Gabriele Muccino: “Ho fatto un film diverso e unico, mi chiedo se sia l’ultimo per il cinema”
Gabriele Muccino torna al cinema dal 31 ottobre con il suo nuovo film Fino alla fine. È la prima opera dopo quattro anni e chi lo vedrà uscirà dalla sala con la chiara percezione di aver visto qualcosa di diverso da quello a cui il regista ci ha abituati nel corso degli anni. Il suo stile, riconoscibile come un marchio di fabbrica, si cala negli schemi di un thriller e questo è già di per sé un elemento di novità. Un'esperienza in cui il regista si è lanciato anche con una dose di incoscienza che è propria di chi è pronto a rischiare proprio come la protagonista del film, una ragazza americana in vacanza in Italia che si lascia andare ad un'avventura sentimentale fugace che si trasforma presto in un viaggio che mette in discussione tutto, persino la sua vita. E Muccino lo racconta in questa intervista a Fanpage.it.
Fino alla fine è un film che esce dal tuo stile canonico. A cosa si deve questa rottura, ammesso che lo sia?
Un po' a un'inquietudine mia. Dopo 27 anni di racconto delle dinamiche umane non ti spingi mai a guardare cosa c'è oltre, senti che stai frenando un impulso che dovresti esplorare e io ho deciso di farlo.
Cosa spinge la tua protagonista a lasciare che l'incontro con un ragazzo in vacanza diventi il presupposto per ribaltare tutto?
La natura umana è per definizione attratta dall'ignoto, dal lato oscuro, il pericolo. Se le condizioni si allineano, in questo caso l'incontro in una città lontana come Palermo, in un'estate italiana in cui ti senti più viva che mai, con ragazzi sconosciuti che ti danno la possibilità di aprirti con loro perché domani non li rivedrai, si crea una sorta di euforia, di libertà che diventa caos. Davanti a questa possibilità lei rifiuta di tirarsi indietro.
Perché?
Perché, come il film semina dall'inizio, lei è una ragazza che non sta bene con se stessa. Si intuisce che ha già tentato un suicidio e questa cosa che le capita la invita a giocare con se stessa e con la vita in un modo che non aveva mai trovato occasione di sperimentare. Diventa una sorta di roulette russa che fa con se stessa. Diventa anche coraggiosa in virtù del fatto che lei, secondo me, è pronta a morire pur di vivere.
Questa imprudenza che la protagonista del film abbraccia, propria della giovinezza in cui si rischia l'errore per dare un senso a quel tempo, si può accostare allo spirito con cui tu hai deciso di fare un film lontano dai tuoi stilemi?
Sì, forse anche io come lei volevo sfidare me stesso. Questo film è un'operazione rischiosa, che ha una voglia di rimettere in gioco tutto e il pericolo fa parte di questa operazione. Avrei potuto fare un'altra stagione di A Casa Tutti Bene, un altro film sulle relazioni di coppia, però sentivo di averlo già fatte, in vari modi. Mi andava di cambiare il gioco sul tavolo. L'ho fatto senza paura del giudizio. Chiaro che a ridosso dell'uscita del film fai i conti con la realtà, ma girare questo film in modo così sperimentale è stato meraviglioso.
Una sperimentazione prima di tutto linguistica. I protagonisti interagiscono in un misto di italiano e inglese e tu, per evitare il doppiaggio, hai deciso di girare praticamente le stesse scene in entrambe le lingue, montando due film differenti. Lo hai raccontato anche sui social, mettendo a confronto le immagini.
Un'esperienza incredibile, unica direi. Al cinema in pochissimi avevano fatto cose di questo tipo prima di me, è un'operazione molto complessa. La scoperta più strabiliante è vedere quanto i due film siano quasi uno il clone dell'altro. Due film in cui però il linguaggio del corpo cambia perché cambia la lingua, l'espressione e quindi il modo di stare al mondo. Sono due film diversi eppure, al contempo, lo stesso film.
Una cosa importante se si considera che nel dibattito cinematografico di oggi si parla molto del fatto che fra qualche anno, grazie all'intelligenza artificiale, potrebbe non esserci più il bisogno di doppiaggi e sottotitoli.
