Il Fabbricante di lacrime, la sceneggiatrice Eleonora Fiorini: “Nel film c’è la stessa potenza del libro”
Arriva su Netflix dal 4 aprile un film attesissimo, si tratta della trasposizione de Il Fabbricante Lacrime, l'omonimo best seller di Erin Doom, che ha portato la scrittrice in cima alle classifiche letterarie in pochissimo tempo. Il successo ottenuto dal romanzo ha generato una curiosità tale, attorno al titolo, da deciderne di farne un film e del progetto ne abbiamo parlato con la sceneggiatrice Eleonora Fiorini, colei che insieme al regista Alessandro Genovesi ne ha reso possibile la trasformazione in un prodotto diverso da quello di partenza.
Dell'importanza della sceneggiatura e di quanto spesso si tenda a non dare il giusto valore ad un lavoro che, invece, rappresenta le fondamenta dell'impianto cinematografico e non solo, Fiorini, che ha iniziato la sua carriera partendo dal cinema passando per la soap e la lunga serialità, ne è fermamente convinta: "In Italia la figura dello sceneggiatore è un po’ sottovalutata, portare avanti questo lavoro non è semplice", racconta. Eppure la scrittura è alla base di qualsiasi tipo di narrazione ed è per questo che andrebbe valorizzata ancor di più, soprattutto quando è sincera e mira a trasmettere qualcosa capace di restare nel tempo.
Partiamo proprio da qui, perché è difficile portare avanti questo lavoro? Lei come ci è riuscita?
Sono stata fortunata, ma è pur vero che non sono stata snob. Avrei voluto fare altro da ragazza, poi ho iniziato questo lavoro facendo molta gavetta sui set, credo che questo tipo di esperienza mi abbia aiutato, soprattutto a scrivere sceneggiature che andassero bene per i registi. Ma credo che il vero problema sia il sistema produttivo. Ho lavorato per produzioni industriali, come Un posto al Sole, CentoVetrine, e questo mi ha dato un'impostazione che difficilmente ho ritrovato. Manca quell'importanza che bisognerebbe dare al lavoro in team.
Sta dicendo che non sempre c'è collaborazione?
Non penso che questo lavoro si faccia solamente con la creatività, bisogna essere umili, provare a creare un team, in cui ti interfacci con la produzione, il regista, gli attori.
Poi, cos'è indispensabile per fare questo lavoro secondo lei?
È importante non essere soli davanti alla pagina bianca, anche perché è stato fatto davvero tutto. Bisogna tenere bene a mente le tre regole principali, che sono quelle aristoteliche di inizio, svolgimento e fine, ma altra cosa fondamentale, soprattutto in questo momento in cui siamo pieni di contenuti, è capire che tipo di prodotto si sta facendo, che storia si sta raccontando. È quello il tuo faro, se non te lo chiedi, vai ramingo. È per questo che la sceneggiatura è alla base di tutto, e lo sceneggiatore dovrebbe seguire tutto il processo.
Prima ha parlato dell'importanza del lavoro fatto in una soap. Al momento in Italia, l'unica che davvero va avanti è Un Posto al Sole, cos'ha diverso da altre produzioni?
La Rai ha voluto continuare a farlo, anche CentoVetrine avrebbe potuto andare avanti tranquillamente, ci fu una brutta reazione da parte del pubblico quando venne chiusa. La Rai ha ritenuto che Un posto al sole fosse un prodotto che caratterizzava la rete e l’ha portato avanti. La cosa vincente, poi, è stata il radicamento nella realtà, l'andare di pari passo con la vita di tutti i giorni, quando crei un piccolo mondo, i personaggi a cui ti sei affezionato diventano un punto di riferimento.
Veniamo al film, Il Fabbricante di lacrime è stato un successo letterario incredibile, qual è stato il primo passo per adattare un romanzo con questo background?
Innanzitutto ho provato a cercare il senso della storia, non solo quello che volevo dargli io, ma anche il senso che la scrittrice stessa, magari nella foga dello scrivere, non aveva chiarissimo. Le pagine di questo libro hanno risvegliato in me un istinto giovanile che stavo perdendo e credo sia anche uno dei motivi del suo grande successo, insieme al romanticismo e ai personaggi conturbanti. La parte finale è quella in cui ci sono momenti che danno una lettura di questa storia. In tutto il lavoro sono stata poi affiancata dall'editor Paola Boschi e dal regista Alessandro Genovesi.
Ha definito i personaggi conturbanti. Perché, cosa trasmettono?
Rigel è per antonomasia il bel tenebroso, con un dolore alle spalle, uno di quelli che affascinano da sempre. Nica ha voglia di farcela, dimostrando di essere se stessa, anche se prova continuamente a non far trapelare quello che sente, ovvero il non sentirsi mai adeguata. Poi è fatale nel racconto, e anche tra loro, questa continua contrapposizione tra amore e morte, presente anche nel libro.
