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Flavio Furno: “In passato credevo di non avere il fisico giusto per questo mestiere, ora so di avere talento”

Intervista a Flavio Furno, l’attore 38enne interpreta Giuseppe Bottai nella miniserie su Guglielmo Marconi in onda su Rai1. Tanti i ruoli ricoperti in una carriera densa, che gli ha portato la consapevolezza che il talento va costruito e che la fragilità è un qualcosa che non bisogna avere timore di mostrare.
A cura di Ilaria Costabile
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Quando raggiungo al telefono Flavio Furno la prima cosa che avverto dalla voce è l'entusiasmo, vero, quasi tangibile, del parlare del suo lavoro che, come spesso accade, è anche la sua più grande passione. Napoletano, anche se non molti ne sono a conoscenza, in quasi vent'anni di carriera, a soli 38 anni, ha dimostrato di essere un attore versatile, brillante, in grado di cambiare registri, volti, toni, intrecciando la sua vita con quella dei personaggi a cui ha dato respiro sulla scena: dalla tv al cinema, passando dalla fiction al Sol dell'Avvenire di Nanni Moretti. Il 20 e 21 maggio lo vediamo in Marconi, la miniserie su Rai1 in cui interpreta Giuseppe Bottai: "Forse il primo ruolo da cattivo che interpreto in una produzione italiana" in Olanda, infatti, in una serie di successo ha interpretato un mafioso cocainomane. In questa intervista Furno si racconta, parlando delle luci, ma anche delle ombre di un mestiere che ha scelto con tutto se stesso, della possibilità di guardare lontano, fiero di un percorso che gli ha permesso di forgiare la sua persona, ma soprattutto il suo talento.

Interpreti Giuseppe Bottai, che ruolo ha nel rapporto con Marconi in questa serie?

Bottai è stato il Ministro della Cultura durante il Fascismo, aveva favorito artisti indipendentemente dalla fazione politica, era un intellettuale, eppure pare ci fosse una certa rivalità con Marconi. In questo film c'è una sorta di licenza poetica, perché viene utilizzato come antagonista. Prova a screditare la figura di Marconi perché non crede che stia davvero lavorando ad una possibile arma di distruzione di cui il regime poteva vantarsi, in caso di un'eventuale Seconda Guerra Mondiale. Lo considera uno sfruttatore, uno che si sa muovere dentro le stanze del potere, bravo ad avere finanziamenti. È come se la sua figura fosse funzionale alla spy story che sottende questo progetto.

Una rivalità che si vede già nella prima scena in cui c'è uno scontro verbale, seppur elegante. 

C'è un botta e risposta di fioretto. Stiamo parlando di un ministro, uno degli uomini più potenti in quel momento, uomo di fiducia del Duce, dall'altro lato c'è l'uomo più famoso della storia di quegli anni. Anche la rivalità personale si esprime con lucidità, intelligenza e cultura. Diventa una questione linguistica. Nella prima scena Marconi corregge Bottai che usa il termine "comandare " la ricerca scientifica, mentre lui dice "coordinare", perché quello che ha sempre chiesto è l'indipendenza, ciò che il regime teme perché si scardinerebbe dal modello bellico. Ora che ci penso, è la prima volta che mi danno un ruolo da vero antagonista.

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Pensi di essere uno di quegli attori che viene incasellato sempre nello stesso ruolo?

Credo si tratti di un sistema che appartiene al cinema italiano, è una tendenza. Ti vedono fare qualcosa in cui funzioni e quindi c'è una pigrizia nel mischiare le carte, ma in anni che faccio questo mestiere ho fatto davvero tante cose diverse, di cui sono contento. Ho spaziato, mi sono divertito, non sono mai stato associato ad un progetto, ed è una libertà, perché potresti essere ingabbiato.

Il fatto di non avere l'omrba di un progetto alle spalle, che condiziona anche quelli futuri, in effetti sgrava di un peso. 

Tra le varie insidie di questo lavoro, probabilmente, questa è quella che mi spaventa di più, ma so di averla scampata. Per fortuna o per sfortuna, non sono più un attore emergente. La popolarità, intesa come il fatto che il tuo personaggio funziona all'interno di un progetto che piace tanto, può portare il pubblico a proiettare su di te delle aspettative, come se tu rappresentassi qualcosa che, però, non è detto che ti appartenga davvero. Ho visto molti colleghi e colleghe in difficoltà nel dover compiacere un'aspettativa, magari ti affibbiano il ruolo del sex symbol o dell'intellettuale, che rischia di mischiarsi con la tua vita personale. È per questo che un attore dovrebbe cercare di variare il più possibile, deve provare a non fare cose che siano uguali l'una all'altra. La mia condanna, finora, di non aver mai fatto il protagonista assoluto, è anche la mia libertà.

