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Giuseppe Fiorello: “Facevo una fiction all’anno e mi accusavano di essere ovunque, quel pregiudizio è finito”

Giuseppe Fiorello ripercorre la sua carriera in una intervista a Fanpage.it. Gli inizi difficili in cui si è dovuto “inventare una vita”, lo stop al film su Mimmo Lucano, l’amicizia con Franco Di Mare e il tempo in cui si credeva non potesse esistere fiction senza di lui: “Era solo una percezione”. Dall’11 settembre arriva a su Canale 5 con I Fratelli Corsaro, un crime che racconta la storia di due fratelli segnati dalla morte del padre: “Ho pensato a quando successe a me e mio fratello Rosario”.
A cura di Andrea Parrella
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Giuseppe Fiorello non ha bisogno di presentazioni. Pochi personaggi godono di una notorietà come la sua, diventato simbolo di una determinata era della fiction italiana seppellendo la narrazione del "fratello di". Per questa ragione parlare con Fiorello, che dall'11 settembre arriva su Canale 5 con I Fratelli Corsaro, di cui è protagonista e anche uno degli sceneggiatori, rappresenta un'occasione per discutere dello stato attuale della serialità televisiva popolare, ma anche per ripercorrere un pezzo di storia recente dello spettacolo italiano.

Partiamo da I fratelli Corsaro, che trae ispirazione da una serie di romanzi di successo e ti porta a Mediaset con un crime puro. Cosa pensi del successo debordante di questo genere?

Penso ci sia una passione innata del pubblico per il genere investigativo. In questo caso due fratelli, un giornalista e un avvocato, inciampano nei casi e sono essi stessi artefici di una ricerca della verità. Questo profilo di casualità mi è piaciuto molto nei romanzi e abbiamo provato a trasferirlo nella serie.

Tutto si ambienta nella Sicilia in cui sei nato, una Palermo in cui il quotidiano si intreccia con delitti cruenti e casi oscuri. 

È una serie in cui è abbastanza evidente la normalità, la quotidianità in come ci si muove, in come si parla. Ci siamo raccomandati molto di non alzare i toni, perché la Sicilia è una terra in cui se alzi un attimo l'accento diventa troppo stereotipata, recitata in televisionese.

L'elemento investigativo, in fondo, è un pretesto per parlare d'altro, in particolare di due fratelli e del loro rapporto a poco tempo di distanza dalla scomparsa del padre. Hai capito qualcosa in più del tuo essere fratello minore nella vita?

Ho capito una cosa molto semplice, ovvero che avere un fratello più piccolo smuove dentro una tenerezza infinita, un senso di protezione e di paternità, soprattutto se viene a mancare un padre come successe a me e mio fratello. Io avevo 21 anni e Rosario 28, quello sguardo mio nella serie su Paolo Briguglia, che interpreta il fratello minore, mi ha fatto pensare che forse era ciò che provava mio fratello allora, guardandomi.

Cosa ha provocato sulle vostre vite la perdita di un padre?

Penso che il dolore di mio fratello quel giorno si sia trasformato subito in crescita, mentre il mio è rimasto dolore, una sensazione di essermi perso nella vita che è durata per un bel po' di anni. Poi dopo molto l'ho capito, fu una scomparsa prematura e improvvisa, che ci travolse e fu micidiale. Se n'è andato da appuntato della Guardia di Finanza, io non sapevo cosa fare.

Le perdite cambiano la vita, in che modo ha cambiato la tua?

Fosse stato lui ancora in vita forse sarei stato più coccolato, magari sarei rimasto in Sicilia, chi lo sa. Però questa paura di non sapere cosa sarei stato, mi ha fatto tirare fuori la grinta che mi ha spinto a inventarmi qualcosa. Non era programmato che facessi l'attore, non ho studiato appositamente, mi sono inventato una vita. Col senno di poi ho pensato a quella frase del film di Sorrentino: "non ti disunire". Quando ho visto per la prima volta il film ho pianto come in poche altre situazioni.

Tra i fratelli Corsaro, d'altronde, si percepisce un senso di irrisolto, di non detto. 

Qui la questione è centrale e stiamo naturalmente sognando che vada bene questa prima stagione per sperare in altre stagioni che ci consentano di affinare ancora di più il loro rapporto, per aumentare nello spettatore la curiosità di andare a scoprire cosa sia successo.

