Domenico Procacci: “Nanni Moretti è unico e impegnativo. Fare il regista? Il mio sogno a vent’anni”
A Domenico Procacci piace sperimentare. Gli piace prendere la strada meno battuta, quella che nessun altro, prima di lui, ha pensato di prendere; e gli piace seguirla fino alla fine, rischiando di perdersi e di non ritrovarsi più. Ha una sua filosofia di impresa, e anche una sua visione editoriale. Non cita numeri e dati; s’affida al sesto senso, a quella sensazione che a volte ci prende all’altezza dello stomaco, una via di mezzo tra farfalle impazzite e crampi, e che ci suggerisce cosa fare. Fandango, per lui, è come un figlio. E così Fandango Libri, e i satelliti Coconino Press e BeccoGiallo. E, ovviamente, i film. La sua carriera, dice, non ha avuto un andamento lineare come altre carriere: ed è proprio per questo, insiste, che è più divertente. Giura di non avere rimpianti. O se ne ha, è stato abbastanza bravo da rimuoverli dalla sua memoria. Quando parla di Nanni Moretti, non parla solo del suo talento: parla soprattutto della sua unicità. Ama sostenere i nuovi registi, e ama curare opere prime. Ha iniziato così, dopotutto. Dando a chi non ce l’aveva una possibilità. Ricorda le chiacchierate con Sandro Veronesi e la scelta, piuttosto folle, di pubblicare libri giudicati impubblicabili. E ritorna con il cuore, più che con la memoria, a “Una squadra”, la sua impresa sul tennis, il primo progetto che ha seguito non solo come produttore.
Perché ci hai messo così tanto per esordire alla regia?
In verità, quando da ragazzo sono venuto a Roma per studiare cinema, era esattamente quello che avevo in mente. La regia. Cosa, credo, abbastanza normale. A vent’anni non pensi di fare il produttore. Volevo dirigere e scrivere. Ho frequentato la Gaumont con quest’idea. Facevamo di tutto, preciso. Il mio obiettivo, però, era quello. Poi, come sai, è andata diversamente. E non ho mai avuto rimpianti. Ho fatto i miei cortometraggi, e ho cominciato quasi naturalmente a fare il produttore. È stata un’avventura. E per fortuna è un’avventura che dura ancora, senza nessuna frustrazione. Non mi sono mai sentito un regista mancato. Potevo fare di più come produttore, e l’ho capito. In Una squadra ho trovato una storia che mi ha preso molto e che non aveva un regista.
E perché hai deciso di dirigerla tu, direttamente?
Non avevo voglia di cercare qualcun altro, stavolta. E sentivo anche che durante la fase di sviluppo sarei stato ingombrante. Più ingombrante del solito, almeno. E poi, confesso, mi stavo divertendo.
Quanto è importante in questo mestiere affidarsi all’istinto e quanto, invece, prendersi del tempo e ragionare sulle cose?
Secondo me, l’istinto è estremamente importante. Nel caso di Elena Ferrante, per esempio, è stato importante anche avere delle persone di valore attorno a me. Perché è stata Laura Paolucci a parlarmene per la prima volta. In generale penso che l’istinto e l’intuito siano fondamentali. È vero pure però che il ragionamento a freddo ti permette di evitare degli errori che, invece, rischi di fare. E io ne ho fatti. È difficile non farne in una carriera come la mia, così lunga. Resto della mia idea, alla fine.
Quale?
L’istinto va seguito, correndo il rischio di sbagliare.
Fandango, oggi, ha più di trent’anni. Ed è una delle ultime produzioni indipendenti che ci sono in Italia. Altre sono state acquisite da grossi gruppi internazionali. Secondo te è questo il futuro?
Ma guarda, non siamo gli unici. C’è anche, per farti un nome, Indigo. Un produttore indipendente non deve avere collegamenti diretti con i broadcaster del territorio: è questo l’aspetto essenziale. Siamo tutti produttori europei. Ma è vero quello che dici: sono poche le produzione che non hanno ceduto la proprietà a grandi realtà. E tutto sommato, a livello editoriale, non credo che queste realtà abbiamo influenzato negativamente la linea editoriale delle singole produzioni. Mi sembra che continuino a fare le stesse cose. Avere un gruppo alle proprie spalle ti permette una certa libertà. Perché hai più risorse e più contatti. Se quasi tutti l’hanno fatto, è chiaramente conveniente.