Accadrà molto presto, noi siamo forse l'ultimo colpo di coda di un'esperienza fisica e analogica pura, perché in realtà ci sono già software in grado di doppiare le voci e mutarle in altre lingue. È ancora una fase sperimentale, ma per come avanza la tecnologia ciò che era sperimentale sei mesi fa diventa operativo in pochissimo tempo. Non mi sorprenderei se il mio prossimo film venisse doppiato in tutte le lingue del mondo con la stessa voce degli attori in scena. Quello che sta accadendo nelle nostre app sul telefono è la punta dell'iceberg di quanto è stato già sperimentato. Penso a Face App, che io utilizzai per ringiovanire nella serie A Casa Tutti Bene i volti di alcuni attori, mentre pochi mesi dopo c'era un software che ringiovaniva con l'intelligenza artificiale, modificando dettagli in modo molto più profondo. Pensiamo ad Avatar, c'erano macchine da presa minuscole davanti al viso, i punti i verdi, quello è già trapassato remoto.
Non è l'unico esperimento. Nelle scene d'azione in auto lo spettatore si trova letteralmente al centro di quello che accade.
Con un prototipo abbiamo trovato il modo di far viaggiare un'automobile nel cuore di Palermo, guidata da un pilota che stava sul tettuccio, ma allo stesso tempo siamo riusciti a mettere una macchina da presa autonoma, senza operatore, all'interno del veicolo, facendola avanzare con una slitta tra i sedili e farla ruotare a 360 gradi per far vedere al contempo la strada esterna e i volti dei ragazzi in macchina.
L'impatto della tecnologia sul cinema viene visto come uno spauracchio da alcuni, mentre c'è chi vede grandi risorse potenziali. Tu che idea hai?
Può essere una risorsa enorme. Se io dovessi fare oggi un film sulla costruzione del Colosseo, avrei molta più facilità ad immaginarlo senza il rischio di avere il risultato limitato che avrei avuto 15 anni fa, spendendo molto di più. Oggi si possono pensare cose che una volta costavano tantissimo, ad un costo relativamente basso ed anche in tempi molto ridotti. Il cinema, che per definizione è una macchina del tempo e dello spazio, questa cosa la esplorerà esponenzialmente.
Se l'esperienza di realizzazione di questo film è stata per te così appagante, quanto peserà il risultato? Parlo di botteghino e critiche.
Le due cose vanno sempre insieme. L'esperienza umana, che è collettiva e non solo mia, è parte integrante delle energie e temperature di una scena. Questo è un film che si basa su dei tiranti adrenalinici e tensivi, al posto delle grida e delle litigate che spesso hanno caratterizzato il mio racconto, c'è una lotta primaria per la sopravvivenza. Non so quanto allo spettatore sembrerà un cambio drastico di rotta, ma per me è prosecuzione di un uso della macchina da presa dinamico che ho sempre adottato.
Hai scelto di fare un thriller. Banalmente, per la prima volta nei tuoi film si vede sangue e a me sembra abbastanza significativo.
È vero, io ho sempre avuto un certo pudore per il sangue, forse per una questione borghese. Nella mia vita e carriera non ho mai avuto attrazione per il lato oscuro, per il vizio del gioco, le droghe, mi sono sempre concentrato sulle relazioni umane. In fondo, però, siamo tutti figli di cacciatori e guerrieri, costruiti per sopravvivere in certe circostanze, fuggendo o combattendo, andando a cercare dentro di noi il seme primario della lotta per la vita. L'ho innestato in questa storia che si rifà, come concetto, a Fuori Orario di Scorsese, ma si reinventa al giorno d'oggi. Che poi è un giorno senza tempo, visto che questi ragazzi sembrano quasi senza età e vivere in qualsiasi tempo. Se non ci fossero quelle due telefonate i device quasi non si vedrebbero, è tutto fisico e verbalizzato.
Il cinema sta cambiando soprattutto perché è cambiato l'atto dello spettatore, il gesto di andare sala come parte dell'esperienza. Quanto questo tema è presente nei discorsi di chi i film li fa?
Per chi fa il mio mestiere è fonte di preoccupazione e spaesamento. Le cose sono diventate faticosissime e tutto è cambiato in un tempo brevissimo. Fino al 2020, quando ho fatto il mio ultimo film, il sistema si sosteneva su una sorta di logistica che era stata collaudata per decenni.
È "colpa" delle piattaforme, si dice. È così?
Non so se sia una colpa, ma sicuramente le piattaforme hanno corrotto il sistema cinema, hanno impigrito il pubblico viziandolo a vedere anche 3 o 4 episodi di una serie che corrispondono a ore e ore di contenuto, un confronto che il cinema non può permettersi. Se fai un film più lungo di due ore condizioni tutta la programmazione in una sala, banalmente se vai oltre le due c'è spazio per uno spettacolo in meno nella giornata, hai limiti narrativi che per una serie, o comunque un film destinato alle piattaforme, non hai. È un momento molto straniante per chi fa questo mestiere, sai che comunque si faranno sempre film, ma ti chiedi continuamente quanti film farai ancora per il cinema.
