Federico Cesari: “L’incontro con l’altro mi ha salvato. Tendiamo a nascondere il dolore, ma dovremmo parlarne”
Federico Cesari è uno degli attori più talentuosi in circolazione. Non è un elogio, né tantomeno una valutazione oltre misura, solamente la verità. E guardando i progetti a cui ha preso parte, sarebbe davvero difficile dire il contrario. Il 27enne romano possiede una capacità, probabilmente innata, di far esplodere le emozioni sulla scena, che sia a teatro o sullo schermo, è in grado di arrivare al cuore di quel sentire, trasmettendolo a chi, seduto in poltrona, lo avverte sulla propria pelle, quasi come se lo stesse provando in prima persona.
È riuscito nell'intento anche nella seconda stagione di Tutto chiede salvezza, su Netflix dal 26 settembre, in cui ha dato nuovamente voce a Daniele Cenni, mostrandone tutta la sua fragilità. Lo aveva fatto ancor prima, con Martino Rametta di Skam, uno dei personaggi più amati della serie protagonista della seconda stagione, e anche nella trasposizione teatrale di Magnifica Presenza è riuscito a tirar fuori quel lato un po' onirico e leggero che da sempre appartiene a Ferzan Özpetek
Parlando di sé, dei progetti che gli stanno più a cuore, ma anche dell'importanza di accettare la propria fallibilità, Federico Cesari apre parte del suo mondo, ancora in via di definizione.
Partiamo dalla prima stagione. Daniele viene ricoverato per un TSO e odia profondamente il reparto psichiatrico. Cosa lo spaventa?
Daniele si danna perché non riconosce il reparto psichiatrico come luogo che lo rispecchia, non sente di appartenere a quel mondo, non si sente malato. La reazione primaria è di repulsione, teme di essere giudicato, non considera il fatto che la sofferenza, in maniera diversa, è qualcosa che proviamo tutti noi. Ma poi sarà il luogo della sua salvezza.
Cos'è che lo predispone ad accettare quel luogo e chi lo circonda?
Il tempo. Più passano i giorni e più inizia a riconoscersi in quelle persone, comprende che le loro sono nature simili, che possono capirsi. Sapere che c'è qualcuno con cui condividere la propria sofferenza, lo fa sentire meno solo.
Se nella prima stagione il reparto diventa luogo di salvezza, nella seconda cos'è? Perché decide di ritornarci?
Torna per registrare quell'esperienza emotiva e collettiva di salvezza, per aiutare delle persone e ritrovare quei sentimenti, sebbene ora abbia un ruolo diverso. Il fatto di essere un infermiere tirocinante gli impone delle responsabilità sociali, anche la paternità lo mette in una posizione diversa. In un certo senso perde un po' della sua libertà.
Di che tipo di libertà stiamo parlando?
Non può rivivere quelle dinamiche che aveva conosciuto, da empatico si ritrova a condividere la sofferenza con gli altri pazienti, ma mediata dal ruolo che ricopre, ed è motivo di grande sofferenza. Non può sfogarsi come vorrebbe, ed è proprio quando si permette di farlo, che iniziano i problemi.
In questi nuovi episodi Daniele riprende a fare uso di calmanti, senza prescrizione medica. Un fenomeno che ricorre, spesso, anche tra i ragazzi che lo fanno per attutire il dolore, per stordirsi. Voleva essere una sorta di monito?
È una serie attuale, quindi sono stati introdotti elementi di verità, fondamentali in un progetto che si fonda sulla ricerca del realismo. In qualche modo, si è voluta rappresentare una piaga sociale dei nostri tempi. La tendenza è quella di stordirsi, di allontanarsi dal dolore, ed è quello che cerchiamo di combattere con questa serie, che invece invoglia a parlarne, perché parlarne e condividere rappresenta la salvezza.
La stessa salvezza di cui, in fin dei conti, fa esperienza Daniele.
Sì, anche lui tende a dissociarsi attraverso l'uso di sostanze, o dissociarsi dal contesto in cui vive e quando smette di vedere l'altro come nemico e fonte di sofferenza, ma accoglie questo dolore, lo riconosce e vuole condividerlo, lì inizia il suo percorso salvifico.
Da cosa deriva, secondo te, la paura di ammettere le proprie fragilità? Stigma sociale o timore di scoprire qualcosa di sé di cui non si era a conoscenza?
Un insieme di cose. La paura del giudizio, lo stigma sulla sofferenza psicologica, sulle malattie mentali è ancora molto presente, stiamo cercando ora di normalizzarlo. Il timore di essere etichettati come anormali, di essere isolati, di sentirsi soli all'interno della propria sfera sociale, ma anche di diventare "la malattia". Poi, c'è anche un altro fattore.
