Dope Thief, Peter Craig: “Stanco dei criminali come Walter White. Vi svelo il film che preferisco di mia madre Sally Field”

Cosa accomuna i piccoli criminali dal buon cuore che in Dope Thief, la nuova serie crime su Apple TV+ dal 14 marzo, si ritrovano invischiati nella classica brutta situazione più grande di loro e Katniss, la protagonista della saga di Hunger Games interpretata sul grande schermo da Jennifer Lawrence? Il desiderio di ristabilire un ordine che si è incrinato, sbilanciato. Che è in primis il desiderio che Peter Craig, scrittore e showrunner, infonde nelle sue sceneggiature.
Craig, figlio d'arte di quell'amatissima Sally Field due volte vincitrice del premio Oscar come Miglior attrice, nel 1980 per Norma Rae e nel 1984 per Le stagioni del cuore, si è fatto notare fin dall'esordio alla sceneggiatura di un lungometraggio con l'acclamato The town, crime movie bostoniano del 2010 diretto da Ben Affleck. Poi il passaggio al cinema ad alto budget e ad altissima attenzione verso la scrittura dei personaggi, dalla distopia ultimi due Hunger Games a The Batman, il cinefumetto di Matt Reeves campione d'incassi nel 2022 che ha visto Robert Pattinson nei panni del leggendario Uomo pipistrello.
Su Fanpage.it, Peter Craig spiega il suo approccio verso questa produzione mettendolo in relazione a quello che è stato tutto il suo percorso di autore hollywoodiano.
Le storie di crimini e criminali sono state esplorate in lungo e in largo sul grande e sul piccolo schermo. Cos'ha di diverso Dope Thief?
È un'ottima domanda. Abbiamo cercato di proporre personaggi diversi dal solito, con degli archi narrativi che non sanno di già visto. Ci sono tanti generi e sottogeneri nel novero di quelle che sono le storie “crime”. Quelle dove i personaggi principali vivono un po' al di fuori di questo contesto, a prescindere dalla tipologia di reati con cui poi avranno a che fare. Oppure quelle alla Breaking Bad, in cui hai persone buone, ingenue come Walter White, che poi vengono trasformate, gradualmente, in mostri feroci e spietati. La nostra serie non ha nulla di tutto questo, va quasi in direzione opposta.
In che senso?
Abbiamo due personaggi, Ray (Brian Tyree Henry) e Manny (Wagner Moura) che hanno sofferto molto nel corso delle loro vite. Una sofferenza che è arrivata in primis dal mondo dello spaccio. Per questa ragione credono di avere il pieno diritto di sottrarre qualcosa a quel mondo come forma di riscatto. Loro due si vedono come una coppia di Robin Hood. Giustificano le loro azioni con la costruzione di questa etica alla base delle loro azioni secondo la quale non fanno nulla di male se rubano a chi intossica la vita di altra gente.
Definiresti Ray e Manny come persone prive di scrupoli?
No, perché poi in realtà sono davvero persone con un profondo senso morale. Non sono davvero violenti, non sono spietati né tantomeno privi di scrupoli. Non sarebbero proprio in grado di andare oltre un certo limite. Anche per mere questioni di lealtà e affetto reciproco, verso i loro familiari. Nonostante quello che hanno vissuto e quello che fanno, hanno ancora ben presente cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Tendono a pentirsi e a provare rimpianti per le loro azioni, poi si fanno male spesso e volentieri come avrai notato.