Ti sei chiesto se questo possa essere il tuo ultimo film in senso tradizionale?
Certo, me lo sono chiesto più volte. Anche perché per la mia serie ho lavorato in piena libertà artistica, raccontando anche una storia molto personale, senza sentire la pressione dei numeri perché con l'on demand ci sono tutti altri criteri. Non solo lo spettatore si è impigrito, forse è successo anche a chi fa questo lavoro.
D'altronde il cambiamento fa paura.
Pensare che un film si veda sul telefonino fa venire la pelle d'oca, devi accettare però che i tempi stiano mutando e se non riesci a cavalcare questo mutamento, accade quello che accadde nel passaggio tra cinema muto e sonoro. Chi non lo accettò rimase senza lavoro, star come Buster Keaton finirono i loro giorni in miseria, in una roulotte, mentre altri come Chaplin riuscirono a fare quel salto. Questi cambiamenti ci sono sempre stati e gestirli non è semplice.
Tra le questioni sulle quali ti sei speso di recente c’è stato il tax credit, la misura a sostegno di produzioni dinematografiche e seriali limitata dall'attuale governo. Hai detto che è stato messo in ginocchio il sistema.
Ho fatto un post specificando, come forse non era mai stato fatto, quale fosse il meccanismo reale e in che modo funzionasse. Per come veniva raccontata dai politici di questo governo pareva che noi rubassimo i soldi dei contribuenti, una roba allucinante per il tipo di propaganda fatta.
Di pronta risposta c’è chi in parlamento ha ironizzato su questa polemica, sostanzialmente deridendo chi critica le nuove misure e sottolineando gli scarsi risultati di alcuni film sostenuti con quella legge. Cosa ci dice questa reazione?
In una nazione che ha quasi reinventato il cinema, sentire che tutto sia ridotto a un dibattito così puerile e superficiale fa abbastanza male. Anche perché il risultato reale è che tutti gli americani che fino a un anno fa venivano a girare in Italia, oggi sono in Spagna, in Grecia. Molti paesi hanno sviluppato un tax credit basato sul nostro modello, che tra l'altro era nato durante il periodo del Covid e destinato ad essere ricalibrato una volta passata la tempesta. Come me migliaia di lavoratori dello spettacolo hanno potuto girare e lavorare, creando contenuti per piattaforme che a loro volta avevano un indotto importante. Questa cosa si chiama industria, si parla di aver tolto posti di lavoro e indebolito il sistema. Non so come sia oggi nello specifico, forse qualcosa si sta sistemando, ma i danni provocati sono enormi. Conosco persone che prima dovevi bloccare con sei mesi d'anticipo e oggi sono a casa disoccupate. Il tutto provocato da una propaganda, una semina ideologica che con il cinema ha poco a che fare.
In questi giorni hai raccontato che fare il regista è stato per te un atto di ribellione, accompagnato da una certa disapprovazione dei tuoi genitori. Come hai vissuto la scelta di tuo figlio Ilan di percorrere la strada dell’arte?
Avrei voluto che Ilan studiasse un po' di più, ma si è voluto lanciare nel contenitore di Amici e mi auguro che gli vada benissimo. Il mondo della musica è terribilmente cinico, un ambito in cui si spremono artisti giovani e impreparati in modo crudele, quindi la vita d'artista va preparata con grande rigore e disciplina. Spero lui sia pronto sotto questo punto di vista, perché è un mondo spietato.
Per te come è stato quando hai scelto questa strada?
Io ricordo me a 18 anni col desiderio di fare il regista, ma terrorizzato dal fallimento. Ho fatto un lavoro enorme per imparare questo mestiere e trovare un mio linguaggio. Mi imponevo una disciplina e un rigore che suggerisco a tutti i miei figli, non solo a Ilan.
Quella paura del fallimento ha smesso di inseguirti a un certo punto?
Il terrore di sbagliare non smette mai di accompagnarti e forse è un buon compagno di viaggio. Anzi, se non c'è mi preoccupa, quando ho fatto dei film che credevo più semplici, sono riusciti meno bene. Ho bisogno di adrenalina perché quando ci sono queste condizioni i film vengono sempre meglio. Se ne faccio uno in cui sento che tutto sarà facile, in realtà sto sbagliando.