Quale?
Viviamo in una società in cui il successo sembra essere diventata la cosa più importante. Ci insegnano che bisogna realizzarsi, è uno dei fondamenti della società capitalista. Il pensarsi fallibili, come persone che hanno bisogno di aiuto per andare avanti o semplicemente sono in un momento in cui non ci riescono, è considerato un fallimento. Questo impatta in maniera importante sul giudizio che abbiamo di noi stessi.
Federico e tu, quanto ti ascolti?
Abbastanza. Poi dipende dai periodi, anche io come gran parte della mia generazione a volte combatto l'ansia dissociandomi. Cerco di farlo il meno possibile, tendo ad ascoltarmi molto, è un'esigenza che richiede anche il mio lavoro.
Per l'appunto, fare l'attore richiede la capacità di stare dietro a più stimoli, soprattutto esterni. Come riesci a trovare un tuo equilibrio?
La cosa difficile di questo mestiere è l'impatto psicologico. Sei sempre a confronto con te stesso, con le opinioni che hai di te, quelle che hanno gli altri. Metti continuamente in discussione le tue capacità, perché il lavorare o meno, non dipende da te, ma da chi ti offre un'opportunità. Cerco di non pensarmi come il mio lavoro, prediligo cose che mi appaghino per poter lavorare in maniera serena. Se mi giudicassi solo in base al mio mestiere, questo intaccherebbe la mia salute mentale.
E quindi, partendo da questo presupposto, come scegli i progetti a cui prendere parte?
Mi piace lasciarmi stupire dal progetto, quindi esserne parte indipendentemente dal personaggio, da ruoli grandi o piccoli. Cerco qualcosa che mi rispecchi.
A proposito di progetti che ti rispecchino. Sei stato anche scelto come volto di un'iniziativa del comune di Roma, incentrata sulla salute mentale ("È ok non essere ok" ndr.).
Sono stato profondamente contento di far parte di un progetto che trovo molto utile per i giovani. Invoglia a parlare, a rivolgersi a dei professionisti se si è in difficoltà. Credo sia l'immagine di un cambiamento che è in atto, in relazione a queste tematiche, che devono avere sempre più risonanza.
Facendo un passo indietro e tornando alla serie e al concetto di salvarsi. Cos'è la salvezza per te?
L'incontro con l'altro. Sono sempre stato salvato da altre persone nei periodi più difficili della mia vita, dal confronto, dallo scambio. Non trovo altri modi per risolvermi le cose.
Prima di Daniele Cenni c'è stato Martino Rametta in Skam, un'altra serie che mette al centro l'umanità dei suoi protagonisti. Il fatto di aver raccontato una storia così importante, ha generato una sorta di pressione?
Nel momento in cui interpreto un ruolo, affrontando una storia delicata, la responsabilità e la pressione ci sono sempre, soprattutto per la mia voglia di comunicare. Cerco sempre di fare del mio meglio affinché venga trasmesso il messaggio che il progetto richiede, non mi piace prendermi il merito di aver toccato certe tematiche, perché in questo caso è del regista, degli sceneggiatori che hanno scelto di inscenare qualcosa che permettesse alle persone di rispecchiarsi. Quando abbiamo girato Skam non immaginavamo il successo che poi avrebbe avuto, ho cercato solo di essere il miglior Martino possibile.
Tornando ancora a ritroso, ci sarebbe la conferma del ritorno dei Cesaroni, la serie che ti ha iniziato al mondo della recitazione. Cosa pensi possa venirne fuori?
Questa volontà di far ritornare vecchie glorie andrebbe analizzata. Forse abbiamo bisogno di essere coccolati (ride ndr.). Per me è stato un periodo incredibile, la prima esperienza continuativa su un set e la volta in un cui mi sono innamorato di questo mestiere. Mi sono divertito, era bello entrare in un mondo che avevo visto solo attraverso lo schermo, sembrava qualcosa di inaccessibile. Non ho idea di quello che sarà, ma lo guarderò volentieri.
Ad oggi, cosa significa per te stare bene?
Essere presente nella mia vita, non avere un sogno utopistico, trovare un equilibrio con i grandi distrattori della mia esistenza; come il mio ego, che spinge per cercare la felicità all'interno di cose in cui non c'è, come una carriera che punta sempre più in alto. Sono questi pensieri che ci distraggono dalle cose più importanti.
E quali sono per te le cose più importanti?
Le persone.