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Lucia Mascino a Fanpage.it: “In Italia continua a esserci il tabù della bruttezza per le donne”

L’attrice Lucia Mascino si racconta in un’intervista rilasciata a Fanpage.it: i tabù contro cui ancora si scontrano le donne anche nel suo lavoro, il dietro le quinte dello spettacolo Promenade de Santè con Filippo Timi e il suo punto di vista sugli algoritmi che regolano le piattaforme: “Sono la negazione dell’arte”.
A cura di Gianmaria Tammaro
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Lucia Mascino si racconta, foto di Martina Mariotti
Lucia Mascino si racconta, foto di Martina Mariotti

Recitare è come ballare. Ognuno ha il suo ruolo e il suo obiettivo, e le varie parti, per funzionare, devono muoversi insieme. Se io avanzo, tu indietreggi. Se tu ti fai di lato, io ti seguo. Lucia Mascino parla del suo mestiere con la stessa passione di un’artigiana: si ricorda delle piccole cose, delle sfumature; distingue tra direzioni e intenzioni, tra viscere e pancia, e poi tratteggia un profilo di quella che è, a volte, l’esperienza dell’interprete. Non ci sono sere uguali, a teatro. E al cinema e in televisione, si fa ancora fatica a ritagliare il giusto spazio per le donne. Il genere, dice, non dovrebbe importare. Perché, insiste, il ruolo è tutto: è l’inizio e la fine.

In Promenade de Santè – Passeggiata di salute, ha condiviso il palcoscenico con Filippo Timi ed è stata diretta da Giuseppe Piccioni. Lo descrive come un viaggio, come una sfida e anche come una gioia. E tra il pubblico che cambia e che si riconosce immediatamente quando ha l’intenzione di aprirsi e di ascoltare, ricostruisce un mondo intero: fatto, appunto, di accortezza, di dettagli e di passione. Lucia Mascino ama ciò che è e ciò che fa, e questo si capisce subito: quando, per esempio, non riesce a trattenersi e dà vita e forma a tutti i suoi pensieri; o quando, piano e attenta, cerca la parola giusta, la parola migliore, per riassumere uno stato d’animo o un momento particolare.

L’adrenalina dello spettacolo e quel desiderio di stare sul palco passano mai?
No, non passano mai. Ma anche per questo non posso e non voglio scegliere. Me lo chiedono spesso, sai? “Cosa preferisci tra cinema e teatro?” Ma perché devo scegliere? Non mi possono piacere tutti e due?

Il teatro è il posto dove hai cominciato.
Sì, e ho cominciato abbastanza presto. In questo spettacolo, però, ci sono stati due ritrovamenti. Il primo è il teatro inteso come luogo familiare, come casa, in cui sentirsi a proprio agio e poter passare le proprie giornate.

E il secondo ritrovamento?
Questo è uno spettacolo diretto da un regista di cinema, Giuseppe Piccioni. E quindi, anche se conserva la sua spontaneità e noi siamo fisicamente liberi, c’è un’impostazione più precisa e attenta. È più come lasciarsi guidare che farsi semplicemente vedere. L’approccio della storia, della messa in scena, dello sguardo e del personaggio è estremamente cinematografico. E in parte il merito degli amati-odiati microfoni.

Perché “amati-odiati”?
Perché in un certo senso segnano il fallimento della voce naturale. Ma rappresentano pure un artificio che permette di entrare nelle sfumature e nelle stesse venature della voce e del tono che viene utilizzato. E questo è molto bello. Nello spettacolo c’è una scena che è cinema. Puro cinema.

I confini tra linguaggi si stanno assottigliando?
In questo caso convivono. Ed è una cosa che mi piace veramente tanto. Io sono a metà tra questi due mondi. Non c’è una vera preferenza. Ho cominciato in teatro, sì, poi però mi sono spostata al cinema. Ogni tanto dovevo ricordare a Giuseppe Piccioni che certe direzioni che mi dava non sarebbero state notate; e nonostante ciò, lui ha continuato a dirigerci nello stesso modo.

Per esempio? Come vi ha diretto?
“Mentre dici questa battuta”, mi spiegava, “fai così con gli occhi”. E mimava una cosa minuscola che non avrebbe visto nessuno. Provavo a farglielo notare, ma senza voler frenare il suo istinto da scienziato: anche lui usa un microscopio, ed è quello delle intenzioni.

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Come cambia, in generale, il rapporto con il regista? A teatro e al cinema.
Pensa: Giuseppe mi dice sempre che per lui rivedere lo spettacolo è un attacco emotivo fortissimo, perché vive migliaia di sensazioni mentre lo guarda e non può intervenire.

È un aspetto molto curioso, questo: l’equilibrio che si crea tra attori e registi.
È una cosa estremamente preziosa essere diretti da un regista così attento alla recitazione. Non succede sempre.

