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Intervista a Kasia Smutniak: “Ci sentiamo persi e abbiamo sempre paura, ma costruire muri non serve a niente”

Kasia Smutniak presenta a Fanpage.it il suo film MUR.
A cura di Gianmaria Tammaro
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Kasia Smutniak
Kasia Smutniak

MUR di Kasia Smutniak, al cinema dal 20 ottobre con Luce Cinecittà, prodotto con Fandango e scritto con Marella Bombini, è un film costruito su immagini semplici e immediate. Funziona come una serie di scatole cinesi: ne apri una e ne trovi un’altra. E c’è sempre – sempre – qualcosa da imparare. Non ha senso paragonarlo ad altri film perché buona parte del racconto si regge su Kasia Smutniak, che compare anche in video e che racconta, in prima persona, la sua infanzia in Polonia. È evidente l’impatto che questa storia ha avuto su di lei: quando ha saputo che al confine con la Bielorussia i migranti venivano fermati e che il governo stava costruendo un muro, è rimasta sinceramente sconvolta. Si è impegnata per trovare fonti e contatti, per seguire la situazione e alla fine, poche settimane dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, è partita.

Non c’è nessun moralismo e non c’è nessuna intenzione di dividere le persone tra buoni e cattivi. C’è solo la visione di un’autrice, al suo esordio alla regia, che decide di mettersi in gioco con tutto quello che ha. I grigi della fotografia, le ombre, i momenti di tensione. La passione che si avverte in ogni istante, che piega le voci e colora i volti. E poi i dettagli: una videochiamata a casa, con la famiglia; un momento di pausa, stesi sul letto; un altro passato prima di andare al confine, per vedere con i propri occhi quello che sta succedendo; le chiacchiere con i nonni, gli abbracci, l’ansia palpabile delle espressioni. MUR è un documentario, sì, ma non si pone mai al di sopra delle parti: il coinvolgimento di chi ci ha lavorato è palpabile. E questo non è un male, anzi. In Santiago, Italia Nanni Moretti diceva di non voler essere parziale. Ecco, la stessa cosa succede in MUR: quella che va in scena è una testimonianza di umanità.

La Polonia, racconta Smutniak, è cambiata tantissimo in questi anni: “Da noi, sai, i cambiamenti sono avvenuti in una maniera estremamente rapida e in tutto il paese. Io sono nata dieci anni prima della caduta del muro di Berlino; appartengo alla generazione che ha vissuto quel momento storico sulla propria pelle. Non mi ricordo con precisione il mutamento che ha sconvolto la politica e l’economia, ma è stata una cosa progressiva. I negozi non si sono riempiti di prodotti provenienti dall’estero da un giorno all’altro. E MTV non è andata in onda all’improvviso. Era la prima volta che potevi comprare un paio di jeans in un negozio che vendeva effettivamente jeans e non in uno dei due centri commerciali statali. Prima, per comprare prodotti esteri, dovevi avere i dollari. Ma legalmente non potevi possederli. Il capitalismo, insomma, è arrivato. E io ho vissuto la gradualità di questo cambiamento”.

Era importante partire da queste premesse per te?
In un certo senso sì. MUR non si concentra su questo, per carità, però quel muro – che è, poi, il muro del passato – è uno dei tanti muri che portiamo dentro di noi, su cui spesso non ci soffermiamo e che solo con il tempo riusciamo a mettere a fuoco e a capire. Nel bene e nel male, la Polonia aveva sempre trattato le donne nello stesso modo in cui trattava gli uomini, dando le stesse possibilità di lavoro e di affermazione. Perché era un sistema, capisci? Un sistema che doveva funzionare, dove tutti dovevano fare la loro parte. Io sono cresciuta in un paese dove le donne facevano ed erano tutto. Con l’arrivo del capitalismo, però, sono arrivati anche altri modelli: modelli che rappresentavano la donna solo in un certo modo.

