Laura Luchetti, regista de La Bella estate: “Ho dato spazio al desiderio femminile, se ne parla ancora poco”
L'adolescenza è uno dei momenti della vita di ogni individuo più lacunoso, ma allo stesso tempo più ricco di emozioni che esista. Laura Luchetti, regista de La Bella Estate, nella sua carriera dietro la macchina da presa ha cercato di rappresentare questa congerie emozionale con immagini e racconti che parlassero chiaramente ad un pubblico che, forse, troppo spesso dimentica cosa significa essere giovani.
In questa chiacchierata, passando da Nudes: "A breve sarò tra Portici ed Ercolano per girare i nuovi episodi", toccando i film indipendenti degli inizi, si affrontano le tematiche più attuali, che riguardano i ragazzi, ma anche quella difficoltà, insita in tutti noi, di soffermarsi e interrogare se stessi su quelli che sono i nostri più intimi desideri. Difficoltà che, spesso, attanaglia soprattutto le donne.
Partiamo proprio da Nudes, è una delle prime produzioni RaiPlay ad avere una seconda stagione. Un grande risultato, non trova?
Sì, però è anche una delle prime produzioni ad avere avuto milioni di visualizzazioni. Venduta a Disney Plus in Inghilterra, Svizzera, Germania, Austria, una cosa che vale tanto per il nostro piccolo progetto.
Un progetto piccolo in cui si affronta una tematica grande come quella del revenge porn, soprattutto in un periodo delicato come quello dell'adolescenza. Come è riuscita a raccontarlo?
È il mio mondo quello dell’adolescenza. Erano tutti ragazzi non attori, li ho presi tutti facendo street casting, il 90% non aveva mai recitato, a parte tre. Progetti come Nudes hanno bisogno di una grande freschezza per essere credibili, perché quei ragazzi ti dicono che queste cose succedono a tutti, ad ognuno di noi, c'era bisogno di far entrare il pubblico in connessione con gli interpreti e i loro racconti, dovevano sentirli vicini.
Non ha temuto che il fatto di non essere attori influisse sull'impatto finale del progetto?
Non ci ho pensato. Mi piace lavorare con i non attori. Faccio dei provini per i quali mi prendono tutti in giro, perché non sono dei provini, ma dei laboratori, durano tantissimo, li faccio improvvisare. Se sento che le cose vanno, allora vado avanti.
L'adolescenza è il suo mondo, ma è sempre stata una scelta consapevole quella di occuparsi di tematiche legate a questa stagione della vita?
All’inizio è stata una scelta, in Fiore Gemello ho scelto due ragazzi giovanissimi. Poi è arrivata la Rai, che mi ha proposto Nudes. Anche con i produttori de La Bella estate stavamo lavorando ad altro, poi una volta acquistati i diritti, mi hanno proposto di occuparmene. È una parte della vita che mi interessa molto, dove tutto può succedere, hai dalla tua l'alleato più grande che è il futuro, il tempo, ma te ne accorgi solo dopo.
Quindi, in qualche modo, siamo attratti dai racconti giovanili perché ci infondono speranza?
C’è un vecchio adagio che dice “se la gioventù sapesse, se la vecchiaia potesse”, un concetto che mi piace tantissimo, il fatto che loro possono, ma non sanno. Come diceva Pavese in una frase meravigliosa che cito per metà: "la gioventù è l’età che per più a lungo ha convissuto dentro di noi, io sono sempre un ragazzo". Un ottantenne ha 80 anni di gioventù con cui convive, è forse l’età che conosciamo meglio, no?
Crede che raccontare l'adolescenza sia anche un modo per riconciliarsi con una parte di noi che tendiamo a dimenticare?
Assolutamente, raccontare la gioventù ti permette di riviverla, anche in maniera laterale. La cosa più difficile da fare è non giudicare, mettersi alla stessa altezza. Col tempo, dietro l’angolo, si affaccia quella frase odiosa “eh ma io alla tua età”, è inevitabile.
La Bella Estate è stato presentato a Locarno, dove ha avuto un'accoglienza molto calorosa. Se lo aspettava?
