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Domenico Iannacone: “Torno nei luoghi abbandonati dalla Tv, nella palude dei diritti negati c’è verità”

Dopo due anni di assenza, torna in Tv Che Ci Faccio Qui, il programma di Domenico Iannacone che torna sui luoghi delle storie raccontate: “Volevo tornare per capire cos’è successo”. Dopo mesi difficili in Rai, lui resta convinto: “La casa del mio racconto è il servizio pubblico, ho aspettato per non tradire questa mia convinzione”.
A cura di Andrea Parrella
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Torna in Tv Domenico Iannacone. Dopo due anni di "congelamento", il suo Che Ci Faccio Qui riparte con tre puntate (prodotte da Ruvido Produzioni) in prima serata su Rai3, a partire da giovedì 30 maggio. Il giornalista, che negli ultimi anni ha coniato uno stile di racconto, raccogliendo grande consenso di pubblico e di critica, era stato al centro delle cronache televisive la scorsa estate, in concomitanza di quei palinsesti autunnali presentati a luglio in cui il suo programma, a dispetto di quanto ci si attendesse, non figurava tra quelli nella lista previsti per la stagione. Una sparizione alla quale la Rai ha posto rimedio, destinando a Iannacone tre prime serate in cui tornerà su luoghi e storie già esplorati nelle precedenti edizioni per capire cosa sia concretamente cambiato. In questa intervista il giornalista racconta la lunga gestazione e la sua visione del piccolo schermo in questo preciso momento storico.

Partiamo da un elemento tangibile, c'è stato il rischio che il tuo Che Ci Faccio Qui cambiasse nome. Rischio scongiurato, ma ci spieghi come è andata?

Possiamo dire che, per varie combinazioni e questioni di diritti, questo titolo era rimasto in forse, ma per me era importante ci fosse, perché dentro c'era tutto il mio progetto e l'idea di doverlo modificare era pesante. Diciamo che avevo già subito un lutto da I Dieci Comandamenti a Che Ci Faccio Qui, che però includeva nella sua anima il progetto precedente. L'idea di poterlo utilizzare, di essere tornato in onda con lo stesso titolo, mi dà una garanzia anche di continuità emotiva.

Questa stagione racconterà un po' le storie di chi si è salvato e chi si è perduto.

La mia idea era tornare nei luoghi, una specie di dettato della Tv pubblica, non abbandonare le storie raccontate e tornarci dopo alcuni anni per capire cosa sia successo. La concepisco come una specie di attraversamento sociologico del paese, perché tu in qualche modo hai una specie di fotografia analitica della realtà e puoi capire se siano stati fatti passi avanti o indietro.

Hai riscontrato più passi avanti o indietro?

Le prime due puntate, dal titolo "Ti vengo a cercare" capitolo 1 e 2, finiscono col farmi attraversare un sud profondissimo. Torno a Rosarno e lì posso dirti che la situazione è tornata allo stato precedente. Quella che era una tendopoli attrezzata è diventata una baraccopoli, le condizioni di vita non sono migliorate ma per certi aspetti peggiorate nei diritti essenziali. Ho incontrato un'umanità che vive una dimensione di arretramento ancora maggiore rispetto alla dignità minima, la possibilità di essere ritenuti cittadini. Questo mi fa comprendere come spesso noi abbiamo una visione molto populistica delle problematiche. Il concetto di flussi migratori fa pensare al problema come se fosse solo di chi arriva, ma il problema è di chi vive nel nostro paese, chi raccoglie le arance e fornisce braccia per lavoro a pochi euro all'ora. Un meccanismo di sfruttamento legalizzato, che si esprime impunemente, alla luce del sole. Vorrei che i nostri politici, anziché fare talk show, si mettessero su un bus per visitare quei luoghi e assaporare la vita di queste persone.

Hai l'impressione che l'Italia sia ferma da un tempo indicibile?

Io penso che la questione meridionale di cui tanto si è parlato non si sia risolta. Poi c'è una questione legata alla contrapposizione politica che ha davvero bloccato l'evoluzione e lo sviluppo civile, che viaggia parallelamente a quello economico.

Soprattutto civile, aggiungerei.

Quando attraverso certi luoghi ho la sensazione di uno sganciamento dalla realtà. Due persone conosciute circa dieci anni fa le ho ritrovate nelle stesse condizioni di clandestini. Quella roba non riguarda due persone nascoste in una caverna, ma alla luce del sole, a Rosarno. Vite buttate.

In quegli stessi luoghi in cui poi si vanno a chiedere voti.

Ecco, io adesso mi immagino come vengano fatte le campagne elettorali sul tema dell'immigrazione in quelle zone, dinamiche che spingono i candidati a battersi per qualcosa.  Ma io non vedo paladini a difesa degli ultimi, né a destra né a sinistra.

Un'immagine dalla prima puntata di Che Ci Faccio Qui
Un'immagine dalla prima puntata di Che Ci Faccio Qui

Questa stagione di Che Ci Faccio Qui è, insomma, un ritorno sulla scena del crimine quando si è spento il clamore mediatico.

Esatto, A sangue freddo, direi. Io devo tornare nei luoghi quando non sono in una condizione di esasperazione mediatica, se sono accaduti casi di cronaca che spingono giornali e Tv. Io devo andarci quando tutto è stagnante, fermo, quando la palude dei diritti raggiunge la calma più piatta. Ecco perché sentivo l'esigenza di andarci ora.