E questi modelli hanno fatto fatica ad affermarsi?
No, nessuna fatica. In televisione sono arrivati programmi colorati, pieni di musica e di donne che ballano, delle vallette. Prima di allora, non c’erano mai state. È stato interessante vedere in quanto tempo la nostra società si è piegata a questi nuovi canoni. Mi è sembrato necessario spiegare il contesto, dove ci trovavamo. La Polonia è diventata gradualmente qualcosa di nuovo, di poco riconoscibile. Almeno è stato così fino all’altro giorno, dopo le ultime elezioni politiche.

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Come hai saputo della decisione del governo di costruire un muro sul confine con la Bielorussia? Per caso?
No, non l’ho scoperto per caso. La situazione e la crisi al confine le ho seguite fin dall’inizio, da quando un primo gruppo di trentacinque persone è stato fermato. Era una cosa insolita. Ricordo che era fine agosto e queste persone provenivano dalla Siria e dall’Afghanistan. Parliamo di pochi giorni dopo la caduta di Kabul. Era facile prevedere simili conseguenze con il ritorno del talebani, soprattutto era facile dopo aver visto le immagini degli uomini e delle donne che provavano ad aggrapparsi agli aerei cargo per fuggire dal loro paese.

Perché questa notizia ha attirato la tua attenzione?
Era una cosa nuova. Erano famiglie, intere famiglie, con bambini, donne incinte e anziani che erano nel bosco e chiedevano asilo alla Polonia. La richiesta è stata negata, e le guardie di frontiera e i militari li hanno circondati. E agli attivisti, che nascevano come ambientalisti in realtà, veniva negato qualunque tipo di intervento.

Poi che cosa è successo? Perché hai deciso di partire in prima persona?
Sui media non riuscivo a trovare più niente dopo quella settimana. Ho cominciato a fare le mie ricerche, e ho contattato alcune persone direttamente coinvolte sui social, da Facebook a Instagram. Si è creato uno scambio e ho trovato un modo alternativo ai giornali per seguire la situazione. Qualche mese dopo, con l’arrivo di circa tremila persone al confine, si è creata una nuova crisi. Queste persone sono state respinte dalle autorità polacche e c’è stato un momento di tensione. Con Diego Bianchi di Propaganda Live, siamo andati lì, per filmare quello che stava succedendo. Da quel viaggio è nato un reportage. Quando è stato trasmesso in tv, le persone, qui in Italia, hanno cominciato a scrivermi. E io ho capito che avevo la possibilità di fare luce su una storia che in molti stavano ignorando.

Facciamo un passo indietro. Prima di ripartire, hai provato a fare qualcos’altro?
Ho provato a mettermi in contatto con alcune organizzazioni umanitarie, come Amnesty International, e con alcuni europarlamentari. Ne ho parlato anche con Emma Bonino. Ma ho capito che non sarebbe cambiato niente, che l’Europa non sarebbe intervenuta. Quando è stata annunciata la costruzione di questo muro nessuno si è opposto, nemmeno l’Unione Europea. Per me era incredibile poter assistere a un evento del genere in un paese come la Polonia.

Quanto freddo fa in quel bosco al confine?
In Polonia abbiamo una parola precisa per descrivere un bosco antico. E quello è il bosco più antico d’Europa: è enorme, ancora popolato dai bisonti e pieno di paludi. Quindi è un bosco in cui è estremamente difficile sopravvivere. Lì fa davvero freddo. Di notte, la temperatura può scendere anche a -15°. In qualche maniera, se posso, assomiglia al mare.

In che senso?
Attraversare un bosco può sembrare più facile di attraversare il mare. In realtà, così come in mare si rischia di affogare senza saper nuotare, in un bosco si rischia di morire se non si hanno gli strumenti per sapere dove andare. Quello non è un bosco qualsiasi, e le persone che arrivano lì, dai paesi del Medio Oriente, non si sono mai trovate in un ambiente simile.

