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Daniele Tinti: “Stand up e Tintoria due cose diverse, all’inizio mi infastidiva essere ‘quello del podcast'”

Daniele Tinti racconta a Fanpage il suo nuovo show “Crossover” e parla dell’evoluzione della stand up in Italia: “Non è più una nicchia, oggi chi inizia a fare comicità parte da lì”. Sul successo di Tintoria e la forza dei podcast per le interviste: “Non sostituiscono il giornalismo, dove servono domande precise e puntuali, mentre a noi è concesso di fare soprattutto quelle sbagliate”.
A cura di Andrea Parrella
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Daniele Tinti rappresenta a pieno la fase di affermazione che la stand up comedy sta vivendo in Italia, simbolo di come questo genere, dopo anni, sia diventato un riferimento assoluto per chiunque voglia approcciarsi alla comicità. Il comico abruzzese, in giro per l'Italia con un nuovo show ("Crossover" prodotto da The Comedy Club), ha conquistato enorme popolarità anche grazie a Tintoria, podcast condotto con Stefano Rapone, e questa intervista è stata anche un'occasione per riflettere sulle potenzialità del podcast come mezzo espressivo. Il nuovo spettacolo di Tinti si apre con il racconto di un portafogli smarrito, a Napoli, dove le parole "smarrito" e "Napoli" sono da lui accostate con un'evidente sottolineatura sarcastica. Partiamo da qui anche noi.

Dall'accento avvertirai che sono napoletano, poi il portafogli lo hai ritrovato?

Niente, smarrito definitivamente, anche perché l'ho perso vicino alla stazione e quello non è esattamente un posto in cui vai in giro a chiedere se per caso l'abbiano ritrovato. All'inizio veramente pensavo me l'avessero rubato, ma poi ho fatto mente locale e ho capito che m'era cascato. Me ne sono accorto a fine serata. Ero al cellulare, in albergo e mi arriva la notifica della mia carta usata in un bar. Controllo e il portafogli effettivamente non c'era, ma mi è andata bene.

Hai pagato qualche caffè.

Ho pagato una decina d'euro di caffè.

Questo tuo nuovo show appare a tutti gli effetti come uno spettacolo della maturità. Dentro ci sono temi come la paternità, il rapporto con la morte, la monogamia.

Sì, diciamo che lo spettacolo riflette sempre come tu stia nel tempo in cui l'hai scritto. Questo rispecchia cambiamenti che sono sottili ma allo stesso tempo grossi, perché da ultreatrentenne ti cambiano le prospettive sulla vita in un modo che a 20 anni non avresti nemmeno immaginato. Nel caso specifico è stato ancora più repentino perché lo ha accelerato il Covid, c'è un prima e dopo rispetto a quello che ero e questi cambiamenti sono al centro dello spettacolo. La fine dei venti e l'inizio dei trenta per me sta nel passaggio forzato della pandemia.

Il Covid ha rappresentato anche "una roba da raccontare", per una generazione come quella che rappresenti un po' a corto di eventi da consegnare ai posteri.

Sì, va detto che l'Italia non ci aveva offerto grandi momenti, fatta eccezione per i mondiali del 2006. Che però sono decisamente un'altra cosa, un po' più leggera (risate, ndr).

Lo spettacolo si chiama "Crossover" e il titolo è solitamente parte del tutto. Ma in effetti nello spettacolo questa parola sta in un passaggio minimo. Come mai l'hai scelta?

Il titolo dello spettacolo è una cosa strana, te lo chiedono molto tempo prima, tu magari non ce l'hai, non sai ancora come sarà, forse non lo hai ancora completato. Cercare di racchiudere lo show in un titolo è difficile, devi coniugare il tutto con la locandina, la brevità. C'era questa parola, a me piaceva e quindi alla fine l'ho scelta.

La citi come quel movimento che si fa in motorino per conquistarsi la corsia, una specie di finta che fa capire a chi sta dietro che vuoi andare da quella parte. Significa che nella vita, in fondo, conta la prepotenza?

Non è esattamente la lezione che ne ho tratto. Il passaggio sul crossover è un altro di quelli che si rifà alla digressione sulla morte, ma ripeto, la parola stessa non ha un particolare valore simbolico che abbraccia l'intero spettacolo.

Quanto conta l'iperbole nella stand up e che uso fai dell'esagerazione rispetto agli aneddoti che porti sul palco? Insomma, quanto è vero quello che racconti?

Un po' di aderenza c'è, io parto sempre da fatti o comunque sensazioni reali. I sentimenti alla base dello spettacolo sono veri e spesso anche i fatti sono veri fino a dove serve che lo siano. Io parto da me e poi se bisogna far tornare una cosa la faccio tornare perché mi importa più di tutto trasmettere il sentimento dietro all'aneddoto, non la realtà dell'aneddoto. Se una variazione fa scorrere meglio la cosa e fa capire meglio il concetto da esprimere la faccio. D'altronde è uno spettacolo e la premessa è quella.

