori?
Spero che il libro sia abbastanza trasversale, credo di aver scritto un libro per tutti, anzi, questa è la mia speranza. Poi, ovviamente, ognuno può interpretarlo a suo modo. Penso che, inizialmente, ci sarà un po’ di quel pubblico che mi sono portato dietro negli anni, qualcuno che mi conosce già, però mi auguro che il libro possa essere slacciato da quello che sono stato in passato e accolto semplicemente per quello che è: un libro.
Quand'è che hai iniziato a scriverlo?
Tra la fine di marzo e l’inizio di aprile dell’anno scorso. Un anno di stesura, di riletture, modifiche, tagli, cambiamenti, è stato un lavoro totalizzante, mi ha preso tantissimo.
Hai scelto di ambientare il tuo racconto a Londra nel mondo della finanza, due realtà che richiamano all'idea di velocità e di iperattività, è stato un modo per parlare della tua vita ma non in maniera diretta?
Volevo universalizzare delle sensazioni che spesso coincidono in diversi contesti lavorativi, ho scelto quello della finanza perché la velocità e la frenesia lo permeano in ogni parte, a casa, negli ambienti di lavoro, paradossalmente anche mentre si dorme. Ho amici che lavorano a Londra e si muovono in questo contesto, ho fatto delle ricerche antropologiche, microstoriche, mi sembrava un buon teatro per ambientare l'inizio di questo processo di cambiamento.
E tu come lo vivi il cambiamento?
Dipende, a volte parliamo di cambiamenti anche non decisi. La cosa migliore sarebbe trovarsi di fronte ad un cambiamento che sia spontaneo, credo sia una buona condizione di partenza.
La scrittura è stata catartica per te, terapeutica?
Penso proprio di sì, ha sempre avuto questo effetto, da quando ho iniziato a scrivere i primi versi, le prime storie, fiabe, racconti brevi, quando ero a liceo. Mettevo su carta emozioni, sensazioni che potessero tracciare una sorta di diario. Da attore poi sono stato abituato ad interpretare personaggi diversi da me, questo mi ha facilitato la costruzione dei caratteri, mi sono prima immedesimato, poi ho provato ad allontanarmi, dando vita a parti diverse, nuove.
Nel romanzo si parla chiaramente di burn out, un fenomeno piuttosto frequente nella generazione dei 30enni. È un qualcosa che puoi dire di aver vissuto anche tu?
Beh sì, come l’hanno vissuta tutte le persone che conosco. Credo sia un fenomeno dovuto agli strumenti che utilizziamo, telefoni, social, il perpetuo contatto con tutto quello che abbiamo intorno, quando avremmo bisogno di più tempo per pensare a noi, distaccandoci da tutto. In metropolitana guardano tutti il telefono, cammini per strada e hanno tutti le cuffiette nelle orecchie è una sorta di alienazione. Questa è la condizione che precede il burn out.
Quindi il paradosso è che, pur essendo iper-connesso, sei comunque solo.
Ti isoli senza accorgertene, perché hai la sensazione di essere in contatto, ma è un’illusione, perché il contatto virtuale è solo un surrogato di quello reale. La soluzione non so quale potrebbe essere, perché nel frattempo tutto continua a cambiare così velocemente, ci vengono forniti strumenti potentissimi che, però, continuiamo ad usare in un modo, come direbbe Nietzsche, "umano troppo umano".
Prima di fermarti, sentivi di più l'agitazione di dover essere iper produttivo o dover raggiungere un ideale che ti eri prefissato?
Il fatto di dover performare sempre ci mette in competizione con gli altri, anche la parola, competitività, condiziona i rapporti, siamo in un tutti contro tutti, come in un videogioco. Tralasciando l’amicizia, l’amore, quei valori che vengono prima di tutto il resto. La necessità di dover far vedere agli altri quanto siamo bravi ha messo in ombra chi, invece, cerca solamente di vivere bene, anche nell'affrontare un percorso artistico. L'iper-produttività ha minato anche l'essenza stessa dell'arte.
Ne ha sminuito il valore secondo te?
