Francesco Di Leva: “La violenza prima che fisica è psicologica. Di Franco Celeste ho voluto cancellare ogni cosa”
Francesco Di Leva è uno di quegli attori che, difficilmente, si può dimenticare di aver visto, perché ha un modo tutto suo di conquistare la scena, di attirare a sé lo spettatore. Più di 25 anni fa, per la prima volta, ha messo piede su un palcoscenico e non ne è mai più sceso; ha interpretato i ruoli più sfaccettati, raccontando la sua Napoli in misure e tempi diversi, dandosi il tempo di maturare sulla scena.
Nel 2023 ha vinto il David di Donatello come migliore attore non protagonista per Nostalgia di Mario Martone: "Un onore per me, tra quelli che ho fatto, non poteva esserci film migliore con cui vincerlo". Ora, invece, si ritrova a dare corpo e voce ad un uomo violento, un padre che ha minato per sempre la vita dei suoi figli, in Familia, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti, in cui si racconta la violenza, anche quella assistita, come spiega in questa intervista. Lo vedremo presto in nuovi progetti, da Nottefonda il primo film realizzato con il suo NEST, e Il treno dei bambini.
Familia, un film che permette di affondare lo sguardo in una storia vera, facendoci capire da subito che si va oltre la sceneggiatura.
È un film che affonda le mani in una storia vera, ma non solo, racconta quello che accade quotidianamente all'interno di alcune famiglie. Vicende che siamo abituati a sentire, troppo spesso, sappiamo di numeri allarmanti di violenze. Questo film si pone l'obiettivo di aprire un dibattito, di entrare nelle mura domestiche per far capire quanto l'essere umano possa essere vulnerabile e quanto, allo stesso tempo, la mente sia in grado di sostenere tragedie come quelle avvenute alla famiglia Celeste.
Franco Celeste è un uomo che prima ancora di essere violento, è un manipolatore. La violenza psicologica è però difficile da individuare e anche il comportamento del tuo personaggio lo dimostra.
È molto difficile. Il lavoro più bello che è stato fatto sul personaggio, è quello sulla sua psiche. Abbiamo lavorato affinché si capisse che non si trattava solamente della violenza determinata dallo schiaffo, dalla minaccia, ma si parla di poter riconoscere alcuni segnali specifici, che appartengono ad una mente malata come quella di Franco Celeste. Lui confonde la possessività con la gelosia. Ha instaurato una relazione in cui chiede una costante attenzione e non capisce, davvero, quale sia la differenza tra possesso e amore.
Cosa gli impediva di fare questa distinzione?
Non aveva gli strumenti culturali per affrontare un problema di questo tipo. Per fortuna sono passati anni da quanto è accaduto alla famiglia Celeste, sono cambiate le leggi, è stata introdotta quella sullo stalking. Franco era uno stalker e l'approccio delle forze dell'ordine sulla tematica si è modificato, è stato un passo fondamentale.
Franco, però, nonostante sia il carnefice della storia si pone come vittima, soprattutto nell'incontro con suo figlio Luigi.
È una strategia, anche inconsapevole, che adottano i narcisisti d'amore, i manipolatori affettivi. È una persona che prova a vestirsi da vittima, ed è tipico di coloro che hanno questi disturbi, colpevolizzano i partner per tutto ciò che accade, in famiglia incolpa sua moglie, i figli, dicendogli: "Non mi capite". In quegli anni lui compie una serie di azioni dannose, lesive. Segue la moglie, cerca di riavvicinarla e ci riesce.
Punta però sull'anello più suscettibile della famiglia, per ottenere ciò che vuole.
Il suo centro era la moglie, però bisogna fare una premessa: non tutte le persone nascono cattive. Il background culturale influisce molto. Dove hai vissuto, che famiglia hai avuto e non per difendere il personaggio, che resta indifendibile, ma per spiegare che alcuni cambiamenti prova davvero a metterli in atto. Alle volte è una strategia, ma spesso l'aspetto strategico delle sue azioni è letto in questo modo da chi guarda la storia in maniera razionale. Lui è convinto che sua moglie in 40 minuti lo stia tradendo, si autoconvince delle sue idee. Per un momento, magari, pensa anche di poter migliorare.
Un uomo come Franco Celeste, se avesse avuto un supporto psicologico, avrebbe agito diversamente?
Da uomo che ha affrontato la vita in maniera differente da Franco, mi sono chiesto: e se fosse stato aiutato? In un film di questo tipo, con un storia del genere, è difficile pensare che un supporto avrebbe potuto cambiare le cose, però facendo una riflessione più ampia, se ci sono le condizioni per aiutare qualcuno, anche in carcere, sempre che la persona voglia essere aiutata, magari ci sono margini di cambiamento. Nel caso di Franco, lo vediamo diffondere terrore, nel pieno della sua strategia manipolatrice, con un comportamento ossessivo nei confronti della famiglia, mette in atto quella che oggi conosciamo come violenza assistita. All'epoca, se anche qualcuno si fosse accorto di quanto stava accadendo, non c'erano gli strumenti necessari per potergli dire: "Fatti aiutare".