Anche perché se è vita vera diventa psicanalisi, associazione con la stand up comedy piuttosto abusata.

Concordo, secondo me non deve esserlo, o deve essere quanto pare al comico, nella misura in cui sta facendo uno spettacolo comico e deve far ridere il pubblico. Poi se una cosa per lui terapeutica è funzionale a questo scopo, faccia pure.

"È questo l'amore, giocare a tris coi rispettivi corpi", dici quasi nel finale dello spettacolo. È il tuo aforisma migliore?

È una frase che sembra piacere, soprattutto agli ultratrentenni.

Fai stand up dal 2014 e di questa forma espressiva si parla molto in merito al ruolo che può aver avuto in termini generazionali. Dopo dieci anni sono maturi i tempi per una sorta di bilancio su quello che la stand up comedy rappresenta in Italia?

Sono maturi e stanno maturando tantissimo. Quest'anno a Roma c'è una quantità di serate open mic, comedy jam, ma anche di comici nuovissimi che si buttano, ragazzi e ragazze che anche solo per provare salgono sul palco. Lo trovo meraviglioso, per me è una cosa straordinaria se penso a come era nel 2014, quando c'erano solo Satiriasi e Ferrario. Spero continui a crescere.

Oggi non è più una nicchia, chiunque voglia fare comicità parte da lì.

Diciamo che nelle generazioni nuove, nell'accezione di nuovo all'italiana ovvero persone che arrivano fino a 40 anni, c'è un desiderio di stand up comedy. Ma c'è anche una maggioranza della popolazione italiana che cerca una comicità tradizionale, secondo paradigmi di qualche tempo fa. Di certo se oggi hai 20 anni e ti accosti alla comicità non fai James Tont, che per altro a me faceva morire dal ridere. Hai altre influenze, dai social a Youtube.

Negli anni scorso c'è stata questa specie di dualismo tra la nuova comicità della stand up e quella vecchia. 

Sì, il primo tema della stand up comedy in Italia era distaccarsi dal cabaret: noi non siamo quello. A un certo punto non si poteva parlare di stand up senza dirlo e invece oggi questa cosa non c'è più perché al pubblico non gliene frega niente, ma nemmeno ai comici. Qualsiasi comico della vecchia guardia può andare ad un open mic di stand up e fare anche i suoi pezzi vecchi, qualcuno lo fa. Poi vale la solita regola aurea, se fai ridere te ne vai contento, se non fai ridere rosichi.

C'è stato un disgelo in questa terra di mondi. A Tintoria con Cirilli voi siete onestamente interessati a capire i codici comici di una volta, c'è la volontà di comprendere e da parte loro di essere compresi.

Questo disgelo è avvenuto, da parte mia e di Stefano c'è un grande interesse verso la comicità intesa in senso culturale. Prima la comicità si faceva in modo diverso e ci interessa capirlo non solo dal punto di vista tecnico, ma anche dal punto di vista sociale, relazionale, circostanziale: come era essere Gabriele Cirilli o Martufello ai loro tempi?

A questi nomi della "vecchia guardia", attraverso Tintoria, offrite un lasciapassare, una specie di passaporto per far ridere senza pregiudizio.

Sì, l'idea del podcast è proprio quella, invitare persone cui diamo spazio e tempo di tirare fuori se stesse in qualsiasi senso, come gli pare. Non devono venire a fare il personaggio, ma se durante la chiacchierata viene fuori una battuta, una barzelletta o un monologo, va benissimo anche quello. La grandezza dei podcast per me è proprio questo tempo, questo spazio per stare comodi e tirare fuori ciò che si vuole. C'è da dire che noi chiamiamo davvero solo persone che ci interessano, che vogliamo ascoltare in qualsiasi direzione vadano.

Ormai c'è la fila per venire, soprattutto per certi personaggi che intendono, in qualche modo, svecchiarsi. Cirilli sembrava autenticamente alla ricerca di una legittimazione.

La puntata con lui è stata molto bella, è venuto e si è messo in gioco, anche perché chi viene a Tintoria si trova davanti un pubblico che è dalla parte mia e di Stefano. Lui si è messo in discussione, è stato simpatico e credo sia piaciuto molto a tutti.

Nel grande mondo dei podcast siete i soli a proporre una versione col pubblico. Quanto incide la presenza degli spettatori?

Noi abbiamo cominciato senza, poi abbiamo iniziato col pubblico per necessità post Covid, all'aperto, in un giardino di un locale di Roma, ci sembrava più opportuno. Questa formula ci piace e credo sia una cosa distintiva del podcast, forse l'unico con pubblico in ambito comico. Ti dà energia, spinge l'ospite a venire carico, ci siamo chiesti se alcune puntate sarebbero state diverse senza pubblico e forse sì, ma non è detto che continui così per sempre. Tintoria esiste da anni, non escludo possa cambiare, ma per ora va bene.