Uno dei passaggi che più colpiscono di MUR è la visita guidata al muro, quando vengono mostrate le tecnologie e le risorse utilizzate per la sua costruzione. Colpisce perché sottolinea perfettamente il paradosso che stiamo vivendo: da una parte la fatica che ci vuole per separare e tenere separate le persone, dall’altra l’immediatezza che invece rappresenta dare aiuto. Tu che cosa hai pensato in quel momento?
In quel momento, se ti devo dire la verità, speravo solamente di non essere riconosciuta. (ride, ndr) Però sì, è assurdo. Stiamo vivendo un momento in cui le armi e tutto ciò che dipende economicamente da una guerra sono al centro di qualunque discorso; rivelano chiaramente quali sono le motivazioni e la paura degli stati. Non possono essere delle persone, infreddolite e confuse, lontane da casa, la ragione per cui vengono investiti così tanti soldi nella costruzione di un muro. Parliamo di 86 km di lunghezza e sei metri di altezza protetti da mezzi e guardie; parliamo di una zona rossa, inavvicinabile, completamente militarizzata. Quel muro, chiaramente, significa altro.

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Qual è stata la reazione dei polacchi che vivono in quella zona?
Le persone che abitano lì, che vedono famiglie in difficoltà, si sono ritrovate a violare la legge per aiutare chi ne ha bisogno. E l’hanno fatto perché, a un certo punto, è importante rispondere alla propria morale e non solo a quello che ci viene imposto dallo Stato.

Che impatto ha avuto su di te quest’esperienza?
A un certo punto la mia vita è diventata un’altra cosa. La mia attenzione si è spostata altrove, a quel confine. Anche mentre stavo su un set, mentre partecipavo alle chat di classe con gli altri genitori, il mio cellulare continuava a ricevere immagini del bosco e delle persone che lo stavano attraversando. Ho dovuto smettere di fare quello che facevo prima. Io racconto storie, è il mio lavoro. Però all’improvviso quello che stavo vivendo è diventato più interessante di quello che stavo raccontando. Non avevo nessuna voglia e nessuna energia di parlare di altre storie. Quello che viviamo adesso è più importante. E anche per questo ho deciso di fare questo film. All’inizio, ti dico, avevo un piano. Sapevo di non poter andare con una troupe, perché la zona rossa non lo permetteva. Volevo però fare un reportage a puntate, raccontando i muri d’Europa, che sono tantissimi. Poche settimane prima di partire, però, è scoppiata la guerra in Ucraina.

E il tuo piano è svanito.
In quel momento ho pensato: a chi interessa quel muro? Non ha senso, adesso, parlarne. Ma mentre mi dicevo così, ho visto l’impegno che tutti stavano mettendo per accogliere i rifugiati che venivano dall’Ucraina. All’improvviso qualunque problema era sparito. Non pensavamo più al COVID, ai vaccini, alla paura. Volevamo fare la cosa giusta, volevamo intervenire. Volevamo fare la differenza. E più quell’accoglienza era così istintiva e genuina, più la mia mente tornava al confine polacco. E allora sono partita. Per raccontare un’altra storia di migranti, una storia tragica, in cui gli attivisti e le persone che vogliono aiutare sono costrette a infrangere la legge per farlo. Una storia di migranti che muoiono a poche decine di chilometri dal confine ucraino.

Secondo te, perché si è creata questa differenza?
Con l’Ucraina, avevamo una faccia e un nemico: Putin. Quella in Siria per molti non è nemmeno una guerra. L’Afghanistan è lontano e parlarne è sempre più difficile. L’Ucraina è vicina a noi, invece. Ed avevamo un cattivo da incolpare. Non so dirti, però, se basta questo per agire diversamente. Se bastano l’ignoranza, la paura per il prossimo, il colore della pelle o una religione. Non lo so, ripeto, se basta. Però in quel momento si stava creando un muro invisibile tra le due realtà e io ho voluto raccontare questa storia senza un piano, senza una troupe. Sono partita con la mia co-autrice, che ha fatto anche da operatrice, Marella Bombini, e abbiamo imparato a fare tutto da sole.

