I 50 anni di carriera di Nando Paone: “Un personaggio come Cico oggi sarebbe difficile da portare a teatro”
Nonostante i ruoli più maturi, la sua fisicità è rimasta intatta. Sorprende, in effetti, pensare che Nando Paone abbia già alle spalle cinquant'anni di carriera (esordì in teatro nel 1975 con Mico Galdieri). Aneddoti, racconti di vita professionale e non sono racchiusi nel libro-intervista "Io, Nando Paone", realizzato con lo psichiatra Ignazio Senatore: "Quando avevo sedici anni, a Bagnoli c’erano sei, sette sale e si andava al cinema senza sapere nulla del film che avremmo visto. Una sera c’era in programmazione L’inquilino del terzo piano di Roman Polanski. Quel film mi folgorò, anche per la straordinaria interpretazione di Polanski. Decido: “Voglio fare l’attore". Comincia così una grandissima avventura.
Nando Paone ha conosciuto i migliori anni della commedia all'italiana: film popolarissimi come "Lo chiamavano Bulldozer" e "Bomber" insieme a Bud Spencer, ma anche "Caro papà" di Dino Risi con Vittorio Gassmann, "Mia moglie è una strega" con Eleonora Giorgi e Renato Pozzetto. Dai 2000 in poi, la massima popolarità con Vincenzo Salemme, Carlo Buccirosso e Maurizio Casagrande: "Eravamo considerati un corpo unico. Come La Smorfia o Aldo, Giovanni e Giacomo", racconta a Fanpage.it. Il successo di "…e fuori nevica!" con Cico: "Quel personaggio era stato interpretato da Francesco Paolantoni. Io l'ho cambiato. Studiai le movenze dei ragazzi autistici, parlavo e trascorrevo del tempo con loro. Oggi sarebbe difficile ripeterlo". Una carriera che gli continua a dare tanto, come i successi televisivi di Mina Settembre, di Briganti in piattaforma e la saga di Benvenuti al Sud, che potrebbe presto diventare una trilogia. L'omaggio a Cetty Sommella, moglie scomparsa nel 2021: "Come si dice dalle nostre parti, Cetty m’ha fatto ommo. Mi ha dato organizzazione amministrativa e professionale, mi ha dato tanto per l’impostazione dei miei personaggi. Mi ha fatto diventare grande. Questa è la cosa più bella che posso dire di lei".
In "Io, Nando Paone" ti racconti per la prima volta con lo psichiatra e psicoterapeuta Ignazio Senatore. Non un comune libro biografico, ma qualcosa di più interattivo.
Il Dott. Senatore mi ha più volte suggerito di fare un libro in questo modo. Sono sempre stato restio a parlare di me al di là della sfera professionale. Mi ha convinto perché, dal punto di vista psichiatrico, è riuscito a farmi quelle domande giuste tali da stimolare le risposte che soddisfano un po’ me, anche un po’ la curiosità che potrebbe avere lo spettatore rispetto alla mia persona. Si è cercato di capire soprattutto come mai mi è venuta questa passione per la recitazione e come ho fatto. Ci sono stati, in effetti, episodi rocamboleschi, al limite dell’assurdo.
Tipo?
Molti mi conoscono per le mie caratteristiche comiche e per i ruoli comici eppure ho avuto la folgorazione per la recitazione grazie a un film drammatico come “L’inquilino del terzo piano” di Roman Polanski.
Perché tu non senti di essere un attore comico?
Io sento di essere un attore. L’aggettivo accanto, qualunque esso sia, a me non piace. Le etichette non servono. Poi, è chiaro, le cose che hanno avuto maggiore popolarità sono stati i personaggi comici. Quelli con Bud Spencer, quelli con Vincenzo Salemme, il ruolo in Benvenuti al Sud. Ma ho fatto anche ruoli impegnati. A me piace quando il pubblico ride per un mio personaggio comico, ma mi piace anche quando gradisce un mio ruolo drammatico. Ho affrontato testi classici da Pirandello a Molière fino a Shakespeare.
Più di recente, a proposito di ruoli drammatici, sei stato impegnato nell’esordio cinematografico di Pietro Castellitto, “I predatori”, nel ruolo del professore di filosofia del protagonista. Hai anche conosciuto le piattaforme con la serie Netflix "Briganti" e il successo televisivo con Mina Settembre.
Quello ne "I Predatori" è stato un ruolo piccolo, ma molto buono. Non bado mai ai giorni di lavoro, alle righe, alle cosiddette pose. Il personaggio, seppur piccolo, se è un motore della storia, io lo accetto di corsa. Su Briganti, forse ci sarà una seconda stagione e abbiamo da poco finito di girare la terza stagione di Mina Settembre.
“Benvenuti al sud”. Si parla di un terzo capitolo. Torneresti nel cast?
Ma certo. È stato un successo di botteghino clamoroso, soprattutto il primo capitolo. Se ne parla, ma per ora niente di ufficiale.
A teatro sei stato impegnato in quello che è stato l’ultimo allestimento di Armando Pugliese.
Armando è stato un personaggio divertentissimo. Chi non lo conosceva, ne aveva addirittura paura. Aveva un carattere spigoloso, molto cinico. Amava trattar male. Ho letto su Facebook che hanno ricordato un aneddoto di questo tipo: “Scusi Maestro che ne pensa se questa battuta la dico in questo modo?”. Lui risponde: “Non lo so. Ci penso e te lo dico domani”. Era così. Quelli che lo conoscevano bene, però, avevano imparato a leggere dietro questo cinismo, una dolcezza e una tenerezza infinite.
