“Ho smesso di parlare a causa del bullismo, volevo sparire. Oggi aiuto chi prova lo stesso dolore”: la storia di Simone Riccioni

Simone Riccioni è un volto familiare per il pubblico italiano. L'attore, 36 anni, ha recitato in film come Universitari – Molto più che amici di Federico Moccia (era Carlo) e serie tv di successo come Che Dio ci aiuti e Balene. Sarà nel cast della serie Alex Bravo con Marco Bocci. Nel corso della sua carriera ha girato circa trecento spot pubblicitari con slogan che sono diventati dei veri e propri tormentoni come "Svizzero? No, Novi", "Altolà al sudore" o "Batte, forte, sempre". Ma oltre la carriera di attore c'è una storia che vale la pena raccontare. Simone Riccioni è nato in Uganda da genitori marchigiani partiti in missione. Ha vissuto la povertà assoluta, ma è stato accolto da quel popolo come un fratello. Tornato in Italia, nel suo Paese, non ha goduto della stessa accoglienza. Aveva 13 anni quando ha subito gli insulti dei suoi compagni:
Ero uguale a loro, ma mi dicevano che ero uno sporco n***, una scimmia e un mangia banane, dimostrando tutta l'insensatezza e la crudeltà del bullismo.
Simone, per un anno e mezzo, ha smesso di parlare. Crescendo si è accostato alla recitazione e attraverso quest'arte ha provato ad aiutare gli altri, prima come attore-pagliaccio per i ragazzi con disabilità o con la Sindrome di Down poi fondando una sua casa di produzione con il proposito di trasmettere, attraverso i suoi film, messaggi in grado di generare un cambiamento. Nel 2020, durante la pandemia, quel dolore vissuto da bambino è tornato a galla. Così, è nato il film Neve, che da un anno e mezzo presenta nelle scuole, incontrando gli studenti e le vittime di bullismo:
I miei nonni mi hanno insegnato che la bontà è la qualità più importante. Non faccio l'attore per notorietà o per soldi, ma per mandare un messaggio, per trasmettere qualcosa ai più giovani. Raccontando la mia storia provo ad aiutare chi sta provando il dolore che ho vissuto io.
La storia di Simone Riccioni: la vita in Uganda, il bullismo in Italia e il film Neve

Sei nato in Uganda nel 1988, figlio di un medico anestesista e rianimatore e di una professoressa di matematica, entrambi marchigiani. Come mai i tuoi genitori si trovavano lì?
Nel 1987 sono partiti per una missione con l'AVSI – Associazione Volontari per il Servizio Internazionale. All'inizio mio padre era scettico: "Col cavolo che parto durante la guerra" (ride, ndr). Mia madre lo ha convinto. Nel 1988 sono nato io. Il mio nome africano è Otim che significa "nato in terra lontana". Nel '91 è nata mia sorella e nel '93 il mio fratello minore. Mio padre si divideva tra Uganda e Ruanda.
Concretamente di cosa si occupava?
Durante il genocidio in Ruanda, è stato uno dei medici missionari che hanno salvato 800 bambini mettendosi tra i ribelli armati e l'orfanotrofio con le sole scope. Quindi per me è un super eroe. Per i primi quattro, cinque anni in Uganda non ha percepito uno stipendio. Vivevamo nelle realtà missionarie che ti permettevano di stare lì a dare una mano. Poi è diventato uno dei responsabili dell'area geografica dei Grandi Laghi, una zona paludosa che hanno fatto bonificare.
Com'era la tua vita in Uganda?
Ho vissuto la povertà. Non avevamo niente. Sono nato in una capanna fatta di terra battuta rossa e una lamiera bucata sopra la testa. Quando pioveva, pioveva dentro. Quando c'era il sole, ci cuoceva le teste. Non avevamo l'acqua, si andava a prendere alla sorgente. Non avevamo la corrente elettrica. Quando ricevevo un regalo, però, ero felice di donarlo ai miei amici. La mia stessa nascita è stata particolare.
Cosa è successo?
Non c'era l'ospedale. Nel momento del parto, mio padre ha staccato la batteria della macchina che usavamo per avventurarci nella savana, ha collegato i fili a un faro e lo ha puntato su mia madre. Il parto è avvenuto con mio padre e l'aiuto di alcune infermiere del luogo. Mancavano il bue e l'asinello e il presepe era completo (ride, ndr). Ho vissuto una realtà incredibile che mi ha segnato il cuore.
Hai vissuto in Uganda fino agli otto anni. Ti eri integrato?