Qual è la storia di Franco Celeste?
Nel film la storia è ambientata nella periferia romana, nella realtà era quella milanese, si parla comunque di zone che più di vent'anni fa erano ai margini. Franco veniva da Secondigliano, dove c'era una certa mentalità, viziata dalla camorra, era uno che aveva già commesso illeciti. Infatti non va in carcere solo per quello che fa a sua moglie, ma anche per altre ragioni. Questo ha a che fare con il retaggio culturale di una persona.
È inevitabile che certi ruoli lascino lo strascico di qualcosa, pur senza giustificare i personaggi. Hai avuto modo di riflettere anche sul tuo ruolo di padre?
Non ho portato nulla con me di questo ruolo, ed è stata una delle poche volte in cui è successo. L'ho lasciato nel camerino, la sera stessa in cui abbiamo finito di girare. Lavorando tutti i giorni otto, dieci ore sul set, fai fatica a scrollarti di dosso le ferite, quello che hai dovuto portare in scena, i danni fatti ad una famiglia. È stata una fortuna per me sapere di non dover condividere nulla con un personaggio del genere. Ho riflettuto molto sul riconoscere quanto sono fortunato, quanto la mia famiglia sia fortunata perché si è costruita su altri valori, si parla, si discute di tutto. È difficile al giorno d'oggi essere genitori, perché devi poter crescere i tuoi figli in maniera sana, con rispetto.
E tu, da figlio, pensi di essere stato fortunato?
Anche io sono stato fortunato, mi hanno insegnato la libertà, o almeno mi hanno insegnato a cercarla.
Da anni ormai hai fondato e gestisci il NEST, potresti definirti il padre artistico dei ragazzi che frequentano la tua compagnia.
Sì, certo, ma diciamo che sono loro a riconoscermi come tale. È un'esperienza collettiva, non singola, poi ci sono varie personalità che emergono a seconda di alcuni progetti.
Quando avete iniziato, immaginavi avreste avuto questo riscontro, diventando un punto di riferimento culturale sul territorio?
Era un sogno, completamente inaspettato, un sogno partito anche da un'esigenza egoistica. L'idea di creare e produrre arte è una cosa bella e già andrebbe bene così, farlo in un posto che è diventato poi un polo culturale, come qualcuno l'ha definito, è diventata una cosa grande. Le cose partono in maniera semplice e poi diventano giganti quando tu ci metti amore, passione, onestà.
Chi è stata la prima persona in grado di vedere in te un talento, una predisposizione alla recitazione?
Ciro Zinno. Era un maestro di strada, un artista, tutt'oggi un bravo attore, che non ha voluto poi proseguire la sua carriera. Faceva dei pon nelle scuole, ha intravisto questo talento che, per me, poteva rivelarsi una forma di salvezza. Sono sempre stato uno scugnizzo, mai un delinquente, ma la recitazione poteva portarmi lontano da certi ambienti. Iniziai in una compagnia di San Giorgio a Cremano, divenne una famiglia, mi faceva stare bene. Io ero un po' più allegro degli altri, volevo stare al centro dell'attenzione, volevo il mio spazio nel mondo, lui l'ha capito e ha visto nel palco il mio destino.
Un destino che ti ha portato al David di Donatello per Nostalgia di Mario Martone.
Un onore per me, Mario mi ha dato l'opportunità di essere l'attore che sono oggi.
Tanto cinema, poi arriva la tv con l'Avvocato Malinconico, in cui interpreti un ruolo divertente, diverso dal solito. Ti piacerebbe assecondare, prossimamente, questo tuo lato leggero?
Qualcosina l'ho fatta anche a teatro, portando Premiata Pasticceria Bellavista di Vincenzo Salemme che è una commedia divertentissima. Sono uno a cui piace divertirsi, a volte non si possono scegliere i progetti, spesso ti chiamano, ma adesso che c'è più possibilità di scambiare opinioni con i registi, provo anche a buttare delle esche. In realtà anche per Malinconico mi hanno chiamato, conoscendo la mia vena comica l'ho messa al servizio di questo progetto e pare che funzioni molto.
Qual è la cosa di cui sei più grato da quando hai iniziato a fare l'attore?
Gli incontri. Ho incontrato tante persone che hanno tentato di deviare la mia strada parlandomi di arte, ma non era arte; poi ne ho incontrate tantissime altre, che mi hanno dato la possibilità di migliorarmi. Se guardo a quello ero, perché io nasco panettiere a San Giovanni a Teduccio, mi dico che questa mia crescita culturale e personale, questa apertura, mi ha permesso di continuare a cercare la libertà, ancora adesso a 45 anni, ed è il valore più grande che ho.