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La città proibita, Mainetti: “È un omaggio al cinema di Hong Kong, ma non sarei arrivato a farlo senza Freaks out”

La città proibita, nelle sale dal 13 marzo, è il terzo lungometraggio del regista romano. In questa intervista con Fanpage.it che ripercorre tutta la sua carriera, Gabriele Mainetti racconta l’idea da cui è nata l’opera, un incontro/scontro fra culture che poteva funzionare solo “in una città come Roma” in cui era fondamentale “andare alla sorgente di questo cinema e non avere una Uma Thurman italiana” come protagonista.
A cura di Andrea Bedeschi
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Gabriele Mainetti torna nelle sale con La città proibita, a dieci anni esatti dal debutto con il folgorante Lo chiamavano Jeeg Robot. Nel mezzo c'è stata la parentesi di Freaks out, progetto non facile e produttivamente ambizioso, arrivato nei cinema in un 2021 in cui stavamo tutti ancora facendo i conti con le varie fobie pandemiche. Paure che, inevitabilmente, condizionavano anche la maniera con cui le persone vivevano lo spazio chiuso della sala cinematografica. Il riscontro non fu dei migliori, ma resta comunque un oggetto tanto anomalo e imperfetto quanto affascinante.

Adesso La città proibita prende una grande passione del regista romano, il cinema di Hong Kong in tutte le sue declinazioni, da quello più sentimentale e drammatico di Wong Kar-wai a quello più marcatamente action del filone wuxia pieno zeppo di elaborati e coreografici combattimenti a suon di arti marziali, e la mixa con i colori e i sapori di una Roma che può esistere solo nell'artificio di un cinema, quello di Mainetti, sempre molto coraggioso, dal punto di vista della messa in scena e dello sforzo produttivo.

Com'è nata l'idea della Città proibita? 

Probabilmente, se ci mettessimo seduti a parlare davanti a un caffè iniziando a fare un elenco di generi che ci piacerebbe vedere proposti dal cinema italiano, sicuramente partirei con una serie d'idee su cose che potrebbero funzionare anche dalle nostre parti. Un film di Kung-fu per me andava fatto per forza a Piazza Vittorio.

Perché?

Ricordo che in una chiacchierata fra colleghi c'era una persona convinta del fatto che sarebbe stato opportuno fare un film come Karate Kid, al che io gli ho detto “Sì, ma dove lo fai Karate Kid in Italia?”. L'arte marziale giapponese, dal kendo all'aikido, al karate, al ninjitsu, esiste in Italia, ci sono anche grandi atleti che praticano queste discipline, però culturalmente dove troviamo una Japan town? Dove sta l'elemento interculturale necessario a un racconto? Da nessuna parte.

E quindi, Roma.

Per la storia di una città come Roma, uno spazio sociale che a me piace, ho sentito che forse la cosa più giusta era portare l'elemento cinese. Alle spalle di questa scelta c'era anche un esempio cinematografico importante, L'urlo di Chen terrorizza anche l'Occidente. Doveva essere un film basato sul Kung Fu, sulla Cina. Era necessario rivolgersi al Wuxia (i film d' arti marziali cinesi, ndr.) capire come declinare il genere e iniziare a ragionare su una possibile storia.

Com'è andato avanti lo sviluppo di questa idea?

Ho fatto riferimento a un cinema che si è ispirato a quelle opere, il cinema di Sergio Leone. Leone si è ispirato a Kurosawa, ai Sette Samurai, che ha influenzato anche i Magnifici Sette. C'è uno straniero che arriva in città e si ritrova nel mezzo di due realtà che si detestano fra loro. Nella Città proibita questo si manifesta coi due ristoranti, la trattoria cinese che fa capo ad un mafioso di zona e la trattoria italiana che fa capo a un altro criminale di Piazza Vittorio. La creazione della storia parte da qui. Mi divertiva pensare che lo straniero che arrivava in città fosse una donna. Non ricordo neanche di preciso perché.

Ora però sono curioso di questo perché, fai uno sforzo. 