No?
No, non ci sono sempre registi pronti a darti indicazioni con un senso, ben contestualizzate. Per questo ascolto tutto quello che Giuseppe ha da dirmi. Si tratta di capire che cosa seguire o meno. A volte devi comunque essere pronta a seguire il tuo impulso. Giuseppe resta sorprendente.

Perché?
Perché è piuttosto unico. Forse è il regista più bravo con gli attori, e non tutti lo sanno. Ma ricordo che quando abbiamo lavorato insieme a Il rosso e il blu riusciva sempre a migliorare le scene. Una volta Roberto Herlitzka ne aveva fatta una perfetta. Semplicemente magnifica. Dopo le indicazioni di Giuseppe, è cresciuta ancora. Non so dirti come.

Trovare un buon regista di attori è difficile?
Lo è, e proprio per questo è importante cogliere ogni singola occasione. Quando poi vado in scena, soprattutto in teatro, vivo il momento. Io e Filippo Timi ci conosciamo da anni: abbiamo una nostra dinamica e un nostro modo di recitare insieme, che non è mai lo stesso. Giuseppe, questa cosa, è riuscito ad accettarla.

In che senso è “importante cogliere ogni singola occasione”?
Io sono una persona piena di dubbi nella vita, ci metto dieci minuti per scegliere tra caffè e cappuccino, e avere qualcuno pronto a indicarmi la strada, qualcuno a cui potermi affidare, è utile. E aggiungo: quando vai in scena, e devi lasciarti guidare anche dall’istinto, entri in una dimensione diversa. Una quasi liberatoria. Lì il pensiero diventa un intralcio, ti fa perdere tempo.

Quindi fare l’attrice è un modo per trovare la libertà più che la felicità.
Sì, forse sì. Quando reciti, devi imparare a fidarti degli istinti. Devi imparare ad ascoltare una parte di te che in qualche modo è più intelligente e presente, e che sa, quasi intimamente, dove andare. In scena, vince quello ciò che questa parte nascosta ti dice di fare.

In questo, la recitazione sembra coincidere con la vita.
C’è un film, credo di Jim Jarmusch, che inizia proprio così: in bianco e nero, con persone che si lanciano cose e che urlano. In generale, è così con tutti i film. Mi capita spesso di rivedermi in scene, in dialoghi e in quello che i personaggi vivono e provano. Ci sono dei momenti in cui finisci per riconoscerti. A volte alzi la voce, altre volte abbassi lo sguardo. E sono sfumature che ti entrano dentro, che non vanno imprigionate, che vanno lasciate libere.

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Una volta, Francesco Montanari mi ha detto che andare in scena ogni sera è un po’ come morire e rinascere. Perché è sempre differente.
Io lo vedo più come un salto attraverso un cerchio di fuoco, come un salto nel vuoto. Alcune sere va bene e prende il volo e tutto fila, e altre no. Ed è una cosa che, personalmente, mi fa impazzire.

Perché?
Vorrei avere nelle mie mani la possibilità di controllare il processo, e invece è una cosa che accade insieme al pubblico. Non lo definirei come un morire, no.

C’è un modo per riconoscere il pubblico giusto?
Quello che gli spettatori vivono arriva molto a noi, che siamo sul palco. Non dipende solo dalle risate o dagli applausi: quelli sono segnali evidenti. Dipende anche dalle piccole cose, dalle sfumature. Dalla consistenza stessa del silenzio, dall’ascolto. Alla prima di questo spettacolo c’è stato un pubblico bellissimo. Perché era pronto, quasi disposto, a farsi coinvolgere.

Questa voglia di farsi coinvolgere non sembra una cosa molto diffusa, ultimamente.
Sì, ma quando c’è è bellissima. È come un abbraccio. Come un palleggio tra due esseri umani. E può avvenire anche senza parole. È uno stare. L’arte è misteriosa, ed è misterioso anche il teatro. Ma è misterioso soprattutto quello che avviene tra il pubblico, tra le persone. Quando all’estero vado ai festival di cinema e vedo un film con degli sconosciuti che mi sembrano così distanti e che parlano una lingua che non capisco, scopro che ci commuovono le stesse cose. Anche se parliamo una lingua differente.

E che pensi, in quel momento?
Penso a quello che, come esseri umani, siamo capaci di fare. Certo: ci odiamo, siamo continuamente in guerra e abbiamo tanti problemi. Guarda com’è ridotto il nostro pianeta. Ma siamo anche capaci di sentire insieme, come un unico corpo, ed è forse una delle cose più belle che abbiamo. Ha il sapore, se vuoi, della salvezza.