Giuseppe Fiorello e Paolo Briguglia, i fratelli Corsaro
Giuseppe Fiorello e Paolo Briguglia, i fratelli Corsaro

Interpreti un giornalista sostanzialmente piacione, seduttore, sicuro di sé, che risolve casi e problemi. Quanto ci somigli nella vita reale?

Non tantissimo, ma neanche poco, qualcosa di Fabrizio ce l'ho nascosta dentro di me, soprattutto nel modo di scherzare che di rado emerge pubblicamente. Molto spesso sono i miei figli a dirmi "papà, nessuno direbbe nessuno che tu fai ridere". Nel privato riesco a tirare fuori una parte di me più tranquilla, gioviale, scherzosa, che forse in pubblico non si percepisce.

Perché ti proponi in modo diverso?

No, credo sia più dovuto al fatto che la mia immagine è associata alle cose che ho interpretato. Gli anni in Rai a raccontare eroi positivi, personaggi singolari che hanno cambiato il mondo, o anche semplicemente artisti come Modugno, forse il pubblico mi vede soprattutto così, serioso. Ho sempre proposto una certa tipologia di racconti che stava a cavallo tra impegno civile, battaglia politica e grossi fatti di cronaca. Direi che la mia è stata una linea editoriale, quasi giornalistica.

Ed hai anche generato polemiche, ad esempio con Gli orologi del diavolo, che era stato un gran successo ma non erano mancato dibattito sulla storia alla quale si ispirava.

Sì, c'era stato un momento di tensione relativo al fatto che lui non fosse lo stinco di santo raccontato, ne avevate parlato proprio voi di Fanpage. Ma naturalmente noi ci eravamo ispirati ai libri di Ruffo e quanto raccontato nella fiction era successo davvero. Io ritenni molto interessante anche quella cosa, penso che il nostro mestiere raggiunge il suo obiettivo quando divide e crea dibattito. Il fatto che a me sia successo di smuovere l'opinione pubblica anche con un film mai andato in onda, quello su Mimmo Lucano, è significativo.

Sei stato un simbolo Rai per anni. Sulla scelta di Mediaset ha inciso anche questa questione del film su Lucano bloccato dal servizio pubblico?

Assolutamente no, non sono andato a Mediaset perché qualcuno mi impedisce di entrare in Rai. Vero è che con la Rai, negli anni dopo la pandemia, ho un po' perso i contatti anche per il grande impegno che mi ha richiesto la realizzazione di Stranizza d'amuri. Volevo dedicarmi a qualcosa di diverso, un'esperienza che mi insegnasse cose nuove. Forse mi sentivo un po' stanco di essere solo interprete ed ero incuriosito dalla macchina da presa.

Su Tutto il mondo è Paese, credi vedrà mai la luce?

È ancora lì e non si sa bene cosa accadrà. Quello che posso dire è di avere sempre provato un senso di forte dispiacere per Mimmo, non tanto per la mancata messa in onda. Quello che mi ha addolorato per anni è ciò che lui ha vissuto. Mimmo una volta mi disse che si era dedicato sempre al mondo mentre il mondo lo aveva abbandonato. Nella sua storia c'è questo paradosso, ha sempre fatto cose per gli altri commettendo di certo qualche errore, ma nulla di eclatante, mentre la sua storia è stata pompata come fosse il più grande criminale dei nostri tempi. La Rai aveva promesso che quando tutto si sarebbe risolto, si sarebbe trovata una data per la messa in onda. Aspettiamo che questa promessa venga mantenuta.

Giuseppe Fiorello sul set di Tutto il mondo è paese, film sulla storia di Mimmo Lucano.
Giuseppe Fiorello sul set di Tutto il mondo è paese, film sulla storia di Mimmo Lucano.

Ne I Fratelli Corsaro si riflette anche sul ruolo del giornalismo, la capacità di questo mestiere di veicolare, se vogliamo, la narrazione del reale. Da attore come ti rapporti al ruolo della stampa? 