Ah sì, perché avevo visto questo film, Chocolate, del 2008, strepitoso, diretto da Prachya Pinkaew, regista di Ong-Bak. In quegli anni lavoravo ancora in videoteca e guardavo di tutto. Nel film la protagonista è una ragazza, grandissima esperta di arti marziali. Lui voleva lavorarci a tutti i costi, ma sapeva che non era bravissima a recitare, allora si è inventato questa storia nella quale il personaggio che lei interpretava era autistica ed era cresciuta davanti ai film di Bruce Lee. Ogni scena di combattimento va a ripercorrere quegli spazi dove abbiamo visto lottare Bruce Lee.

Poi?

Poi con i due sceneggiatori, Bises e Serino, sono nati Annibale, Marcello… Lui c'era già nella mia testa, ma era un Marcello molto più dolente, molto più sofferto.

Cioè?

Più tragico, non nel senso pratico del termine. Ho capito che mettendoli uno di fronte all'altro forse era più interessante far sì che fossero, apparentemente, ai poli opposti dell'esistenza anche se in realtà condividevano una certa “paralisi”. Mei (Yaxi Liu, ndr) nell'armadio, nascosta perché vittima di quella politica cinese assurda del figlio unico, lui (Enrico Borello, ndr) invece il classico bambino cresciuto con la tetta della madre perennemente in bocca, che sta dentro alla cucina del ristorante di famiglia, uno che c'ha la vita apparecchiata e non farà mai un ca**o.

Il film pur non essendo cortissimo scorre via benissimo e non si perde in lungaggini assurde come ormai è prassi. Penso soprattutto al prologo: in pochi minuti dici allo spettatore tutto quello che è necessario sapere sulla vita di Mei e della sorella. Ti è venuto naturale costruire così la pellicola?

Sì, è la classica apertura scorsesiana alla Gangs of New York. Un evento che determina la vita di un bambino. Se pensi all'inizio di Gangs of New York c'è Liam Neeson che si rade la barba, si ferisce e dice al figlio che la lama del rasoio non va mai pulita. E lo mette nella mano del bambino. Poi esce e c'è questo scontro che però dal punto di vista registico non è minimamente interessante. Forse la mia associazione d'idee con Gangs of New York si basa sul fatto che anche lui ha usato lo step framing (tecnica che consiste nell’abbassare il numero di frame per secondo per velocizzare l'immagine, ndr), una tecnica che Wong Kar Wai usa tantissimo, pensa a The Grandmaster. Qua c'era la necessità di un momento che desse le varie coordinate allo spettatore raccontando il personaggio e quegli elementi che servono a definirlo. Sai che pratica il kung fu, che ha dovuto vivere nascosta con la madre che la calma mentre viene accompagnata dentro all'armadio. C'è la sorella, c'è l'origami, c'è il kung-fu.

Complimenti perché l'effetto finale mi è piaciuto tantissimo. Nelle scene di lotta hai velocizzato molto i frame in stile prologo di Mad Max: Fury Road?

Le velocizzazioni ci sono sempre. Diciamo che non sono così evidenti e marcate come quelle in Mad Max, che ne fanno una cifra stilistica, però certo che ci sono. Servono a dare un effetto più energico al movimento.

Ho amato molto le coreografie dei combattimenti, la maniera in cui Mei utilizza l'ambiente e gli oggetti che trova a portata di mano da adoperare mentre lotta.

È una mia idea. Parlando con Liang Yang (stuntman e coreografo delle scene di combattimento, ndr.), gli ho detto che, pur nel contesto irreale e favolistico di una ragazza che da sola riesce ad atterrare 25 persone, bisognava donare alle scene un pochino più di verità per favorire l'operazione di sospensione dell'incredulità da parte dello spettatore. Volevo che utilizzasse tutti gli oggetti le stanno intorno. Lo fa sempre, fino all'ultima scena.