Crede di aver tralasciato o di aver dovuto sacrificare qualcosa di importante su cui anche i fan potrebbero avere da ridire?
Il libro si sarebbe prestato ad una serie, è pieno di spunti, di personaggi, di cose che potevano essere sviluppate. Siamo stati molto fedeli, è stato fatto un lavoro certosino per non tralasciare niente, se non alcune storie secondarie che avrebbero potuto, se fosse stata una serie, esplodere e fare da specchio alla storia principale. Il regista è stato fondamentale nel capire cosa fosse giusto tagliare e cosa no, ma abbiamo lasciato le parti più importanti.
L'ambientazione del libro è inglese, perché non avete pensato di restituire una versione italiana, avendo scelto interpreti italiani?
È una cosa che è stata dibattuta. Anche io avevo qualche dubbio inizialmente, ma poi ho trovato una risposta. Trattandosi di un genere universale, che parla di sentimenti ancestrali in cui tutti possono riconoscersi era giusto che fosse in un non luogo. Dare una connotazione geografica ad un qualcosa di primordiale avrebbe dato un realismo che non era consono con la potenza di questi sentimenti.
Quale aspetto la scrittura filmica può valorizzare, rispetto alla scrittura canonica, che si avvale del più potente mezzo che esista quando si ha che fare con un libro, ovvero la fantasia?
Quando scrivo penso sempre come spettatrice, cerco di valorizzare le cose che proverei vedendo il film. Tanto è vero che questo è il mio cruccio, ma forse anche la mia forza, io scrivo solo di notte. Vado al cinema, vedo le serie, solamente di sera, siamo abituati a vedere questi prodotti di sera e a me viene l’ispirazione quando c'è tutto silenzio intorno. Cerco di scrivere in funzione della mia fantasia, poi è chiaro che siamo tutti diversi. Ho cercato di raccontarlo con gli occhi di una adolescente.
L'adolescenza, anche l'infanzia hanno in sé una predisposizione alla sincerità. Che forse è il modo migliore per raccontare le cose, non crede?
Se non sei sincera, le cose non vengono. Ma io sono sempre quella bambina che giocava con le Barbie e creava delle storie, ho vissuto un’infanzia molto sola, vedevo quello che mi accadeva intorno, provavo ad aggiustarlo e scrivevo i miei romanzetti già da piccola.
Tocchiamo invece l'attualità. Cosa ne pensa dell'incombenza dell'intelligenza artificiale?
Sono terrorizzata, però faccio finta di niente. Il timore c’è, ma una cosa che penso non potrà mai essere sostituita è il sentimento. Io stessa sono un’intelligenza artificiale, perché nel momento in cui mi danno delle indicazioni su come deve essere una serie, prendo questi dati li metto nel frullatore del mio cervello e tiro fuori una specie di sudoku che porta ad un prodotto. In questo la soap ci ha aiutato, ad essere flessibili, come lo è l’intelligenza artificiale. Spero manchi anche il saper giocare sugli imprevisti, può capitare che nella scrittura di una serie ti rendi conto che quello che avevi indicato come un semplice step narrativo, sia in realtà una cosa più forte, entra in gioco il sentimento umano che fa poi cambiare delle cose, la storia.
Probabile che il giorno in cui l'AI toccherà la nostra fantasia, sarà molto lontano.
Spero di essere molto anziana, in un ospizio, a guardare la tv quando succederà. Quando ero più giovane non mi chiedevo il senso delle cose che stessi facendo, poi ho iniziato a farlo e diverso tempo fa ho avuto la percezione che non stessi facendo qualcosa di inutile nel mondo.
Cosa è successo?
Un giorno andai in uno ospizio dov'era mia nonna ricoverata, e all'epoca lavoravo per CentoVetrine. Ad un certo punto vedo queste signore, che si chiamavano a vicenda, “andiamo, andiamo” per andare insieme in una stanza, ero curiosa e sono andata a vedere, stavano guardando tutte CentoVetrine. Lì ho avuto il primo momento nel dire "allora quello che scrivo è servito a qualcosa", mi ha commossa molto, mi sono anche data una pacca sulla spalla.
L'importante non dovrebbe essere sempre provare a veicolare un messaggio, qualunque cosa si faccia?
Quando si scrive a velocità supersonica non sempre è facile pensare ai messaggi che si possono dare, magari ci sono dei temi che sarebbero potuti essere sviluppati diversamente, si cerca anche con i dialoghi di far dire delle cose che abbiano un valore, che facciano pensare. Non sempre ci si riesce, quindi chiedo perdono (ride ndr.)