Dipende dalle storie che racconto, ma in generale ho sempre avuto una relazione serena. Poi certo non mancano casi in cui vedo virgolettate cose che non ho detto, il titolo estrapolato da una mezza una parola, magari senza aver vissuto l'emozione di un'intervista. Questa cosa dei titoli non l'ho mai compresa.

È una questione di sintesi, ha i suoi pregi e i suoi difetti. 

Lo capisco, ma il titolo di un pezzo è davvero il volto di una persona, forse è la prima e anche unica cosa che le persone leggono nella velocità della vita. Può capitare che spesso non rispecchino quello che dici.

A proposito di giornalismo, non è la prima volta che ti approcci a un personaggio di questo tipo. Lo facesti anche ne L’Angelo di Sarajevo, raccontando la storia di Franco Di Mare e della figlia. 

Vero, quella fu una una storia liberamente ispirata alla vicenda di Franco, cui va tutto il nostro ricordo, un caro amico che proprio durante le riprese sentivo spesso. Lo commosse molto rivedersi in quel pezzo di vita vissuta.

Parlava di come Di Mare, mentre raccontava da giornalista la guerra nei Balcani, trovò una bambina che poi decise di adottare. 

Esatto, Stella. Io ricordo che questa storia mi colpì subito, l'ho raccontato diverse volte. Mi trovato in un hotel in attesa di entrare in scena per una premiazione e, mentre mi preparavo, c'era la Tv accesa con Mara Venier che stava intervistando una persona che raccontava questa storia incredibile. Mi affaccio e vedo Franco Di Mare in Tv, riconoscendolo solo in quel momento. Chiamai subito un produttore amico per chiedergli di comprare i diritti i quel libro per farci un film.

Beppe Fiorello e Franco Di Mare a Porta a Porta
Beppe Fiorello e Franco Di Mare a Porta a Porta

C’è stato un tempo in cui sei stato emblema della fiction italiana, come se la ricetta del successo prevedesse il tuo nome nel cast. È una cosa che hai percepito come un peso? C’è stato un momento in cui hai provato quasi a sottrarti da questa sovraesposizione?

Finalmente ho l'opportunità per raccontare questa cosa, che è sempre stata dettata da un pregiudizio e una percezione di eccessiva presenza nei palinsesti televisivi della Rai. Le accuse per la mia sovraesposizione erano figlie di una percezione sbagliata. Innanzitutto non c'erano tutte le piattaforme di oggi, molta meno offerta e io che facevo una fiction all'anno sembrava fossi sempre lì. Ma c'è da considerare anche che quei prodotti andavano bene e spesso la Rai ne replicava la messa in onda, così la sensazione che facessi tutto io aumentava. Sono passato come il solo che lavorasse, ma non era così.

Il pregiudizio di cui parli era nei tuoi confronti, o verso la fiction in generale?

Il pregiudizio è stato netto in un certo periodo storico della fiction, da metà anni Novanta in poi fino all'arrivo delle piattaforme. È sempre stato molto chiaro: se eri un attore che faceva fiction, il cinema italiano non ti faceva nemmeno avvicinare alla porta. Allo stesso tempo se facevi teatro la fiction non la facevi perché poco popolare. Insomma, ci sono stati anni di pregiudizi incrociati, non solo su di me, cosa che ha generato nicchie, ideologie artistiche. È inutile che lo si neghi, ogni tanto qualcuno ci prova, mentre sono felice di vedere che la nuova generazione di interpreti strepitosi che stanno venendo su non stia vivendo tutto questo.

Oggi è tutt'altra cosa?

Beh sì, oggi vedo colleghi e colleghe spesso a lavoro su più cose contemporaneamente, ci sono molti artisti che riescono a finirne una ed entrare in un'altra con una capacità, anche fisica, che io trovo ammirevole. È una cosa che io non avrei mai potuto fare perché ho sempre preferito non sovrapporre progetti, a discapito anche di grossi guadagni. Siccome amo più la vita del mio lavoro, ho preferito vivermi la famiglia, i miei figli, rinunciando anche a proposte importanti.

Quando si è interrotto questo pregiudizio?

Semplice, con l'avvento delle piattaforme, al fatto che gli americani non badassero all'idea che l'attore potesse fare teatro, cinema, televisione. Noi siamo sempre stati per gli steccati, ghettizzando tanta arte cinematografica.

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