Quindi è il futuro?
Finché la produzione continuerà a focalizzarsi sui contenuti, a essere autonoma, a pensare agli spettatori, va bene. Ma se poi, un giorno, la scelta degli stessi contenuti sarà condizionata da un algoritmo o da dirigenti lontano da qui, con una conoscenza minima del nostro mercato e di quello che siamo, diventerà decisamente un problema. Per ora, però, non vedo quel tipo di prospettiva.
I film sono un po’ come i figli?
Ci vuole anche lo stesso tempo per farli, pensandoci. Sì, si somigliano molto.
E danno le stesse gioie e le stesse preoccupazioni?
Questo non lo so. I miei figli non mi hanno ancora dato nessuna preoccupazione. E nel caso dei film, le gioie, per ora, sono più delle preoccupazioni. Buona parte della mia vita l’ho passato concentrato sul fare film e non sul mettere su famiglia. Fare il produttore ha i suoi momenti difficili, ma allo stesso tempo è molto gratificante. Ora che sono anche padre, ti posso dire che non c’è confronto: è tutta un’altra cosa.
C’è una sceneggiatura che hai letto, che hai rifiutato e che poi si è rivelata essere un successo?
Ti dico la verità: no. Ci sono sicuramente dei film che avrei voluto fare, ma non li ho rifiutati. Oppure, se ne ho rifiutato qualcuno, sono stato bravo a rimuovere i ricordi. Perché al momento, ti giuro, non me ne vengono in mente.
Poco fa, mi hai detto che ti sei quasi ritrovato a fare il produttore. Ma c’è stato un momento in cui hai capito di aver fatto la scelta giusta?
È stato all’inizio. I primi film, i primi due film, sono stati realizzati con una cooperativa che avevamo messo insieme durante la Gaumont. Sono i due esordi di Giuseppe Piccione e di Antonello Grimaldi. La decisione di andare avanti c’è stata quando ho fondato la Fandango nel 1989. C’era un progetto che mi piaceva molto, che è poi diventato La stazione e sono stato io a suggerire a Sergio Rubini di dirigerlo. Sono state queste cose, tutte insieme, che mi hanno convinto a insistere, a non fermarmi.
E qual è il bilancio, fino a ora?
Alcuni film sono andati bene, altri meno. Altre carriere hanno un andamento decisamente più stabile. La mia ha molti alti e bassi. E forse, per questo, è più dinamica e divertente. Sicuramente è meno tranquilla.
Ha senso fare questo lavoro senza rischiare?
Il rischio, secondo me, fa parte del concetto di impresa. Un’impresa che non corre rischi può essere anche invidiabile. A me, però, sembra una scelta obbligata quella di sperimentare. Non ti puoi affidare unicamente all’osservazione di quello che c’è, di quello che funziona e poi andare in scia. In questo lavoro devi cercare quello che ancora non c’è. Quando si dice che le scelte editoriali non si possono fare sulle indagini di mercato, s’intende questo. Per carità: c’è anche chi le prende così. Ma la mia è un’altra idea. È poco interessante provare a riproporre sempre la stessa cosa solo perché piace alle persone. È molto più interessante provare a dare qualcosa che le persone non conoscono. E solo poi, solo dopo, capisci se hai fatto centro.
Dove si è creato, secondo te, il cortocircuito tra chi racconta le storie e chi, poi, le guarda?
Non è un cortocircuito che si è creato in questo momento; è qualcosa che risale a molto tempo fa. Se parliamo del cinema italiano e del suo pubblico, è un rapporto che viene costantemente messo in discussione. È un rapporto di fiducia. Ci sono dei periodi in cui è evidente un’affezione per i nostri film, e dei periodi in cui, invece, è evidente un distacco. Dipende dalla qualità dei film, sì. Ma c’entrano anche altri fattori. Molti anni fa era normale avere, da una parte, delle grandi commedie e dall’altra dei film d’autore. Nessuno se ne stupiva. Per fortuna ci sono stati anche altri casi, al di fuori di questo binomio. E per me è questa la quadratura del cerchio.
