Gianfranco Gallo: “In quarant’anni di carriera non mi sono mai svenduto”
"Mai Domo" è la frase che Gianfranco Gallo ha scelto di tatuarsi sul braccio. Una frase che dice molto di lui, dell'amore per il teatro e per il cinema, del suo carattere anche spigoloso, sempre ostinato, meticoloso nel tentativo di non omologarsi e di portare avanti la sua drammaturgia. La sua è una ricerca oltre la tradizione; fare un punto di forza della napoletanità per scoprire cosa viene dopo, senza ammantarsene come se fosse la coperta di Linus. In occasione del ritorno al Trianon Viviani con "Captivo", lo spettacolo da lui scritto, diretto e interpretato in scena venerdì 20 e sabato 21 maggio, alle 21, e domenica 22 maggio, ore 18, Gianfranco Gallo si racconta a Fanpage.it a tutto tondo.
Il teatro e il cinema, ma anche lo stato di salute della città dopo le violenze dei giorni scorsi: "La scollatura sociale si è acuita, più che dare colpa a qualcuno bisogna capire cosa si deve fare per cambiare". E la comicità napoletana: "Massimo Troisi ci faceva capire che nel mondo c'era anche Napoli e tutto diventava più grande. Oggi fanno il contrario, oggi è Napoli nel mondo e tutto diventa più piccolo". Sulla crisi delle sale: "Perché non ci sono i cinema pubblici, così come esistono i teatri pubblici?". E su Massimiliano Gallo, suo fratello: "Lo sanno tutti che non abbiamo più rapporti. Diciamo che siamo in linea con gli altri fratelli d'arte napoletani, dai De Filippo ai Giuffrè".
Gianfranco, che spettacolo è Captivo?
Lo spettacolo è un legame tra vari autori e musicisti intorno a un tema. È un’operazione a metà tra il cinema e il teatro, che ho già provato a fare nel 2011 con “Donne nei cerchi di gesso”. Si chiama “Captivo” perché accosto il significato dal latino “prigioniero” al nostro “cattivo”.
Qual è il tema centrale?
La violenza. Tutto è scaturito da un fatto di cronaca, il pestaggio a morte di Willy Monteiro Duarte senza alcun motivo. In “Captivo” ho fatto questo tipo di lavoro: ho ricercato i testi più importanti della drammaturgia, quelli veicolati da una leggerezza che in realtà non c’è. Pensiamo, per esempio, a Raffaele Viviani e alla sua “A retena de' scugnizze” oppure a “'O carro de' bazzariote”. Sono canzoni che parlano di violenza, ma sono state veicolate da musichette allegre, da caratterizzazioni che hanno esaltato l’umorismo piuttosto che il significato del testo.
Quali sono gli altri testi che usi?
Parto da Stanley Kubrick, dalla sua visione di “Arancia Meccanica” (la popolare trasposizione cinematografica del romanzo di Anthony Burgess, ndr) e poi c’è Shakespeare, recito Shylock de “Il mercante di Venezia”. C’è anche “De Pretore Vincenzo” di Eduardo. “Captivo” è un excursus sulla mia sensibilità stimolata dal ragionamento sulla cattiveria e sulla schiavitù, anche dell’essere parte di una comunità anche come quella napoletana. Mi servo, però, della tradizione per scavalcarla e provare a gettare le reti nel futuro: una “oltradizione”.
Si è riaccesa la violenza a Napoli, questa volta però è diverso. È una violenza ‘urbana'. Che idea ti sei fatto?
Il discorso sulla violenza io lo ingrandirei sulla società, dove la disparità è generale e produce conflitto. Napoli, però, vive la violenza a modo suo. Perché noi qui abbiamo dei modelli che altrove non ci sono. Abbiamo un vissuto di malavita che si tramanda e si genera attraverso la legge del più forte, attraverso la prevaricazione continua. Quelli che lo fanno, chiaramente, sono quelli che hanno meno degli altri. Se io non ho niente, l’unico modo che ho per ottenere qualcosa, è la violenza.
La colpa di chi è?
Più che dare colpe, bisogna capire che cosa si deve fare. La scollatura sociale si è acuita. Io ho frequentato tanti centri sociali, parlo regolarmente coi ragazzi in difficoltà e quello che ho visto coi miei occhi e che questi ragazzi vengono presi prima di tutto tardi, a 13, 14 anni. Ma la cosa più grave è che il progetto sociale a 18 anni finisce. Non c’è una vera tutela. Allora bisogna ripartire e lavorare per cercare di migliorare le cose da qui ai prossimi vent'anni.
Come sta la comicità a Napoli?
Massimo Troisi ci ha dimostrato che possiamo parlare del mondo nel quale c’è Napoli, così tutto si fa più grande e più nobile. Oggi si parla di Napoli come mondo ed è tutto più piccolo. Quello che i ragazzi oggi purtroppo non riescono a capire, perché non hanno esempi, è che la tradizione non è chiudersi nello stereotipo, ma è esattamente il contrario. Questo è quello che sta mancando nella comicità.
