Federico Buffa: “Vivo senza smartphone, essere connesso è un’ansia che non mi appartiene”
Federico Buffa è un'entità anomala nel mondo del giornalismo e della televisione. Sparisce per lunghi periodi, poi torna e spesso lo fa in una forma diversa. Come nel caso più recente, nelle vesti di doppiatore per il film d'animazione "Paws of fury – La leggenda di Hank", produzione Sky Original (disponibile su Sky e NOW) ispirata a un classico come Mezzogiorno e mezzo di fuoco di Mel Brooks. Nel film Buffa è Shogun, ma non è evidente da subito, il che dà il senso del modo in cui ha provato a calarsi nel personaggio. Di questa e delle sue altre forme, di come recentemente la narrarzione abbia ceduto il passo alle interviste nel suo percorso, della sua vita personale e dei figli, si parla in questa intervista che ha rilasciato a Fanpage.
L'esperienza del doppiaggio è l'ennesima di una carriera multiforme.
Non è esattamente la prima, io avevo doppiato il radiocronista americano del film Race su Jesse Owens, che però era molto più semplice da fare, in quanto si trattava di un linguaggio sportivo con tempi piuttosto semplici. Quello di questa volta sì che era difficile, primo perché si trattava di una cosa molto caricaturale e soprattutto perché in questo caso devi essere connesso con il video animato e stare sul tempo. Ma è stata un'esperienza elettrizzante.
Il film è una sorta di remake di un titolo storico come Mezzogiorno e Mezzo di Fuoco di Mel Brooks, che per altro è la voce americana del tuo personaggio.
Lui è veramente fantastico, mi divertivo più a sentire lui che a parlare. È un'ispirazione della mia vita e questo ha reso ancora più entusiasmante, quasi non vorrei essere pagato, per me va bene così.
Con il doppiaggio torni a fare leva sulla tua voce, elemento caratterizzava gli inizi della tua carriera, prima che il tuo volto e la tua fisicità diventassero noti.
Io, che sarei tecnicamente il protagonista di questa domanda, non me l'ero posta. In effetti è un ritorno alle origini, a quell'idea di stare nascosto che cerco di perseguire da sempre.
Sperimentarsi nella novità è una tua ossessione?
Se c'è una cosa che penso sia molto difficile da fare, ma con applicazione si possa riuscire, allora divento bulimico. Soprattutto se si tratta di qualcosa che credo possa aiutarmi in altri campi. Una recitazione caricaturale è molto difficile, io non devo farla normalmente, qui ho un tono sostenuto, volutamente grottesco, cosa che non è nelle mie corde. L'idea di riuscire a fare questa cosa, con la bonomia di chi c'è dall'altra parte, mi ha insegnato molto. Il beneficiato sono palesemente io, non loro.
Il tentativo di non essere Buffa che doppia un personaggio, ma dare vita al personaggio di Shogun, sembra evidente.
Il complimento migliore che desidererei, se potessi sceglierlo, è: "ho visto il film e non ho riconosciuto Buffa tra i doppiatori". Il mio obiettivo era proprio celarmi dietro il personaggio, posto che non potrei permettermi il lusso di pormi davanti.
Un'altra versione di te sono i Talks che stai conducendo su Sky. Trovi più soddisfazione dall'intervistare qualcuno o raccontare qualcuno?
Alle volte intervistare me ne dà molta di più. Conoscere personaggi sensibili, complessi, ti permette di entrare in altri mondi. Di recente alla fine di un'intervista una persona mi ha confessato di essersi aperto un po' di più, sentendosi in un posto congruo a se stesso. Tra il raccontare una storia e avere persone che ti dicono parole così, in questo momento della mia vita prendo questa. È una fase in cui tra il parlare ed ascoltare preferisco nettamente la seconda.
Questo è un tempo storico di cose che corrono a velocità supersonica, c'è un'ansia sociale legata alla necessità di stare al passo. Senti questa pressione o ne sei distaccato?
Quest'ansia sociale non mi appartiene. Non sono connesso, la mia non è una vita in cui debba mettermi costantemente a disposizione di un mondo esterno. Non vado a cercarlo e lui non cerca me.
Continui a non avere uno smartphone?