Il ritorno può essere anche interpretato come una chiusura del cerchio. Immagini che questo progetto si chiuda per lasciare spazio ad altre idee?

Per come la vedo io, in questa fase è una rigenerazione continua. Le storie che vado a ritrovare mi portano dentro ad altre storie, nuovi rivoli che si aprono. Le prime due puntate finiscono in una sorta di dicotomia, da Rosarno a un personaggio che lavorava per una start up acquistata dai giapponesi che si occupa di Intelligenza Artificiale, a Cosenza. Un posto dove lavorano 400 ragazzi assunti a tempo indeterminato: informatici, matematici, linguisti, persone che provengono da un posto fuori dalla geografia comune.

Il tuo cammino poi prosegue in luoghi che sembrano rappresentare contraddizione e unicità di certe realtà.

Vado a A Mammola, ai piedi dell’Aspromonte, dove esiste un luogo che sembra sganciato dal tempo e dallo spazio. Qui Nik Spatari, artista visionario, sordo, amico di Picasso e Le Corbusier, alla fine degli anni ‘60, insieme alla sua compagna Hiske Maas, fondò, dai ruderi di un vecchio monastero, il Musaba: un museo laboratorio d’arte contemporanea al cui interno è custodito “Il sogno di Giacobbe”, da molti definito la Cappella Sistina della Calabria. Nel 2020, all’età di 91 anni, Nik è mancato. A preservare la sua opera è rimasta Hiske, che continua a cullare il sogno immortale dell’arte.

E infine c'è la puntata di ritorno a Caivano.

Quella chiude il cerchio su quel luogo e ricompone la storia di una preside che esce dalla narrazione un po' classica delle dirette televisive che ci sono state nei mesi scorsi, quando sono accaduti fatti di cronaca che hanno dato una esposizione mediatica a quei luoghi senza però rigenerarli. Io non ci sono tornato in quei mesi, volontariamente, per non contaminare il mio racconto. Siamo andati a tessere anche le fila dei ragazzi incontrati in passato, poi diventati uomini. Insieme alla preside ci siamo messi su un treno e a Modena siamo andati a trovare un imprenditore che, proprio vedendo la puntata di anni fa, aveva deciso di investire su questi ragazzi. Insomma, la narrazione si può fare in tanti modi.

Il ritorno a Caivano di Domenico Iannacone
Il ritorno a Caivano di Domenico Iannacone

In questi ultimi mesi Che ci Faccio Qui è diventato anche racconto teatrale. È stato gratificante quanto la Tv?

Ho avuto la possibilità di portare sul palco la vita vera, come se avessi avuto modo di rappresentare l'uomo sospeso tra caduta e rinascita e l'ho potuto fare in una condizione umana sempre molto vicina a me. Mi sono trovato davanti a un pubblico attento, che voleva quasi proteggermi dall'isolamento. Il pubblico ha capito che con questo esperimento teatrale stavo proteggendo un esperimento sociale. Penso che gran parte delle energie per le nuove riprese, le ho raccolte da lì.

Hai anche capitalizzato quella comunità, soprattutto online, che si muove in osmosi a quello che fai.

Sì, la forza che aveva la televisione qui si è trasformata, ha cambiato pelle, rimanendo comunque molto vicina al nocciolo della densità che si voleva raccontare.

Fare teatro è diverso dal fare Tv?

La televisione mi offre la possibilità di raccontare più cose dal punto di vista visivo, mentre il teatro permette di raccontare l'anima.

Che rapporto hai con la televisione contemporanea, per certi versi molto differente dalla tua?

Ci sono programmi che seguo, ma io ne vedo sempre di meno, come se dovessi nutrirmi di altri stimoli. Credo che ci stiamo chiudendo troppo negli studi televisivi e questa è la tomba del racconto televisivo.

Il programma è reduce da uno stop di due anni e mezzo. Ti percepisci come una sorta di corpo esterno alla Rai?

Io mi sento estraneo a una televisione che non accoglie i diritti, non mi interesse se sia di destra o sinistra. Quando la Tv non mi farà raccontare pienamente la mia visione delle cose, la verità, vuol dire che sarà finita. Io spero questa cosa non avvenga.

Qualche difficoltà l'hai incontrata però…

Le difficoltà produttive sono parte del gioco, ma io spero non ci sia nessuna censura, che tutto possa essere raccontato in limpidezza e giustezza.

Consideri ancora il servizio pubblico il luogo giusto?

Ci sono state altre offerte in passato, ma la mia idea è stata quella di tenere duro perché sono sempre stato convinto che la casa del mio racconto fosse il servizio pubblico, che ritengo assolutamente coerente. Ho scelto di non tradire questa mia convinzione. Non è detto che non possa fare altre cose, ma questo tipo di racconto l'ho creata e pensata in Rai ed è giusto che resti lì.

Insomma, rispetto alle tue intenzioni e la tua voglia, questa non sarà l'ultima stagione di Che Ci Faccio Qui?

Io spero sia così, vorrei questo racconto continuasse, che mi venisse data possibilità di farlo. Se non mi sento accolto, protetto, a quel punto

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