È stata una gran sorpresa, perché il film lo avevamo terminato da pochissimo e Locarno ci ha invitato subito. Non mi aspettavo un’emozione così grande, 8mila persone sono tante, lo schermo era enorme. Il silenzio avvolgente durante tutta la proiezione, l’applauso alla fine, spontaneo, forte. È stato bellissimo.
Un'emozione vedere che il cinema è meno agonizzante di quanto sembri.
Il cinema non è agonizzante, le sale lo sono. I festival ci sono, i film si fanno. Le persone dopo la pandemia hanno perso l’abitudine e la pazienza di sedersi in un luogo, aspettare che il film si sviluppi e restare fino alla fine. Tutte le piattaforme ci hanno dato un potere enorme, che è il telecomando: due minuti, mi annoio, cambio. Si perde la pazienza di far svolgere una storia, una cosa che prima avevamo. Si perde anche l'effetto sala, perché più aumenti il numero delle persone, più aumentano le reazioni. La velocità di un film cambia in relazione a quante persone lo vedono in quello stesso posto.
A questo proposito, i ragazzi secondo lei andranno al cinema a vedere La Bella Estate?
Rispondo dicendo quello che mi ha detto mia figlia: "Mamma io non so se i giovani andranno al cinema, però questo è un film in cui le ragazze si riconosceranno".
Perché dovrebbero riconoscersi?
Perché manca un racconto sulla formazione femminile, è più frequente trovare romanzi di formazione sull'orientamento sessuale maschile. Poi questo è un film che parla di una cosa che a me sta molto a cuore, che è il desiderio femminile, sempre un po’ celato, se ne parla sempre un po’ poco, come se fosse fonte di “vergogna”?
E invece, qui, lei sdogana la potenza del desiderio.
Esatto. Qui Ginia desidera, desidera essere amata, guardata, vede il suo corpo che le sta esplodendo addosso, perché per le donne è così: il seno, il sedere, sono esplosioni. Quando arrivi a quell’età femminile dove il corpo va da tutte le parti devi domarlo, devi capire dove farlo andare. Questo tipo di racconto è universale, ed è rilevante per una ragazza di oggi, come lo era per una di ieri. Il lavoro che ho fatto sul film è quello di dare ai personaggi, nonostante i costumi, il cuore di ragazzi del 2023.
Ginia rispetto al libro di Pavese è meno ingenua, è pacata, come in perenne attesa. Perché questo cambio di passo?
Forse è più sensuale, nel libro Ginia è un po’ dura, ha anche dei sentimenti ambigui nei confronti delle sue amicizie, è un po’ giudicante. Qui l’ho lasciata molto più selvaggia, silenziosa, guardinga. Ho cercato, con grande umiltà, di togliere quella patina del tempo e renderla più vicina ad una ragazza di adesso.
Anche Severino, il fratello di Ginia, è decisamente meno austero. Ha voluto addolcirlo?
Mi interessava molto raccontare il rapporto tra fratello e sorella, mi ha ispirato mio fratello, perché nel libro Severino è molto giudicante, è un uomo Anni Trenta. Qui invece è un fratello che sente la tristezza di aver lasciato la campagna, chiede ma sempre con discrezione, lui è quello che aveva capito tutto, prima di tutti. Le dice tante cose, senza dirgliele. È una stanza di libertà che mi sono permessa di prendermi, insieme all’atelier che nel libro non è presente.
Nel film un ruolo a sé ce l'ha il corpo. Dalla pittura alla sartoria, dal ballo al rapporto intimo, il corpo è centrale, da dove nasce questa necessità?
È quello che succede adesso con i social, i selfie, le foto, i commenti, esisto nel momento in cui sono rappresentato. È una fragilità umana e Pavese la coglie perfettamente quando dice “voglio vedermi con gli occhi di un altro”. Il vedersi e poi in quell’età in cui non sai chi sei, rassicura. Ginia, d'altra parte, si innamora di Amelia che lavora con la rappresentazione di sé.
Amelia, Deva Cassel, che nasce come modella oltre che come "figlia di", è al suo primo debutto da attrice. Come l'ha indirizzata nell'affrontare questo personaggio?