Stand up contro cabaret equivale a web contro Tv. Stare fuori dalla televisione consente alla tua generazione di giocare sulle dannazioni di quel mezzo?

Non siamo contro la Tv a prescindere, penso a Stefano (Rapone, ndr) che sta lavorando con la Gialappa's, un formato di comicità tradizionale ma con un respiro contemporaneo. Io credo che per la stand up e per il podcast la televisione non vada bene perché ha delle sue regole, che non so se sia giusto che abbia, ma che sono inevitabili. Ritmi, tempi, codici in netta contraddizione con i principi base di stand up e del podcast, dove hai tempo, puoi essere impreciso, dire stupidaggini. Ci sono tutta una serie di libertà che la Tv non ti dà perché non può darti.

Un conflitto ontologico. La domanda delle domande riguarda sempre il confine di questo divieto: se la Tv chiama come rispondi? Ci andresti a Sanremo?

Secondo me Sanremo è proprio un discorso a parte perché non è un programma comico, è un programma unico in cui a un certo punto arriva il comico. Non è neanche che stai lì a fare stand up, sei lì a fare Sanremo, devi scrivere una cosa per quel tipo di spettacolo e comunque non la considererei stand up comedy in nessun caso. Ma penso anche che il comico tradizionale non vada lì per fare cabaret, quando Siani è andato a Sanremo ho pensato che Siani andava a fare Sanremo, qualunque cosa proponesse. Sulla stand up in Tv ci hanno provato molte volte, ma la Tv ha anche delle regole organizzative e quando inserisci la stand up nel marchingegno televisivo ne esce sempre qualcosa di distante dall'idea originaria.

Quali esperienze hai fatto in Tv?

Io ho fatto una cosa per Sorci Verdi anni fa e poi sono stato a Battute, nel 2019. Adesso ho visto che Cattelan sta dando spazio alla stand up in uno spazio finale. Poi anche a Zelig ci sono stati degli esempi più o meno consapevoli.

Stand up comedy e Tintoria sono la stessa cosa per te? 

Per me sono due mondi diversi, due cose cui mi approccio diversamente, a cui penso in modo molto differente.

Ti dà noia che per qualcuno tu sia quello del podcast e non quello della stand up?

È vero che oggi ci sono un sacco di persone che mi conoscono come quello di Tintoria, all'inizio mi straniva. Un controsenso, perché io ho fatto il podcast per far venire la gente agli spettacoli e quando in qualche modo la cosa ha iniziato a funzionare ho inspiegabilmente rosicato. Una rosicata brevissima, tra virgolette, che il podcast vada molto bene non è affatto un dramma. Mi dà anche molta soddisfazione perché magari viene a vedermi qualcuno che conosce solo il podcast e ho la possibilità di sorprendere. Quando invece viene quel pubblico che mi ha già visto, torna perché si aspetta già che io sappia fare quella cosa.

Un segreto di Tintoria, come dei podcast in generale, è che l'ospite è molto più propenso a partecipare a un podcast che a fare un'intervista canonica.

Sì, l'impressione sembra questa. L'effetto è involontario, in realtà ancora ci sorprende che le cose vengano riprese ed escano fuori come estratti. Gli stessi tagli che facciamo sono al 90% cose che l'ospite ci chiede di tagliare perché magari ha detto una cosa che non gli tornava.

Tagliate molte cose?

No, quasi niente, salvo che per cose tecniche o che l'ospite si sia sbagliato a dire qualcosa.

Una volta in cui è successo?

Di solito è legata a imprecisione, dicono che lo spettacolo parte a febbraio e invece inizia a luglio, cose così. Con Zerocalcare lui ha raccontato una cosa dicendo "adesso questa cosa la racconto alle persone dal vivo e poi la tagliate". E infatti l'abbiamo tagliata. Anche la frase di Cirilli su Brignano, lì per lì detta da lui con grande tranquillità, non ci aspettavamo venisse ripresa dai giornali ed è stato strano.

I podcast si sono di fatto impossessati di un segmento come quello delle interviste. Da giornalista ti chiedo: siete consapevoli di "rubare" il lavoro ai giornalisti?

Sinceramente no. A me il format delle interviste lunghe è sempre piaciuto molto e mi piace anche leggerle, così come mi piacciono alcuni episodi di Belve. Io non ho mai pensato al podcast come a un'intervista, quindi non mi sono mai posto la questione della conflittualità. Un'intervista, non durando due ore, necessita di domande giuste e puntuali, mentre a noi è concesso anche di fare le domande sbagliate. La differenza, forse, è tutta qui.

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