Ci mancherebbe altro, fino a che sarà possibile. Certo, ogni tanto è scomodo, vado in un negozio e mi dicono "possiamo accreditarle dei punti per il prossimo acquisto". Rispondo che non credo, ma se vogliono proviamo, gli mostro tutti gli effetti personali e davanti al mio cellulare retrò mi fanno capire non sia possibile.
Non hai ogni tanto il timore di non essere al passo coi tempi?
Non è un timore, è una certezza. Ma questa è una cosa possibile nella mia vita perché non ho figli, quindi non sono mai stato costretto da una persona importante per me ad allinearmi al tempo corrente. Ne avessi, oltre ad essere ricoperto di insulti e derisioni, gli dovrei qualcosa. Ma che io sappia di figli non ne ho e quindi il problema non si è mai posto. Poter vivere così è una fortuna, me lo sono potuto permettere.
Mettiamola sotto il profilo della conoscenza, cosa che mi pare ti tocchi. Non ti provoca alcun disagio non sapere cosa sia un meme?
Non voglio fare il professore, ma mi farebbe male non sapere questioni legate a quello che è successo in Palestina tra il '48 e il 2023. Che io sappia cos'è o meno un meme, per come sono stato formato nella mia vita, non è un problema. Mi preoccupo molto di quello che non so, ma è talmente ampio il campo di ciò che non conosco, da dover selezionare quelle conoscenze che vorrei avere e non ho.
Cosa hai approfondito in questo ultimo periodo?
Tantissime cose, ogni giorno. Anche solo vedere le interviste di Camurri è una continua sorpresa. Le guardo e rigaurdo, le trascrivo. Ieri ascoltavo un docente di alto livello che, riferendosi a Voltaire, dava una visione magnifica sul diritto di un uomo di scegliersi una sua patria, che non è necessariamente quella da cui provieni dal punto di vista geografico. Una cosa che non avevo mai sentita applicata da qualcuno, che forse avevo solo pensato. Questo diventa motivo di grande accrescimento, mi mette in ordine i file di tante cose pensate in vita mia.
Accennavi alla questione del conflitto tra Israele e Palestina con urgenza.
Quella parte di mondo è stata decisiva della mia vita, perché io per motivi i lavoro – il contratto di Mike Mitchell che ha giocato a Tel Aviv e che io rappresentavo – in Israele ci sono stato tanto. Prima del 2000 ci sarò andato sei o sette volte e io dalla morte di Rabin in poi, ogni volta che ero lì mi posizionavo nel punto esatto in cui è stato ammazzato. È quella l'origine di tutto, gli Stati Uniti hanno ormai centrato l'idea di due stati, lui è l'uomo che prova a concretizzare quell'idea e lo ammazzano. Da lì inizia un secondo processo arrivato all'oggi.
È una vicenda che i media stanno raccontando bene, dal suo punto di vista?
Non saprei, dipende. Per me sono cose importanti, le vivo e mi interessano molto. Mi è capitato di sentir dire recentemente in una trasmissione che la Palestina è stata una colonia inglese, mentre non è così perché è stata un protettorato, era sotto l'impero ottomano. Ho pensato che messa così, non si sta spiegando come siano andate le cose e mi ha fatto male, perché in questo momento non si può sbagliare niente.
Sei padre spirituale di un'era di narratori sportivi. Sei consapevole di questa titolarità e di essere forse l'ultimo ad aver lasciato il segno su questo genere in relazione alla televisione?
Direi no su tutti i fronti.
C'è però una generazione di giornalisti sportivi che si ispira a te. Questo lo sai?
Forse, ma solo perché mi piaceva un approccio che permettesse delle digressioni funzionali. Siamo sempre a quella frase secondo cui chi sa solo di calcio non sa niente di calcio: è una frase provocatoria, certamente, che fa luce su come non si possa pensare al calcio solo come un fatto tecnico, ma che attorno allo sport ci siano storie di uomini, il che vuol dire tanto. Mi è sempre piaciuto vederla così sin da quando ero piccolo, il mondo era pensabile solo in questo modo. Ma da lì in poi non ho tutta questa percezione e tendo a non essere autocelebrativo.