C’è una differenza sostanziale tra cinema, televisione e teatro nel tipo di ruoli che si scrivono e che vengono offerti agli attori?
C’è, sì. Io ho avuto la fortuna di trovare un ruolo bellissimo nel film di Francesca Comencini, un ruolo in cui ti getti con tutto quello che hai perché c’è ogni cosa. Ma è vero che non succede spesso. Oggi va sicuramente più di moda avere più parti femminili, ma Ulisse noi non ce l’abbiamo. Io vorrei avere quello spazio, vorrei vivere quel tipo di esperienza. Un’esperienza in cui il genere di chi recita non conta. O almeno: non importa così tanto. Mi piacerebbe che diventasse perfino indifferente. Il ruolo è il ruolo.

Proviamo a restringere il campo. Secondo te, qual è il problema?
Non esiste un solo problema in Italia. Ce ne sono vari e, credimi, non voglio fare la solita polemica. Il fatto che le donne debbano essere ancora rassicuranti e armoniose è assurdo. Le donne, ancora oggi, devono essere la spalla. Ora non ci viene più chiesto di essere solo belle, no. Dobbiamo dire anche qualcosa di intelligente. Qualcosa: senza esagerare. Per me, dovrebbe essere indifferente chi riveste un ruolo. Siamo imprigionate nella bellezza e nel tabù della bruttezza. E non capisco perché ai David si inizi con le attrici e si finisca con gli attori. Chi entra in scena per ultimo durante gli applausi è il più importante, di solito.

C’è un “tabù della bruttezza”?
Le attrici, in Italia, non possono essere brutte. Solo belle. Belle e, si aggiunge subito dopo, brave. C’è una forte sproporzione tra uomini e donne. Poi, per fortuna, le serie tv hanno cominciato a dare più possibilità e in qualche modo c’è stata una compensazione maggiore. Ma è, appunto, una compensazione. Il protagonista, il più delle volte, è un maschio.

In teatro si respira una libertà maggiore?
Non ci sono i nomi imposti, è questa la verità. Quando ho visto La notte del 12 di Dominik Moll, un film bellissimo, ho immediatamente pensato a una cosa.

Quale?
Che se lo avessero fatto qui, avrebbero dato i ruoli solo a determinati attori. È una gabbia soffocante, questa del successo, e lo è per tutti. Anche per gli attori. Se fai dieci film in un anno, finisci per non respirare più. Per non avere più niente da dare. Questa distinzione tra noti e meno noti deve diminuire. Serve un gesto di fiducia. Se vengono chiamate le stesse persone, è solo per un motivo: c’è bisogno di sicurezza. E quei nomi promettono, ma non garantiscono, sicurezza.

Si finisce per sottovalutare il pubblico?
Assolutamente. Il sistema va liberato. E più siamo liberi di cambiare e di provare, più è libero il nostro cinema. Dobbiamo seguire la nostra ispirazione. Sono sicura che se un regista ti dà fiducia tu, attore, fiorisci. Ti trasformi. Guarda Luca Marinelli e Alessandro Borghi ne Le otto montagne. Sono due bravissimi attori, ma il sostegno che hanno ricevuto dai registi è stato fondamentale. Non possiamo muoverci seguendo ricette. L’arte non può essere messa sotto controllo. Non ha una formula. Niente è garantito: lo ribadisco. E non ha senso provare a ripetere all’infinito le stesse cose.

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L’algoritmo delle piattaforme, con le sue formule da seguire, è diventato uno dei grandi temi di discussione.
Io, ti dico la verità, sono terrorizzata da queste cose. Sono terrorizzata perché sono la negazione dell’arte. Ti faccio un esempio.

Dimmi.
Io non ho amato Blonde, il film su Marilyn Monroe, perché mi è sembrato una copia fatta a tavolino, studiata nei minimi dettagli, di un certo cinema d’autore. È una riproduzione perfetta, intendiamoci. Ma non è cinema d’autore. Non lo è. Non c’entra essere a tutti i costi contro il sistema, ma dobbiamo allargare le maglie di questa rete in cui siamo finiti.

Che cos’è che fa la differenza?
L'incontro tra le persone. Vedersi. Parlarsi. Io credo nel sogno, non nella ricetta.

Quanti sono importanti, alla fine, gli errori? Quelli che si fanno in un film, su un set.
Molto. Io preferisco un film che fa degli errori, ma che è vivo, vibrante e profondo, a uno che non ne ha e che perde, perciò, la sua anima. C’è il rischio di essere tutti identici, e in questa uguaglianza forzata, non ottenuta, si rischia di perdere la propria identità artistica.

Cos’è che resiste, quindi? La passione o l’ossessione per il lavoro?
Per me coincidono. Io ho un grande rispetto per gli ossessivi. C’è una battuta, che dico in questo spettacolo e che ti ripeto parola per parola, che per me è perfetta; fa così: “Basta una qualsiasi mania per renderci migliori”. L’ossessione può essere una buona strada per andare a fondo, e forse è meglio la passione: non dico di no. Ma sono due cose che si parlano, che comunicano. Nell’ossessione proviamo a capire cosa non funziona in uno spettacolo, e non ci fermiamo mai. Andiamo avanti.

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