Spesso di te dicono che sei uno dei pochi registi italiani che non gira da italiano. Questa cosa mi dà “fastidio” perché se ripenso al nostro cinema anche nell'ambito dei vari generi, non è che in passato fossimo proprio degli sprovveduti, no?

No, no, no. Se pensi a Dario Argento, poi Fernando Di Leo, Corbucci stesso, anche se Di Leo per me aveva una capacità tecnica superiore a tanti altri a livello formale. Ma anche un gigante come Elio Petri, che non è che frequentasse il genere in senso letterale. Poi per quel che riguarda il sottoscritto, sicuramente anche per via della mia formazione scolastica nelle scuole americane e alla School of the Arts di New York, è un modo di fare cinema che mi appartiene. Tornando alla tua osservazione iniziale, sicuramente alle spalle abbiamo degli sguardi molto internazionali, molto forti e per me il più potente ed eloquente dal punto di vista visivo resta Bernardo Bertolucci. Non ha mai fatto cinema d'azione, ma quello che ha fatto lui in film come Novecento non l'ha fatto più nessuno.

Roma e Napoli sono le città d'Italia con la maggior impronta cinematografica e per quel che mi riguarda io la penso esattamente come Mr Wang nel film: nonostante il lavoro che faccio non ho mai voluto traslocare lì perché per me Roma ti corrompe. Parla a chi è forestiero come me del tuo rapporto con la città eterna.

Hai ragione, Roma corrompe, ma io credo sempre molto nella grande lezione di Pasolini, nel discorso libero e indiretto.

Spiegati meglio.

Provare a raccontare il protagonista e il suo sentire. Che chiaramente è una parte del lavoro che faccio non è un'operazione filologica con la grande lezione del maestro. Però scenograficamente tu non puoi dimenticarti che stai raccontando la storia di una ragazza cinese che arriva a Roma e lei è portatrice, nel mio racconto, di una determinata cultura. E nel momento in cui vuoi renderla quasi soggettiva, devi comunque reinventarla come ha fatto il direttore della fotografia Chris Doyle in Hong Kong Express di Wong Kar-wai. È una Roma più colorata, favolistica. Mi è capitato di leggere qualcuno che ha osservato come, in realtà, Piazza Vittorio non sia davvero così. Quella del mio film non vuole essere come quella vera così come non è vero che una ragazza di 25 anni possa battere da sola 40 persone. Un match di MMA l'abbiamo visto tutti magari anche di sfuggita e ci sono incontri che si chiudono dopo un singolo colpo.

Infatti quando ho visto La città proibita non mi è parso di guardare un documentario, ma un film.

Esatto. C'è la Roma dei monumenti, quella di Piazza Vittorio che è qualcos'altro, un melting pot di culture dove esplode la scenografia in un modo ipercolorato, per quanto ci troviamo prevalentemente di notte perché il film è molto notturno. Cosa che a me ha divertito perché potevo colorare molto di più l'ambiente con le luci come in certo cinema di Hong Kong. Solo che lì le luci colorate fanno parte delle strade della città, qua dovevamo mettercele.

E peraltro è bello vedere come anche il cinema italiano sia cambiato da Delitto al ristorante cinese a La Città probita.

Grandissimo film Delitto al ristorante cinese!

Concordo, ma pensa se tu oggi avessi messo un attore, un'attrice occidentale agghindato “alla cinese”…

No, per quanto per me Tarantino sia il più grande di tutti, io non avrei mai preso una qualche Uma Thurman italiana. Volevo attingere direttamente alla fonte. Avessi preso e lavorato con un'attrice nostrana magari ci avrei anche guadagnato in termini di visibilità del film ma non sarei stato onesto in primis nei confronti del mio amore verso quel tipo di cinema, che volevo onorare. Per le scene di combattimento, per me non c'è nulla di più potente del cinema hongkoghese.

Hai fatto sempre film molto ambiziosi finora. C'è stato mai un momento in cui ti sei detto “ma chi me lo fa fare”? Intendo proprio dell'allestimento di produzioni così costose, specie per quelli che sono gli standard nazionali in quanto a costi per la realizzazione di un film.