In un'intervista, parlando di È stata la mano di Dio, hai fatto una considerazione su Teresa Saponangelo, dicendo che ti chiedevi quando sarebbe esplosa vista la sua bravura. È una considerazione che rivolgi anche a te stesso?

Sì, ma non con la stessa lucidità con cui lo si fa con gli altri, perché guardarsi è diverso. Questo mestiere è difficile, bellissimo sotto tanti punti di vista, non mi lamenterò mai perché mi sento fortunatissimo, però ci sono vari livelli di complessità. Per alcuni la disoccupazione o l'occupazione, per altri la possibilità di avere ruoli interessanti, di vincere premi, per altri guadagnare soldi. Nelle mia intermittenza, nei momenti in cui sento che stanno accadendo un miliardo di cose e altri in cui mi sento più abbattuto, provo ad avere una visione lunga, non laterale.

Ovvero?

Se guardi quello che accade accanto a te rischi di perderti, entri nel tunnel del "perché quello sì e io no", ma se vuoi fare l'attore per tutta la vita devi puntare ad avere una visione verticale. Nel lungo raggio le regole cambiano completamente.

Ti sei prefissato degli obiettivi quando hai iniziato a fare questo lavoro?

Sì, me li sono prefissati molto, molto alti. Ho sempre spostato questo tempo in avanti, nel farlo mi sono fidato delle persone che ho fatto restare nella mia vita, che nei momenti in cui mi abbatto, avendo anche l'autorità per farlo, mi fanno ricredere. Ci sono degli attori in cui mi sono molto identificato, quando vedo che gli viene riconosciuto, anche se con ritardo, il loro talento, sono molto felice. Non è un caso che io e Teresa (Saponangelo ndr.) ci siamo trovati a lavorare insieme. Lei ha fatto proprio il mio nome, e per me è stato come un premio, tra colleghi non è scontato che ci sia questa solidarietà.

Come è accaduto, quindi, che facesse il tuo nome?

Ci siamo incontrati sul set della serie sul Generale Dalla Chiesa, tre giorni su sei mesi di riprese, perché i nostri filoni narrativi non si incontravano così spesso, ed è subito scattata un'affinità, è stato come riconoscersi. Dopo qualche tempo, mi è arrivata la chiamata di una produzione, dove il regista Carmine Elia, mi dice chiaramente "Sei qui perché Teresa Saponangelo mi ha rotto i cogl**oni". Alla fine, però, dopo avermi conosciuto e provinato mi ha preso davvero.

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Chi è stata la prima persona che ha riconosciuto in te quella scintilla: il talento?

Luca Ribuoli. Ero veramente piccolo, mi prese senza provino, per una serie della Rai che piacque tantissimo, ma fu sfortunata, perché andò in onda durante un cambio di vertici dell'azienda e il nuovo direttore non voleva più fare prodotti in costume. Si chiamava Grand Hotel. Lui aveva individuato una squadra di giovani attori molto talentuosi. Mi chiamò per dirmi di presentarmi sul set, pensavo si dovesse fare il provino, invece mi aveva scelto dandomi un ruolo enorme. Ma anche Carmine Elia, in questa serie per Netflix, mi ha dato il ruolo maschile principale, forse è la prima volta in cui sono davvero così protagonista.

Quanto sei autocritico?

Tantissimo, sono molto severo. Non mi piace rivedermi, ma ci sto lavorando, spendendo molti soldi a settimana (ride ndr.)

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È un modo per dire che hai iniziato un percorso?

Il percorso l'ho iniziato un po' di tempo fa, ma adesso è uno nuovo, c'è bisogno di cambiare approccio.

Cos'è che temi nel rivederti? Il tuo giudizio, il fatto di non essere riuscito a realizzare quella cosa come avresti voluto o altro?

È una questione piuttosto delicata per me. È un mestiere in cui per quanto autocontrollo, autostima e sicurezza tu possa avere, è comunque relegato al giudizio esterno. È una pratica quotidiana, che vivi durante i provini, quando nei fai quattro o cinque al mese. Ti senti dire che vai bene o meno per cose che non hanno nulla a che vedere col talento, ma col fatto che tu sia troppo alto o basso, non abbastanza bello, non abbastanza sexy. Poi c'è il giorno in cui è completamente l'opposto. Su di me questa cosa ha esercitato una pressione, per tanto tempo ho creduto di non essere giusto fisicamente, ma era una percezione distorta che avevo di me stesso. Faccio ancora fatica a rivedermi, preferisco farlo quando mi riconosco poco.

E su cosa hai lavorato e stai lavorando per stemperare questa pressione?