Ci sono dei fattori che influenzano a livello creativo l'opera che produci, si è soggetti a dei numeri, non si sta più attenti alla qualità, ma alla quantità. Quindi la musica, il cinema, la letteratura ne risentono perché sono diventati dei prodotti da mettere sugli scaffali del supermercato. Performativo, competitivo e capitalistico sono tre aggettivi che vanno d'accordo. L'uomo ha iniziato a produrre, distruggere e produrre ancora, in questa dinamica non c'è più tempo. Potrei anche farti una metafora.
Fai pure.
Ecco, secondo me, Don’t look up (film Netflix di Adam McKay) è un’ottima metafora. Magari non sta arrivando un meteorite su di noi, non so se il cambiamento climatico ci spazzerà via, ma non c'è più il tempo per godersi le cose, perché dobbiamo subito comunicarle agli altri, e poi quando incontri i tuoi amici non hai niente da raccontare, perché hai già fatto la storia su Instagram, hai pubblicato tutto su X, TikTok.
Tu però hai deciso di disfarti dei social, per tre anni ne sei stato lontano.
Sì, ma ho scarificato un futuro possibile, ho sacrificato un profilo Instagram che poteva essere una fonte economica, una fonte di pubblico per fare un percorso interiore che non so adesso che frutti darà. Quando ho eliminato il mio account e ne ho fatto a meno per tre anni, è come se avessi vissuto una vita parallela.
E cosa hai trovato in questa vita parallela?
Ho ritrovato un’autenticità nella ricerca della solitudine, dell’esperienza, del contatto con le persone che incontri in giro per il mondo. Cose di cui magari non parli con nessuno e senti la necessità di scrivere un libro. Ma è un procedimento diverso.
Cambia la modalità di racconto, certo.
È un procedimento più lento, più lungo, in cui devi affrontare più fasi e in ogni fase il materiale viene raffinato sempre di più, fino a che non riesci a distillare qualcosa che pensi possa essere degno di attenzione. Tra l'altro noi abbiamo problemi di attenzione. Il fatto che alla presentazione del libro io sia stato ascoltato per un'ora è stato per me un regalo grandissimo, in un mondo veloce, frenetico, vedere 50-100 persone sedute ad ascoltarti e sono lì per capire le tue ragioni, è un qualcosa di inestimabile.
Hai parlato dell'ascolto degli altri, ma è importante anche ascoltare se stessi. Ricordi il momento in cui l'hai fatto e ti sei detto "basta, ora devo fermarmi"?
È stato il periodo in cui dopo una serie Netflix molto impegnativa, ero già stanco e ho iniziato a lavorare come conduttore di X Factor. Mi è arrivata addosso una valanga di informazioni, difficili da gestire per essere una prima volta, avevo bisogno di tempo per digerirle. Lì ho scelto di fare una giocata contro-intuitiva, qualcuno non lo avrebbe fatto, ma io ho cercato una nuova via e ancora la sto percorrendo, sono ancora all’inizio.
Quali sono state le emozioni che hai provato quando hai staccato dalla tua routine?
Ho provato a descriverli nel libro tramite le prime sensazioni di Lorenzo a Fuorteventura, gli ho dato la responsabilità di raccontare una fase un po’ caotica che invece richiedeva calma. C’è una pagina in cui lui descrive lo stordimento, la confusione, poi si rende conto che è solo uno strascico, un effetto collaterale. Ho sentito una sorta di agitazione, quella sensazione di dover fare in fretta qualcosa che non andava fatto in fretta, ma andava goduto, come quando avverti di essere rincorso da qualcuno, ma ti volti e dietro di te non c’è nessuno.
Che rapporto hai con il tempo?
Lo sto ancora cercando. Però mi piace molto ascoltare i batteristi, quelli forti, perché loro lo dividono bene.
Il viaggio cosa ha rappresentato per te?
Il viaggio è una chiave, è una modalità per mettersi alla prova, per esplorare una parte di te. Parti e vedi posti nuovi, ma in realtà il mondo è una superficie riflettente, in cui ti rispecchi, come diceva Proust per la letteratura: il libro è uno strumento ottico che lo scrittore offre al lettore per permettergli di vedere qualcosa che il lettore non avrebbe visto, ma ha dentro di sé.
E tu cosa hai scoperto di te che non sapevi?
Eh ho scoperto che mi piace tanto scrivere e spero di continuare a farlo.
Ad oggi, dopo questo percorso interiore, cosa significa per te stare bene?