Certo, facevo parte di un tessuto sociale dove ero Muzungu (termine con cui in Africa si indica chi non ha la pelle nera, ndr). E non c'era razzismo nei miei confronti. Non mi percepivano diverso, mi hanno accolto come uno di loro, come un fratello. Non sarei mai andato via dall'Africa. Quando i miei genitori decisero di rientrare in Italia nel '96 hanno distrutto un sogno. Casa mia era l'Africa.
Qual è il ricordo più vivido che conservi di quegli anni?
Ricordo tutto, persino la terra rossa. Mi ci rotolavo dentro con i miei amici perché volevo essere come loro. Diventavamo tutti rossi e quindi eravamo uguali. Mi è rimasta impressa una famiglia con 15 figli. Non avevano niente, ma vidi la madre prendere una patata dolce – quella africana è grande come un melone – che serviva a loro per mangiare, tagliarla a metà e portarla a un'altra famiglia che aveva 10 figli e non aveva cibo. Ho visto un ippopotamo davanti alla mia porta, ma anche leoni e un cobra che mi strisciava accanto.

Come mai avete deciso di rientrare in Italia?
Siamo tornati perché i nonni stavano diventando anziani. Abbiamo avuto la fortuna di poterceli godere, perché sono morti nel 2020 a 95 e a 96 anni. Ma tornato in Italia, ho iniziato a essere vittima di bullismo.
I bambini ti facevano pesare il fatto che tu venissi dall'Uganda?
Sì, mi dicevano che ero una scimmia, un mangia banane, dumbo, brutto, orecchie a sventola. Mi insultavano con appellativi come "sporco ne**o" pur essendo io bianco. Questo dimostra come il razzismo, la cattiveria e il bullismo siano completamente insensati. Se fossi stato nero, come i miei amici africani, sarei stato solo contento. Per me la diversità è ricchezza. Razzismo e cattiveria non dovrebbero esistere, non c'è motivazione che tenga.
Insomma in Uganda dove potevi essere percepito come quello "diverso" sei stato accolto come uno di loro, a casa tua sei stato discriminato.
È vero. In Uganda i miei amici mi dicevano: "Sei un latticino, sei scolorito", ma con un tono affettuoso, non dispregiativo. In Italia mi davano anche del "pezzente" perché i miei genitori, per evitare inutili sprechi, mi passavano i vestiti dei miei cugini. Mia madre mi ha sempre detto che non bisogna buttare via niente. Incluso il pane. Se i miei compagni lo lasciavano perché volevano buttarlo, io lo andavo a prendere e lo mangiavo, perché sapevo che c'era gente che non se lo poteva permettere.
A un certo punto qualcosa si è spezzato dentro di te.
Per un anno e mezzo ho smesso di parlare. Quando lo facevo, parlavo poco. Gli psicologi dicevano: "Non ha un mutismo selettivo, lui non vuole parlare".
Cosa provavi?
Non ho più voluto parlare perché non mi sentivo accolto, non mi sentivo accettato. Neanche a casa. Non per cattiveria da parte dei miei genitori, anche loro non capivano cosa stesse succedendo. Ero un bambino sportivo, energico, carino, nessuno pensava che mi potessero bullizzare. Mio padre e mia madre lo hanno scoperto solo con l'uscita al cinema del mio film Neve.
Come hanno reagito?
Si sono messi a piangere e io gli ho detto: "Non è colpa vostra, sono io che ho sbagliato a non parlare, a stare in silenzio e a chiudermi in me stesso".
Cosa suggerisci a chi subisce bullismo?
Di non fare l'errore che ho fatto io, di non chiudersi. Devono chiedere aiuto e raccontare ciò che stanno vivendo perché può salvare altre persone. Inoltre, a volte si fa l'errore di accostare il bullismo alle aggressioni più forti, ma in realtà è anche psicologico. Io mi spegnevo perché qualcuno mi scriveva insulti e cattiverie sul diario o mi faceva un dispetto. Mi distruggeva e mi ha portato a dire: "Sai che c'è? Io me ne sto zitto, tanto non cambia niente". Cercavo di scomparire.
Come ne sei uscito?
Sono tornato a parlare perché due miei amici hanno iniziato a difendermi: "Lasciate stare Simone, è nostro amico, non vedete che gli fate solo del male". Fino ad allora l'unico dono che desideravo era quello dell'invisibilità. Sono stati circa due anni vissuti davvero male.
Il film Neve di Simone Riccioni si ispira in parte alla sua storia

Nel tuo film, Neve, racconti di una bambina (interpretata da Azzurra Lo Pipero) che smette di parlare perché derisa dai suoi compagni.