In che senso?
Io ho sempre cercato di scardinare questo postulato. Perché un film di qualità deve avere necessariamente un pubblico di nicchia? Non è così. Pensa a Gomorra, un film dove, a parte Toni Servillo, non c’erano attori molto noti; un film tratto da un libro, quello sì di successo, che non basta come garanzia di buoni incassi. Quindi è possibile avvicinare le persone con la qualità. Certamente ci sono dei momenti in cui questa distanza è enorme. Anni fa, produrre un film per la televisione significava fronteggiare luoghi comuni e pregiudizi. Adesso no; adesso è normale.
Molti però lamentano una mancanza di qualità.
Ma non credo che non ci sia qualità, in giro. Ci sono tanti film che sono di qualità. Il punto è che, oggi, non c’è più solo il cinema. Ci sono altre strade. Raggiungere un pubblico ampio, di massa, non significa fare automaticamente un film di qualità. Anzi. Bisogna non ragionare per categorie. Ci sono dei film e dei registi, bravissimi, che non hanno avuto il successo che meritavano. Peter Del Monte, per me, era straordinario. E purtroppo i suoi film non hanno avuto abbastanza visibilità. Questo, però, non toglie nulla al suo talento. Per questo credo che sia importante continuare a fare un certo tipo di cinema. E tornando al discorso di prima, alle grandi società che vedono l’Italia come un pezzo più piccolo di un risiko più grande: se cominciamo a piegarci a determinate logiche, se entrano in campo algoritmi o scelte precise, perdiamo.
Cosa?
I contenuti. La qualità. La varietà stessa del cinema e della televisione. Le storie. Non diamo spazio alle voci, alla loro molteplicità. Ragionare a freddo ti permette di capire il meccanismo di qualcosa, e di riprodurre quel qualcosa con intelligenza. Ma non possiamo rinunciare alla sorpresa e al senso di meraviglia.
In Fandango ci sono anche Coconino Press e BeccoGiallo. Secondo te, il fumetto è il prossimo grande bacino di storie per il cinema e la tv?
Sì, attraverso Fandango Libri abbiamo BeccoGiallo e Playground, che fa un altro tipo di editoria. E poi abbiamo una partecipazione in Coconino. A livello mondiale, il fumetto è già un bacino importantissimo. Non so dirti se ci riusciremo anche qui in Italia. Ci sono degli autori che sono dei grandi narratori, e alcuni di loro si sono già cimentati nel cinema. Abbiamo fatto dei film con Gipi, e spero che continueremo a farne.
Qual è il ruolo del fumetto?
È un osservatorio di storie e di creatività molto importante. Per il momento, stiamo prendendo dal fumetto più la sua parte autoriale e meno quella popolare. Per me è molto interessante. Per il futuro staremo a vedere, ma la vicinanza che c’era negli scorsi anni ora si è ulteriormente assottigliata.
Ciò che vende di più, adesso, sono i manga.
Sono storie che probabilmente, con il nostro cinema, hanno poco a che fare. Nei numeri è abbastanza vero quello che dici. Ma non del tutto. Quando siamo entrati in Coconino, il fumetto d’autore era molto lontano dal pubblico. Ci abbiamo lavorato. Quando ho pensato che candidare Unastoria di Gipi allo Strega fosse una buona idea, ne ero convinto. E ne sono tuttora convinto. Ha fatto da apripista ad altri fumetti. È successo a Zerocalcare, e Zerocalcare, poi, è andato bene anche con la sua serie, Strappare lungo i bordi. Quindi ci sono delle possibilità di unire questi aspetti, qualità e autorialità, senza compromessi, raggiungendo comunque un pubblico ampio.
L’animazione ti interessa come linguaggio?
Sì, mi piace. Non abbiamo mai fatto un film di animazione, ma è una cosa che mi interessa molto.