Come mai questa scelta?
Te lo spiego con questo aneddoto. Ricordo di aver detto a Ridley Scott nelle primissime fasi dello sviluppo di Dope Thief che ogni singolo proiettile che veniva sparato doveva avere degli effetti. Se ci fai caso, nella nostra serie c'è anche un'infezione data da un proiettile. Quante volte ti è accaduto di vedere una serie TV in cui qualcuno viene ferito con un colpo di pistola in un episodio e poi si porta dietro gli effetti dell'incidente?
E dunque tornando alla differenza di cui parlavamo…
Per tornare a quella domanda, si trova principalmente nell'approccio che abbiamo adottato. Poi personalmente non credo più a questo relativismo morale dove prendi un personaggio, lo cali in una data situazione e diventa automaticamente quello che deve diventare. Sono fermamente convinto che la maggior parte delle persone non siano, grazie al cielo, capaci di commettere atti di estrema violenza. Per lo meno senza provare un gigantesco carico di dolore e rimpianto.
Come fai a dirlo?
Lo so perché ho lavorato molto con i militari e so che per convincere un essere umano a ucciderne un altro non è come accendere e spegnere un interruttore. Ci vuole un grande sforzo, bisogna abbattere tutta una serie di barriere per far sì che qualcuno sia in grado di farlo. Per questo il mio desiderio era quello di raccontare una storia diversa in cui i protagonisti scoprono di avere dentro di loro qualcosa di buono, anche se erano convinti del contrario. Dope Thief è una crime story che sembra cinica, ma una volta grattata via la superficie scopri che non è così.
Prima hai citato un gentiluomo inglese di circa 87 anni, Ridley Scott. Probabilmente mentre tu ed io stiamo parlando starà girando in contemporanea due kolossal da 150 milioni di dollari di budget. Cos'hai imparato lavorando con lui?
La sua grinta, la sua motivazione, il suo senso del dovere. Ma soprattutto la sua incredibile capacità di gestire l'organizzazione degli spazi sul set e sulla scena. Ho appreso molto circa il cromatismo e la coerenza nella scelta dei colori dalla palette per la fotografia, perché è da lì che si decide l'animo di una storia e lui, da questo punto di vista, è un'istituzione. Abbiamo parlato a lungo di come Dope Thief dove essere illuminato come se fosse ambientato in una sorta di costante crepuscolo.
Un'esperienza unica insomma.
Sì, faccio lo sceneggiatore da tanto tempo, ho visto in azione tanti direttori della fotografia, ma nulla di paragonabile alla bravura che possiede Ridley Scott nel far combaciare luoghi e colori col vissuto interiore dei personaggi. È qualcosa che non dimenticherò mai, è stato meraviglioso essere testimone della cosa.

Hai lavorato a blockbuster come The Batman, Top Gun: Maverick, ma se dovessi accostare Dope Thief a un film che hai sceneggiato lo piazzerei di fianco a The Town di Ben Affleck. Sei più attratto da progetti ad altissimo budget o da storie più intime, per così dire?
È un'osservazione grandiosa perché mi permette di raccontarti una cosa buffa. All'inizio della mia carriera di sceneggiatore, le cose non stavano andando benissimo. Anzi: andavano proprio male. C'era questa persona che lavorava come produttore, naturalmente non ti dirò di chi si tratta, che mi disse che non avrei mai sfondato perché scrivevo storie troppo intime, “piccole” ed eccessivamente dark. È trascorso qualche anno da quando mi è stata detta quella cosa.
E cosa è cambiato?
Come ti dicevo è una cosa buffa perché anche oggi prendo quelle stesse identiche storie che questa persona aveva bocciato e le inserisco in questi contesti magari ad alto tasso di spettacolarità. La prima volta che ho parlato con Matt Reeves per The Batman mi ha detto che il suo approccio verso questa proprietà intellettuale si basava comunque sul voler realizzare un film che avesse il sapore della produzione indie. E voleva che fosse il più oscuro possibile. Non so, magari sono i tempi a essere cambiati e ora sono le persone a voler vedere cose come queste sul grande schermo.
Oppure…
Oppure quella persona si era semplicemente sbagliata. Per quel che mi riguarda, mi pare di aver mantenuto sempre lo stesso approccio al lavoro e alle storie che voglio raccontare, indipendentemente dalle dimensioni della tela su cui vengono dipinte. Anche con un personaggio come Katniss in Hunger Games per me era fondamentale stare il più possibile vicino a lei e al suo vissuto. A quelli che erano i suoi problemi di più lieve entità e quelli che invece erano più gravosi. A quello che la feriva in un dato momento. Ogni storia può essere intima se la racconti nel modo giusto, a prescindere dal budget che hai a disposizione.