Ho iniziato a scrivere Neve durante la pandemia, perché era tornato a galla questo grandissimo dolore e non capivo come mai visto che erano passati 20 anni. Pensavo di avere ormai dimenticato tante cose brutte. La psicologa che mi affianca durante le presentazioni del film mi ha detto: "Non le hai dimenticate, semplicemente non le vuoi ricordare".
Quando incontri gli studenti, ti sembrano ricettivi all'idea di sradicare il bullismo?
Direi di sì. Nelle scuole, dopo avere raccontato la mia storia, ho visto bambini che si sono messi a piangere, ragazzi che hanno tirato su la mano e hanno raccontato la loro esperienza con l'incertezza di chi non è ancora sicuro di poterlo fare. Mi dicono: "Io venivo bullizzato alle elementari" oppure "Mi bullizzavano alle medie" e invece li guardo e capisco che li stanno bullizzando in quel momento. Ho visto bulli intervenire e ammettere: "Ho visto quanto sei stato male, Simone, quindi non ho più voglia di farlo".
Chi è il bullo?
Io non credo che il bullo sia cattivo, è semplicemente un ragazzo che cerca di sfuggire alla sofferenza incanalando il suo dolore contro qualcun altro. Ripeto, non credo ci siano ragazzi cattivi, ma ragazzi da aiutare. Più vado avanti, più le persone mi scrivono per informarsi. Lo trovo bellissimo. Io provo a mandare un messaggio, a colpire il cuore attraverso il cinema. È il motivo per il quale vado avanti, perché se fosse per una questione economica non ci si guadagna niente.
Il film Il ragazzo dai pantaloni rosa – ispirato alla storia di Andrea Spezzacatena, vittima di bullismo – è stato accolto da insulti alla Festa del cinema. Cosa credi si possa fare per cambiare davvero le cose?
Deridere, urlare, fischiare contro la morte di un ragazzo lo trovo disumano sotto tutti i punti di vista. Inconcepibile. Bisogna continuare a creare qualcosa di bello, a portare nelle scuole dei messaggi sani. Parlare con i ragazzi e coinvolgerli in attività che aprono una breccia nell'ascolto.
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Tornando alla tua storia, durante gli anni in cui hai vissuto a Milano e hai cominciato a lavorare negli spot pubblicitari, hai affrontato un altro momento di difficoltà.
Diciamo che sesso, droga e rock and roll in quel periodo caratterizzavano la Milano bene. Io non ho mai fatto uso di droghe, però ho avuto i miei due, tre anni di festa totale, fino a quando ho scoperto di avere tre ernie al disco, non camminavo più e quindi ho avuto un momento di smarrimento. Ho capito che non ero onnipotente (ride, ndr), che dovevo rallentare e iniziare a guardare le cose belle della vita, come me le ha fatte guardare il mio papà. Metaforicamente, sono tornato a casa.
Stai per diventare padre. Tu e tua moglie aspettate una bambina. Qual è il valore principale che vorresti trasmettere a tua figlia?
La lealtà e l'onestà. Vorrei che fosse una persona vera, una che dice le cose guardandoti negli occhi anziché sparlare alle spalle. Spero che possa trovare qualcosa che la renda felice nella vita e che sia altruista, capace di donare senza aspettarsi qualcosa in cambio.
Sei mai tornato in Uganda?
Dovevo tornarci quest'anno con mia moglie. Avevamo preparato tutto, poi abbiamo scoperto che aspettava una bambina e abbiamo deciso di desistere. Ci andremo quando avremo modo di portare con noi nostra figlia. Sono stato in Egitto, in Marocco, in Tanzania, ma non in Uganda. Non vedo i posti in cui sono cresciuto da quel lontano '96.
Tornarci con la famiglia che hai creato sarà un po' come chiudere il cerchio.
Certo, avrebbe un significato ancora più profondo. Ammetto, però, che è come se dentro di me avessi paura di tornare. Non per il timore di rovinare il ricordo, ma perché potrei trovarmi talmente bene da non volere più rientrare in Italia. Ora sono abbastanza grande per scegliere se restare.
Vuoi affidarmi un'ultima riflessione?
Chiudo con le parole che dico sempre ai ragazzi che incontro nelle scuole. Cercate qualcosa che vi renda felici. La vita va velocissima, ma l'unica cosa importante è la serenità. Auguro a tutti di trovare la loro strada. Di amare ciò che fanno. Di seguire le persone a cui brillano gli occhi.