Hai prodotto i film di molti registi esordienti, come Pietro Castellitto ed Emanuele Scaringi. E hai sostenuto Smetto quando voglio di Sydney Sibilia. Quindi ti chiedo: chi è il prossimo Nanni Moretti?
(ride, ndr) Io sono contento che ce ne sia solo uno solo, di Nanni Moretti. E non solo perché è impegnativo seguirlo. Ma perché è davvero unico. Non te lo so dire, ora, chi sarà il prossimo Nanni Moretti. Hai nominato registi molto diversi tra loro. Per un nuovo Nanni Moretti, serve un regista pronto a mettersi anche in scena. Quindi, ecco, seguendo questo ragionamento, ti dico Pietro Castellitto. Phaim Bhuiyan, che ha fatto Bangla, è stato accostato molto al primo Nanni Moretti. Ma forse, non lo so, non hanno senso come ragionamenti…
Nanni Moretti è un po’ un metro di paragone: è il regista che sa raccontare la sua generazione.
Sì, e che sa farlo senza essere elitario. Con la capacità di divertire. Cosa che Nanni ha dimostrato da subito, fin dal primo film, e che dimostra anche in questo ultimo lavoro, Il sol dell’avvenire. Nanni, in sé, lo trovo piuttosto unico – lo ripeto.
Facciamo un passo indietro. Cosa ti piace di Fandango Libri?
Che è nata senza nessun calcolo e senza nessun ragionamento a freddo. È nata sotto casa di Sandro Veronesi, mentre ragionavamo su certi libri che lui conosceva e io no e che erano considerati impubblicabili. È un’impresa nata senza alcun senso dell’impresa, almeno dal punto di vista economico.
Che cosa vi siete detti, quel girono?
“Facciamo questi libri, e facciamoli perché non li fa nessuno. E facciamoli perché è bello che ci siano”. Pensa a Infinite Jest e alla traduzione curata da Edoardo Nesi: ci è voluto quasi un anno per finirla. Ecco, questa è una di quelle avventure che, ragionando a freddo, sembrano non avere senso.
Certe cose, insomma, non le fai. Perché così ti dice il buon senso.
Sì, e mi è successo nel cinema e con Coconino Press. Lavori difficilissimi, considerati delle imprese in perdita, senza alcun dubbio, e che in realtà non lo sono stati. A volte, hai delle sorprese. E trovi anche chi ti segue e chi, nonostante tutto, ti apprezza. Fandango Libri è stato esattamente questo. Una partenza senza senso, all’inizio vista come il giocattolo di una produzione che non vuole fare impresa. Nel tempo, ovviamente, cerchi anche altro.
Se i film sono un po' come i figli, i libri non riesco a immaginare a cosa o a chi possano somigliare. Sembrano decisamente più complicati.
Io, paradossalmente, ho fatto una regia, con Una squadra, che è diventata anche un libro. Prima non ero né un autore né un regista, e adesso, quasi per caso, sono entrambe queste cose. Senza però sentirmi né autore né regista: lo voglio precisare. Ho semplicemente ripreso queste persone incredibili e ho riportato, poi, quello che hanno detto.
A volte, però, la cosa più difficile non è proprio questa? Ascoltare gli altri?
È sempre stato il mio punto di partenza. Non raccontare oggettivamente una storia, ma farla raccontare ai suoi protagonisti, anche con le loro contraddizioni e ricordi diversi.
Ed è quella la cosa più bella, la confusione?
La confusione, a volte, è tutto: è l’aspetto più interessante e sicuramente il più creativo.
Tu ora, come produttore ma anche come persona, di che cosa hai più paura?
Ho paura della standardizzazione. Ho paura della normalizzazione. Ho paura che possa diventare sempre più difficile raccontare storie diverse. Ho paura di perdere interesse in quello che faccio. Pur potendo trovare molto altro nella vita, mi dispiacerebbe non avere più una cosa come questa, che secondo me va fatta con passione.
Senza passione che cosa resta?
Solo un lavoro. Uno come tanti altri.