Hai citato la saga di Hunger Games visto che hai co-sceneggiato Il canto della rivolta Parte 1 e 2. A cosa si deve la popolarità delle storie young adult di fantascienza distopica condite magari da ribellioni varie ed eventuali?
Penso che sia tutto collegato alla maniera in cui, a livello planetario, abbiano risposto al comune presentimento che dovessimo prepararci a… qualcosa. Avevamo tutti il sospetto che il “vecchio mondo” stesse andando in frantumi. Ci troviamo a vivere questo momento storico in cui accordi in vigore da decenni vengono infranti come se il vecchio sistema si stesse trasformando in un nuovo sistema di cui ancora non abbiamo le coordinate. La popolarità di queste distopie si deve alla loro capacità di averci messo di fronte a uno schema, a un modello di come sarebbero potute andare le cose. Però per certi versi possiamo riscontrarlo anche in Dope Thief.
Cioè? In che modo?
Nel senso che c'è una volontà di ricostruzione di qualcosa che si è rotto. E per me tutte le distopie devono metterci di fronte a un panorama in cui ci viene spiegato che le cose possono essere ricomposte. È importante mantenere un fondo di ottimismo perché è comunque altamente probabile che tutti noi sopravvivremo a questi cambiamenti. In Dope Thief i personaggi toccano il fondo ma poi cominciano a riflettere su ciò che li attende.
Tornando a un film come Top Gun: Maverick, come ti spieghi il successo, non scontato, che ha avuto? Per via del bilanciamento fra effetto nostalgia e le novità?
È uno dei lavori da cui ho imparato di più in tutta la mia carriera. Tutte le persone coinvolte, dai produttori a Tom Cruise naturalmente, sono riuscite ad architettare questo meccanismo che ha funzionato con precisione svizzera e io ho potuto osservare il processo da una posizione di assoluto privilegio. Tutti sapevano benissimo che il film doveva avere un certo ritmo narrativo e hanno lavorato in quella direzione. Il modo stesso in cui sono stati concepiti i vari passaggi del film, quelli che dovevano colpire lo spettatore per quel dato motivo, hanno una perfezione chirurgica. Pensa anche solo al lavoro di precisione fatto dal regista Christopher McQuarrie con l'apparato militare. È un kolossal che ha avuto una gestazione lunga dieci anni, si tratta di un decennio di lavoro finalizzato a far sì che il film fosse perfetto. D'altronde Tom Cruise è un professionista assoluto che esige la perfezione.

Tua madre, la due volte premio Oscar Sally Field, ha un curriculum impressionante alle spalle, eppure io, che ho esattamente dieci anni meno di te, se penso a lei la collego inevitabilmente a film della mia adolescenza come Forrest Gump o Mrs Doubtfire. Qual è il suo film a cui sei più legato?
È un film che è uscito quanto tu avrai avuto un anno o giù di lì. Norma Rae (che le ha fatto vincere il primo Oscar come miglior attrice, ndr.). Penso sia letteralmente incredibile in quel lungomnetraggio. Sono stato un po' con lei sul set al tempo, ero un bambinetto delle elementari che si è ritrovato ad andare a scuola in Alabama per un po'. Ricordo che una volta stavo facendo un bagno al lago e sono stato inseguito da un mocassino acquatico (un serpente velenoso, ndr.)! Son le prime cose che collego a quel periodo perché ero davvero piccolo. Ma ricordo bene quanto il suo lavoro sul set insieme al regista Martin Ritt fosse, allo stesso tempo, così serio e genuino. Ed è stato splendido vedere come lavorava mia madre perché lei è un'attrice si approccia al suo mestiere, che si basa sulla recitazione, col piglio di una scrittrice.