Sulla percezione che ho di me, sull'autostima, su quanto il peso del giudizio esterno non debba incidere su quello che ho di me stesso. Potrà sembrare presuntuoso, ma so di avere talento, ed è per questo che non ho mai mollato. Mi è stato riconosciuto prima che ne avessi percezione, ma adesso lo so e so anche che i produttori vogliono attori capaci. Per fare le cose belle, ci vogliono gli attori bravi.

A questo proposito, non sono pochi gli attori che lamentano il fatto che ci sia un ‘circoletto', sostenendo che sono pochi gli attori che lavorano sempre. Credi sia una questione dettata dalla pigrizia di cui parlavamo prima o è mancanza di coraggio nell'investire su volti nuovi?

Sono vere un po' tutte le risposte. Se domani dovessi fare un film da regista le prime persone che mi verrebbero in mente sarebbero quelle che stimo, è un meccanismo naturale, soprattutto quando sai di dover fare una cosa complessa come un film, perché la verità è che spesso non si ha la percezione di quanto sia difficile realizzare un film. Ma è altrettanto vero che c'è una pigrizia generale, non si vuole rischiare che anche un solo spettatore venga meno. Poi accade anche un'altra cosa.

Che cosa?

Imporre una propria personalità è quello a cui un attore dovrebbe pensare. A volte ci facciamo influenzare dal fatto di non essere abbastanza "fighi", ma io voglio essere credibile, voglio fare cose per le quali vengo valorizzato in quella che è stata la mia scelta: recitare. Non mi interessa essere un cartonato. È vero, poi, che c'è un momento in cui anche fisicamente riesci ad emanare l'energia che hai dentro, ed è un qualcosa di molto comunicativo. Ci sono doti che ti fanno apprezzare subito, poi ci sono anche percorsi più lunghi, io sono contento del mio percorso perché so che qualora dovesse arrivare un riconoscimento, grande, ci arriverò con una certa consapevolezza.

Temi che qualora dovesse arrivare questo grande riconoscimento da parte del pubblico, possa diventare anche una forma di dipendenza?

No, perché ho sempre pensato potesse essere la conseguenza diretta o indiretta del fatto che io fossi riuscito a fare quello che volevo fare nella vita, ma non è mai stato il mio obiettivo.

L'attore è uno di quei mestieri in cui si è costantemente a contatto con se stessi. Cosa hai imparato di te che non sapevi?

Non saprei dirlo, perché il lavoro e la vita privata spesso tendono ad impastarsi. Molti aspetti del mio carattere sono stati forgiati da questo mestiere, sono stato estremamente polemico, tendevo ad essere leader, predominante, invece il cinema e ancor prima il teatro, mi hanno insegnato a stare in squadra. Ho capito che tu hai una funzione e ognuno deve contribuire facendo al meglio la propria parte. Ha limato una forte insicurezza, ma allo stesso tempo mi ha fatto capire quanto sia importante far emergere le proprie fragilità.

Tra i tuoi desideri hai detto che c'era quello di tornare a Napoli, desiderio che sei riuscito a realizzare. 

L'ho detto e poco dopo è successo, come si dice a Napoli, me la sono chiamata. Sono tornato a girare a Napoli dopo tantissimo tempo ed è stato bellissimo, mi sono riappropriato di una parte della città che non avevo vissuto, venendo io dalla periferia, da Ponticelli. Ho visto un'energia meravigliosa, c'erano almeno sette film, contemporaneamente, la sera ti incontravi nei vicoli del centro storico con gli attori delle altre produzioni ed era un'atmosfera bellissima. L'ho trovata molto accogliente.

Un film che credi abbia raccontato bene Napoli. 

Quando si sceglie di raccontare una città così complessa e stratificata come Napoli, parlare di una cosa cosa è più facile, sia produttivamente che narrativamente, ma così non ne afferri la complessità. Però penso che un film che sia riuscito a racchiudere un racconto completo, seppur non recentissimo, sia La Guerra di Mario, di Antonio Capuano.

Ora vivi tra Roma e Genova, ma che rapporto hai con la tua città?

Un rapporto un po' conflittuale. Molti non sanno che sono napoletano ed è una cosa che a me dispiace tantissimo.

Forse non lo sanno perché inconsciamente lo hai tenuto nascosto?

No, non direi, anzi. Mi sono diplomato al Teatro Stabile di Genova, ricordo che fui scelto come protagonista di uno spettacolo di Končalovskij e il debutto era al San Ferdinando di Napoli. Ero terrorizzato, ricordo che il giorno della prima caddi in scena, tanta l'emozione, i miei colleghi ridevano tutti e anche io, perché fu una cosa esilarante. Non so se sia stata una scelta consapevole. Sono comunque contento di riappropriarmi di questa identità, è una grande risorsa, un attore napoletano avrà sempre il desiderio di fare qualcosa che appartenga alla sua città.

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