Deva è un’attrice giovanissima di grandissimo talento, ha dentro quella malinconia di chi sa cosa vuol dire fare un lavoro che implica la rappresentazione costante di te e nascondere il vero te, perché fa la modella da quando aveva 15 anni. Mi sono rapportata a lei come a tutti gli altri, quando facevamo i laboratori, tutti erano lì per dare il meglio in quel momento, indipendentemente che fossero star televisive, modelle famose, ragazzi usciti dall’accademia.
Pavese definisce La Bella estate come "la storia di una verginità che si difende". Lei però ne ha dato una lettura diversa, perché?
Per me è diventata la storia di una verginità che si trasforma, una verginità imposta dalle regole sociali, dove c’è una grande curiosità che parte dall’amica che chiede "com’è fare l’amore, l’avete fatto tutti". È un rito di passaggio giovanile, un passaggio che va fatto, con la pressione di doverlo fare, sia per i ragazzi che per le ragazze, ma sentire una ragazza che lo dice è sempre un po’ più raro, nonostante i tempi contemporanei. Il cercare sessualmente se stessi era una cosa che mi interessava moltissimo.
Quanto raccontato da Pavese, considerando che si tratta degli Anni Trenta, è di un'attualità disarmante, eppure sembra che certe tematiche abbiano rilevanza solo ora. Questo film può aprire gli occhi sul fatto che, invece, è sempre esistito tutto questo?
In un momento transitorio della preparazione della Bella Estate, si è pensato di ambientarlo nell’oggi, ma ho detto no. Se l’avessimo adattata al presente avrebbe perso la forza di raccontare un momento universale, saremmo andati a sottolineare una cosa di cui già si parla molto in questo momento e che è diventata l’arma di battaglia dei ragazzi, l’unica grande arma politica che gli è rimasta è il loro corpo. Le grandi battaglie adesso sono sulla libertà sessuale, il pansessualismo, la fluidità, l’orientamento, questo film avrebbe confermato che ora questa è la grande scoperta, per cui ho insistito a farlo negli Anni Trenta per voler sottolineare un altro elemento, che questa cosa è sempre stata così.
Diceva prima che questo è un racconto di formazione al femminile. C'è un momento in cui a Ginia viene detto che le donne devono "pensare bene alle proprie scelte, con intelligenza". Ad oggi, è ancora così?
A noi ancora non è permesso essere così intuitive, dobbiamo pensarci e ripensarci. È chiaro che quello è il discorso di una donna degli Anni Trenta ad un altra donna, e anche il personaggio di Gemma che amo molto, è inventato, è una donna che ha costruito un impero da sola. Rivede se stessa in Ginia, ed è per questo che la prende sotto la sua ala e che la punisce. È una voce che può essere valida anche adesso, non significa che sia giusto, ma è così.
Nel suo lavoro da regista, donna, quante volte ha dovuto ripensare alle sue scelte?
Sono stata molto fortunata, perché ho fatto degli incontri giusti, con persone che non mi hanno fatto sentire la problematica della capacità femminile, anzi. Per quanto riguarda il mio mestiere, alle donne sono date sempre da fare le storie intimiste, le storie dei sentimenti, è raro che ti diano un film d’azione. Ho lavorato molto per dare la sicurezza e la stabilità di poter fare determinate cose, chissà se fossi stato un uomo se sarebbe stato più facile. Non ho voluto vedere le impossibilità, altrimenti mi sarei fermata al giorno due.
Quindi il mantra è quello di non arrendersi.
Credo che bisogna portare avanti le proprie idee femminili, come donne, concentrarsi su tutte le vie percorribili e aprirne di nuove, stare attente all’inganno dei blocchi e trovare sempre la maniera per trovare la strada aperta. È un lavoro collettivo, va fatto con nuove leggi, nuove possibilità. L’importante è continuare e usare gli ostacoli come trampolini.
Restando in tema di leggi e governo. Nelle ultime settimane di luglio il Centro Sperimentale di Cinematografia è stato al centro di un importante discussione, come vede la possibilità che anche l'arte venga indirizzata dalla politica?
Dirà solo una cosa: l’arte agli artisti, la scienza agli scienziati e la politica ai politici. È molto difficile fare quello che si fa e farlo bene. Bisognerebbe rimanere a fare ciò che si sa fare.