Questo muro di ipocrisia si è fermato o sta continuando ad alzarsi?
È una cosa che ci appartiene, che fa parte di noi. L’indifferenza ci scorre dentro. Viviamo tra pregiudizi e approssimazioni. Ci commuoviamo quando vediamo le immagini di un bambino in difficoltà e non pensiamo ad altre centinaia di bambini che muoiono. Non riusciamo a capire che non ci sono differenze davanti al bisogno di aiuto; non riusciamo ad accettare che tutti i bambini non devono essere lasciati soli. In alcuni momenti siamo estremamente lucidi, in altri, invece, non vogliamo nemmeno interessarci a quello che sta succedendo. Vedi, per esempio, al conflitto tra Israele e Palestina, al qualunquismo dilagante. Le nostre radici sono nel nostro passato e in MUR ho provato a parlare anche di questo: chi siamo stati prima di essere quelli che siamo oggi. Il dolore e la confusione che stiamo provando sono così difficili da analizzare, da mettere a fuoco, perché stiamo attraversando un momento in cui la nostra percezione del mondo è cambiata.

Quando è cambiata?
Con la caduta delle Torri Gemelle. In quel momento, abbiamo riscoperto la paura per chi non ci somiglia, per chi non parla la nostra lingua e non prega il nostro stesso dio. Poi c’è stata la crisi economica del 2008, con la paura del futuro. Quindi c’è stato il COVID, con la paura del prossimo, anche dei propri affetti. Abbiamo costantemente paura. Paura di soffrire, di morire. E ora c’è il conflitto in Ucraina e c’è il conflitto nella striscia di Gaza. Siamo persi. E io volevo raccontare la confusione. Io non sono nessuno, intendiamoci.

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Che vuoi dire?
Un attore, anche se famoso, anche se al centro dell’attenzione, non è nessuno. Ha mezzi limitati. Io, prima di tutto, sono una cittadina italo-polacca, una cittadina europea. Ma moralmente non ho bisogno di una cittadinanza di un paese per sentirmi responsabile di quello che accade. Non sono iraniana, ma mi sento in dovere di esprimermi su quello che sta succedendo in Iran alla donne. Viviamo in un mondo globalizzato e non possiamo prendere solo la parte bella che ci arriva su TikTok. Oggi, grazie ai social, possiamo capire e fare una scelta.

Il muro al confine con la Bielorussia è diventato uno degli argomenti principali delle ultime elezioni politiche in Polonia?
Per un po’ di tempo, non se ne è minimamente parlato. Durante la campagna elettorale, però, è tornato sulle prime pagine dei giornali polacchi perché il tema dei rifugiati è diventato un tema fondamentale. Io spero veramente in un cambiamento nella percezione che abbiamo degli altri esseri umani. La politica, fino a oggi, ha saputo rispondere solo con la violenza usando la paura dei cittadini come giustificazione e come punto di partenza. Ed è successo ovunque. Forse, la Polonia saprà dare un segnale, proprio come ha dato un segnale quando ha detto di no al comunismo. Forse, la Polonia sarà l'inizio della fine dei nuovi fascismi. Ci voglio credere.

Quando un attore interpreta un ruolo, quel ruolo gli appartiene solo finché è sul set e ci sono scene da girare. In un caso come questo, con un documentario, è facile mettere da parte quello che si è provato e visto? È facile ricominciare a vivere normalmente?
Non lo so. (ride, ndr) Io non voglio ricominciare a vivere normalmente e non voglio mettere da parte questa esperienza. Come ti dicevo prima, è cambiato tutto. Questa esperienza mi ha aperto gli occhi e ha ribaltato le mie priorità. Mi ha dato tanta forza e mi ha permesso di credere in me stessa, in quello che sono in grado di fare. Mettere da parte questa esperienza e raccontare altre storie è qualcosa che non sono pronta a fare adesso.

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