Ma la città proibita è il mio film più piccolo…

Sì, certo, come no.

Per carità, scherzo, però sì, dovevo fare un film molto più grosso de La Città proibita che per tutta una serie di ragioni che non ti sto a spiegare non è andato avanti e sono finito su una cosa, a mio avviso, più semplice. Ma per quanto uno possa delirare nel gigantismo non guardo alla dimensione produttiva e spettacolare del film. Voglio fare i film che mi piacciono che poi, inevitabilmente, si gonfiano perché magari io stesso tendo a essere “gonfio” o “ciccio” stilisticamente e produttivamente parlando. Ma ci sono film piccoli che sono comunque giganteschi. Prendi Little Miss Sunshine. Rientra pienamente nella descrizione ma all'epoca venne quasi totalmente snobbato agli Oscar. Contrariamente a quello che quest'anno è accaduto con Anora, che si è intascato tutti i premi che negli anni altri film di quel tipo non hanno vinto.

Alla base c'è il rispetto verso il tempo del pubblico.

Sì, perché è quello che chiedo anche io al cinema da spettatore e non da addetto ai lavori. Un film, piccolo o grande che sia, deve essere un evento speciale da vivere sul grande schermo che porta la gente a dire “Ma che ca**o ho visto!” perché oggi ci sono talmente tante alternative a portata di telecomando che se qualcuno dedica il suo tempo e i suoi soldi al film che hai girato devi esserteli meritati. Naturalmente non ti posso dire io come ci si senta a vedere i miei film perché sono di parte. Sicuramente faccio quello che faccio perché mi piace, altrimenti non dirigerei pellicole dove ci vogliono cinque giorni a girare una singola sequenza di combattimento. Se fosse così mi metterei a lavorare a una qualche serie TV dove il regista conta e non conta. Certo è una domanda che mi sono fatto dopo Freaks out.

Ti ha scottato quell'esperienza?

Sai, purtroppo per tutta una serie di ragioni non è stato accolto calorosamente, ma ti giuro che mentre lo facevo mi sentivo costantemente lo spettatore “accanto”, mi dicevo “Sì, saranno contenti”

È anche uscito in un periodo ancora veramente complicato, causa pandemia.

Ma ci sta anche che non sia piaciuto. Mi pare di aver capito che per esempio a te Anora non faccia impazzire (avevo emesso un verso di disappunto quando lo aveva citato, ndr.).

Io sono per gli Oscar che premiano il cinema “popolare”. Oppenheimer non è il mio Nolan preferito ma sono stato felicissimo che abbia vinto tutto quello che ha vinto perché grazie a Oppenheimer poi mandi avanti un'industria. Penso che i film vadano visti e Anora non rientra nella categoria.

Certo sono d'accordo con te. Nel complesso Oppenheimer non mi è piaciuto tutto però c'è tutta la parte della bomba atomica, del test… è d'applauso dall'inizio alla fine, è strepitosa, è puro cinema, cinema per gli occhi.

Qual è stato quindi il problema di Freaks Out?

Credo che ci sia stata meno indulgenza verso Freaks out proprio perché si presentava con le spalle larghe, da kolossal. Anche se poi incontro un sacco di gente che mi dice che quel film gli è piaciuto, che lo ha amato ed è stata contenta di vederlo. In un modo o nell'altro è stata un'esperienza che ricorderò sempre.

E non solo tu, infatti ne riparliamo spesso perché in una maniera o nell'altra ci è rimasto dentro.

Il film esiste, è venuto così e non è una nullità a cui si è totalmente indifferenti. Poi ti rivelo una cosa: se non avessi fatto Freaks Out non avrei mai fatto La città proibita. Nella sua complessità registica, Freaks Out mi ha aiutato ad acquisire quella solidità formale che ho nella Città proibita. È stato uno step determinante per il regista che sono oggi, così come Jeeg. Freaks Out, di tutti i film che ho fatto, è sicuramente quello che mi ha dato di più ed è stato anche quello più difficile.

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