Non lo so, credo sia impossibile rispondere in maniera convincente a questa domanda. Per citare ancora Nietzsche, bene e male sono due condizioni illusorie, per questo nel titolo del mio libro c’è la parola oltre, perché è un qualcosa che supera i confini.
Hai parlato anche di meditazione, in che modo il processo meditativo ti ha permesso di entrare in contatto con certe parti di te?
Più che alla meditazione mi sono avvicinato alla pratica dello Iyengar Yoga che non è nello specifico meditazione, ma è una fisioterapia preventiva, una manutenzione del corpo, è una disciplina, anche severa a volte, che richiede tempo, dedizione, impegno. Sono tutte qualità che una volta allenate possono essere utilizzate anche in altri contesti, quindi l’avvicinamento allo yoga è stato un cambiamento di stile di vita, resto sempre lo stesso, ma con una disciplina che mi aiuta nei momenti in cui perdo la bussola.
Qual è il gesto più coraggioso che pensi di aver fatto finora?
Forse accettare di farsi leggere, perché quando ti fai leggere ti metti un pochino a nudo.
A questo proposito, come reagisci ai giudizi degli altri?
Ammetto di accoglierli bene. La società performativa è molto giudicante, ma a me interessa il giudizio di poche persone, quelle che mi sono care, che mi stanno vicino e mi conoscono da sempre. Di quello che dicono gli altri faccio tesoro quando è utile per il mio miglioramento personale, altrimenti come diceva Dante, non ti curar di loro ma guarda e passa.
C'è stata una critica dalla quale hai tratto un particolare insegnamento?
Nel percorso di studio che ho fatto con Lorenzo Campagnari per la preparazione a X Factor, ce ne sono state tante. Mi ha fatto lavorare su moltissime lacune che avevo, soprattutto in merito allo stare sul palcoscenico. Poi nel mio lavoro mi sono interfacciato con colleghi, registi, che mi hanno aiutato a migliorare.
E la cosa di cui hai più paura?
Mi fa paura il buio, l’altezza, l’acqua profonda, il futuro.
Il futuro perché lo vedi come un'incognita?
Sì, il fatto che non possa essere previsto. So che è incontrollabile, quindi bisogna essere pronti agli imprevisti, a reagire e con i cambiamenti così veloci anche a livello internazionale, i conflitti, la militarizzazione dei cosiddetti stati cuscinetto, non so che impatto abbia sulla vita delle persone, però tutto continua a succedere. Non nego di essere preoccupato.
E nel tuo futuro più imminente, vedi un ritorno sulle scene?
Mi piacerebbe, anche se è ancora presto, devo ancora mettere i puntini sulle i. C’è tanta voglia di fare e fare bene, ora mi sento più carico, vediamo che succede, vivo alla giornata.
Qual è l'aspetto che hai trovato più simile tra il mestiere dell'attore e quello dello scrittore?
Nella creazione di un personaggio, nell’interpretarlo e nello scriverlo ho cercato di utilizzare lo stesso procedimento. A volte li ho creati dal nulla, altre volte ho preso ispirazione da persone attorno a me, però c'è un collegamento anche con il lavoro di regia.
Ti piacerebbe, un giorno, realizzare una tua regia?
Sì, tanto, tantissimo.
C'è stato in questo percorso qualcuno su cui hai potuto contare e che ti ha accompagnato in questa nuova ricerca di te?
Sì, ma penso che sia una cosa privata, ci sono delle persone che ci ispirano a volte senza darci alcun tipo di consiglio, ma solo con il loro comportamento. Possono essere definiti come dei fari e sicuramente ce n’è qualcuno, ma sono tutti personaggi legati all’attività sportiva, al lavoro sul corpo, persone che ho conosciuto, surfisti, persone che hanno fatto una scelta di vita importante.
Cosa ti ha insegnato, quindi, il lavoro sul corpo?
Mi sono calmato un pochino, prima ero più agitato.
Un'agitazione dovuta alla voglia di fare cose?
Sì, esatto. Un po' di Fomo (Fear of missing out ndr.), ce l'ho avuta, ce l'ho ancora, ma adesso un po' meno.
E tra le tante cose che vorresti fare prossimamente, qual è la prima?
Scrivere un altro libro, non vedo l'ora.