Tornando agli anni 2000, nel libro c’è anche una prefazione di Vincenzo Salemme. Tanto teatro e cinema con lui, Buccirosso e Casagrande. In quel momento storico, il pubblico vi percepiva come un ‘corpo unico'.
Il fatto che sembrasse un corpo unico è stato un grande merito di Vincenzo che ha sempre saputo trovare a tutti la giusta collocazione. E quando tutti si stimano, tutti vanno d’accordo, la magia nasce spontanea. Salemme, Buccirosso, Casagrande e Paone per molti sono come La Smorfia, come Aldo, Giovanni e Giacomo. Ancora oggi ci chiedono: “Ma non fate più niente insieme?”. Noi siamo rimasti tutti grandi amici, per la verità. Ci frequentiamo poco per i vari impegni, ma tutte le volte che ci si incontra, sono grandi feste.
Come nasce il personaggio di Cico in “…e fuori nevica!”?
Quello è un testo che fu suggerito e commissionato a Vincenzo da Enzo Iacchetti sfruttando il fatto che c’era Francesco Paolantoni, che aveva già tantissimi personaggi pronti. Allora Enzo disse che magari si poteva sfruttare questo potenziale scrivendo la storia di tre fratelli e la misero in scena con il ruolo di Cico fatto da Paolantoni per una ventina di recite.
Non ci sono prove di quell’allestimento?
No. Francesco portava in quello spettacolo i suoi personaggi. Gli arrivarono delle proposte irrinunciabili, credo Mai dire Gol, Vincenzo mi chiede se me la fossi sentita di fare quel personaggio. L’avevo visto ma non volevo conservare nulla di Francesco, anche perché sarebbe stato un saccheggio. Ho cercato di personalizzarlo e Vincenzo mi ha molto indirizzato all’interpretazione, suggerendomi tante cose divertenti.
Come ti sei preparato per il personaggio?
Nell’interpretazione, ho sempre amato fare ricerche sui personaggi che vado a fare e ricordo che a quell’epoca abitavo a Roma, nei pressi di Villa Pamphili dove c’è l’Opera Don Guanella che ospitava ragazzi che avevano disturbi dello spettro autistico e altre disabilità. Passavo giornate con loro, ne studiavo le movenze. Cercammo di non essere irriverenti, di rispettare la malattia e tirare fuori un valore comico e drammatico.
In quegli anni era più facile portare in scena una persona con disturbi dello spettro autistico in quel modo?
Non so se a torto o a ragione, ma è vero. Era più facile. Poi, è stato doveroso, a un certo punto, essere più attenti perché la libertà di linguaggio ha portato a usare certe terminologie per discriminare, questo soprattutto da parte delle frange più estremiste e fasciste. Oltre la disabilità di Cico penso a tutte le altre parole che possono avere un significato offensivo. Penso soprattutto alle parole: neg*o, mongol**de, e via dicendo. Non ce ne sarebbe dovuto essere il bisogno di essere attenti con il linguaggio, non si sarebbe dovuti arrivare a questo, ma purtroppo è stato necessario.
Hai fondato un teatro, la Sala Moliere di Pozzuoli, con tua moglie Cetty Sommella, scomparsa nel 2021.
Cetty è stata una grandissima attrice ma poco sfruttata, questo mi dispiace enormemente. Negli ultimi quindici anni della sua vita, forse qualcosina in più, decise di passare alla scrittura e alla regia, riuscendoci anche bene. Io e lei abbiamo messo in scena due spettacoli scritti e diretti da lei, altri due dove lei era solo la regista e poi lei ha messo in scena tantissimi spettacoli con gli ex allievi usciti dal nostro laboratorio, un gruppo di giovani che ancora oggi lavora. Quello che mi dispiace è che lei non è stata riconosciuta in vita. Lei ha faticato tantissimo. Il mercato del teatro non guardava alle donne che scrivevano e dirigevano. Volevano l’uomo. Volevamo la firma mia. Ora che non c’è più, tutti si sperticano. Questa cosa mi fa sorridere e lo dico perché sono sicuro che a lei avrebbe fatto piacere e so pure che cosa avrebbe detto di tutta questa riconoscenza postuma.
Cosa avrebbe detto?
Non è da trascrivere. Per il resto, come si dice dalle nostre parti, Cetty m’ha fatto ommo. Mi ha dato organizzazione amministrativa e professionale, mi ha dato tanto per l’impostazione dei miei personaggi. Mi ha fatto diventare grande. Questa è la cosa più bella che posso dire di lei.
Un’ultimissima curiosità. C’è questa immagine, suggeritami da un collega, di te che vai agli spettacoli teatrali con la tua cagnolina.
Una cagnolina meravigliosa, che purtroppo non c’è più. Non è mai rimasta sola un’ora della sua vita. Era appunto di Cetty, erano inseparabili. In realtà, però, cinema e teatri mi hanno sempre fatto problemi per quanto io la portavo in una borsetta, lei aveva solo la testolina fuori e non faceva nulla, non dava fastidi di nessun tipo. Però, sì, qualche volta il Bellini mi ha dato un palchetto tutto per me, proprio per stare con lei.