Parli di Made in Sud?
Non parlo di Made in Sud, anche se li vedo perché mi piace capire prima di esprimere un giudizio. Ho notato che alla fine dei loro sketch riconducono tutto a Napoli, al modo di essere napoletano ed è la cosa più sbagliata da fare. Non funziona più. Funziona quando tratti Napoli come parte del mondo e attraverso la tua napoletanità decodifichi il mondo. Questo è quello che non hanno capito, questo è quello che provoca un disordine negli stessi spettatori.
Parliamo di cinema. L'ultimo tuo film: "La cena perfetta".
Sono molto felice. Devo dire che è il terzo film che ho fatto con Federica Lucisano (Ricchi di fantasia e Ritorno al crimine, ndr) e questo è probabilmente il più bello. Il regista Davide Minnella è stato molto bravo perché, per esempio, ha portato Salvatore Esposito a un ruolo differente, non estrapolandolo direttamente dal contesto precedente di Gomorra. Anche il mio ruolo ha avuto grandi recensioni, sono molto contento.
Peccato per i tre giorni in sala e poi subito per le piattaforme. Sta diventando quasi una consuetudine.
Gli incassi non si fanno, a meno che non sia un film americano. Un film italiano che parte con un budget di 7-8-900 mila euro, come recupera? Un privato è normale che cerca il paracadute dello streaming. La domanda semmai va rivolta alle istituzioni. Una cosa che mi sono sempre chiesto è perché ci sono i teatri pubblici e non ci sono i cinema pubblici? Perché non c’è uno, due cinema pubblici per città? Questo aiuterebbe le produzioni, che invece sono costrette a confrontarsi solo col mercato. Però, è vero anche le piattaforme sono arrivate a una saturazione e devono trovare nuove strade. La formula di uscire con dodici puntate in un giorno sta avendo delle difficoltà. Tu bruci l’evento e ti consumi gli sponsor.
Paolo Sorrentino però ha sdoganato la piattaforma.
Paolo Sorrentino è un grande regista, tecnicamente il più grande italiano, ma è anche un grande stratega. È stato il primo a fiutare la crisi del cinema e passare dall'altra parte.
In quarant’anni di carriera, cosa ti manca ancora?
Niente, perché mi sento molto appagato. Sono uno che cammina e pensa sempre al prossimo progetto e vedo l’affetto della gente e soprattutto degli addetti ai lavori. Oggi so di avere una credibilità che non ho mai svenduto.
Essere napoletano ti ha aiutato o ti ha penalizzato?
Quando vado sui set, cerco sempre di non parlare napoletano perché voglio che non sia un limite, ma una possibilità da sfruttare. Sul set di “Luna Park”, Anna Negri, la regista, mi disse: “Gianfranco, ma tu non sei napoletano? Sei uno svizzero”. Mi sono sempre chiesto che tipo di napoletani avrà incontrato per la sua strada, perché sono semplicemente quello che sono. Ecco, penso che essere napoletani debba essere un valore, da proteggere e curare con disciplina.
La disciplina. Te l’ha insegnata tuo padre, Nunzio Gallo?
Mio padre era un uomo preciso, di grande talento, che lavorava tantissimo per migliorarsi. Io ho ereditato da lui la precisione, sicuramente, ma la mia meticolosità, la mia attenzione è un fatto istintivo, che ho creato io nel tempo. Non mi siedo mai, sperimento sempre e ho ricevuto tante soddisfazioni. Le più belle le ho avute coi colleghi più giovani.
Per esempio?
Quando alla prima di Gomorra non mi nominarono, io mi alzai e me ne andai. Successe un casino. In realtà, loro fecero delle cose fuori dal contratto. Così, io feci un post di denuncia e il giorno dopo tutti i giornali italiani avevano la notizia in prima del fatto, piuttosto che della prima di Gomorra. In quei giorni, mi scrissero tanti giovani attori che avevano partecipato a quella produzione. Mi dissero: ‘Grazie, perché tu ci insegni come si fa questo mestiere’.
Ti sei pentito di quel gesto?
Mi sono dato una zappa sui piedi, sicuramente, perché lì c’era il Gotha del cinema italiano. C'erano proprio tutti. Io però non dovevo e non devo dare conto a nessuno dei miei 40 anni di carriera.
Tuo fratello, Massimiliano…
Non recitiamo più insieme dal 2019, se non addirittura dal 2018.
È una questione che va oltre l'arte?
Certo.
Ti va di parlarne?
Guarda sono quelle cose che tu o le spieghi bene, e non è il caso, oppure è meglio non dire altro. Tanto lo sanno tutti che non abbiamo più rapporti. Possiamo fare una battuta, però.
Prego.
Ti posso dire che ci siamo messi in linea con tutti i fratelli d’arte napoletani, dai De Filippo ai Giuffrè.
I Giuffrè, però, alla fine hanno fatto pace.
Non è completamente esatto. Comunque, mai dire mai.
Tu hai una frase tatuata: MAI DOMO.
Sì, è una frase che dice tutto di me.