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Claudio Gioé è Mike Bongiorno: “È stato il primo divo della tv, ma viveva la popolarità sporcandosi le mani”

Claudio Gioé interpreta Mike Bongiorno nella miniserie Mike, in onda lunedì 21 e martedì 22 ottobre su Rai1. L’attore siciliano racconta come ha portato in scena il lato più intimo di uno dei volti più amati della tv, sottolineando come pur essendo stato il primo divo della tv non si sia mai comportato come tale.
A cura di Ilaria Costabile
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Nel maggio 1924 nasceva a New York uno dei grandi protagonisti della televisione italiana, considerato uno dei padri fondatori di quella tv che conosciamo ancora oggi, stiamo parlando di Mike Bongiorno. In occasione del centenario della sua nascita a riportarlo sullo schermo è stato Claudio Gioè. L'attore siciliano è riuscito a replicarne la gestualità, la voce, i toni scherzosi e talvolta severi, con una estrema eleganza che non intacca la figura che del noto conduttore è impressa nell'immaginario comune.

"Finalmente abbiamo potuto mostrare questa grande fatica, c'era ovviamente anche Daniela Bongiorno, con i figli di Mike ed è stato molto emozionante" ci ha raccontato parlando della presentazione alla Festa del cinema di Roma, dove la prima puntata della serie è state proiettata in anteprima. Dal racconto di un mito del piccolo schermo, passando per il suo percorso attoriale, Gioè si concede anche alcune riflessioni sulla tv di oggi, prendendo spunto dai programmi di Mike e riflettendo su come, una vita così straordinaria, possa essere monito per chi pensa di non avere le carte per cambiare il suo destino.

Ecco, a questo proposito, Daniela Bongiorno ha raccontato di essersi commossa nel vedere la tua somiglianza con Mike. Per i figli deve essere stata un'emoziona diversa, veder rappresentato il padre in questo racconto. Cosa ti hanno detto?

"Impressionante, ti muovi esattamente come papà. Hai preso i suoi tic, il suo modo di muovere le gambe, agitare le cose". Devo dire che questi commenti mi hanno emozionato particolarmente, perché provo soltanto a immaginare cosa possa aver significato per loro rivedere una rievocazione, così sentita, di una figura che da sempre hanno dovuto condividere con tutti e che hanno amato così tanto.

La serie è strutturata come un racconto di Mike a cuore aperto, che parte da un'intervista che, però, è un pretesto narrativo, perché di fatto non è mai stata realizzata. Col senno di poi, non credi che il suo pubblico lo avrebbe voluto davvero un racconto così intimo?

Qualche intervista in cui ha raccontato fasi drammatiche della sua vita, come il tempo passato nei campi di concentramento, la deportazione, in realtà l'ha fatta, soprattutto per la tv Svizzera. Parliamo dei primi Anni Ottanta. Fino ad allora, in effetti, ha sempre tenuto la sua vita privata lontano dai riflettori per una sorta di pudore, che d'altro canto io condivido.

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Il non intrecciare la vita privata con quella pubblica?

Sì, esattamente. C'è da dire che Mike è stato investito di una popolarità mostruosa, all'epoca era senza dubbio tra i conduttori più famosi, il primo divo televisivo. Ai tempi di Rischiatutto girava con la scorta dei Carabinieri, non riusciva a fare due passi senza essere travolto dall'affetto del pubblico.

Una forma di pudore, ma anche una di tutela aggiungerei. 

Forse non se ne ha percezione oggi, ma c'erano molte riviste che cercavano retroscena, scandali, reali o presunti. Mike ha dovuto fare i conti con questa separazione netta fra la vita privata e il lavoro. Quando nel 1972 ha sposato Daniela, lo hanno fatto in segreto a Londra, sono rientrati in Italia su aerei diversi, per evitare che una volta arrivati all'aeroporto ci fossero i paparazzi. Tutto inutile, ovviamente, li avevano già intercettati. Era un uomo che camminava con i riflettori puntati, quindi ha dovuto trovare una strategia di difesa che consisteva, evidentemente, nel tenere riservata parte della sua vita.

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Una vita che, diversamente da come molti suoi detrattori pensavano, non è stata affatto semplice. 

In questa fiction proviamo a raccontarlo, è una vita che non è sempre stata tranquilla, ma piena di lacerazioni, di separazioni. La mamma e il papà, divisi tra l'Italia e l'America, lui stesso a metà tra queste due realtà, quindi immagino che lui volesse custodire, in qualche modo, questa parte del suo vissuto.

Mike primo divo della televisione, ma non ha mai peccato di divismo. In tutta la sua carriera ha sempre mantenuto un'aura di gentilezza, di garbo, era forse la sua cifra stilistica.

Non era uno di quelli che scendeva dall'empireo del Cinematografo, Mike era uno di noi, proprio per la sua storia di difficoltà, di sofferenza, cadute e tentativi di risollevarsi. Il rapporto con la gente l'aveva maturato in seguito alla sua esperienza di cronista pubblicitario in America, che l'ha messo nella condizione di avere un enorme curiosità. In questi mesi in cui abbiamo girato mi sono reso conto di quante persone avessero degli aneddoti sul suo conto.

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Ad esempio?

Sono stato a Ustica l'anno scorso e una signora mi disse "Ricordo che veniva qui, a presentare delle cose, indossava una camicia particolare". Ognuno aveva un pezzo di vita vissuta in cui era presente Mike. Era uno che si buttava nelle cose, le viveva, l'aneddotica che c'è dietro di lui non è solamente qualcosa di inarrivabile, legata al mezzo televisivo. Parlava con la gente, interagiva, ci si buttava con tutte le scarpe nella vita degli altri. Faceva davvero amicizia, viveva la popolarità sporcandosi le mani e come la possibilità di conoscere l'infinita gamma di varietà umana, quest'aspetto lo ha aiutato a condurre.

La conduzione di Mike Bongiorno si ricorda, in effetti, per non essere mai affettata, ma sempre accogliente.

Quando parlava alle telecamere, anche nel 1954, sapeva perfettamente chi c'era dietro quelle televisioni, qual era l'umanità a cui si rivolgeva, aveva un approccio immediato. Conosceva l'analfabetismo del Mezzogiorno e quindi parlava in modo da non escludere nessuno. Era veramente inclusivo nelle sue trasmissioni.

La fiction, come abbiamo detto, vuole essere un racconto intimo di Mike. Nel 2007 fu pubblicata la sua autobiografia, La versione di Mike, hai attinto anche da lì per provare a carpire le sue emozioni?

È stata la mia Bibbia per tutte le riprese. Tra l'altro questo libro me lo diede mia nonna, quando le parlai del progetto, tirò fuori l'autobiografia di Mike e me la sono portata sul set. Un giorno è arrivato il regista, Giuseppe Bonito, e mi ha omaggiato dello stesso libro, da cui è tratta di fatto la sceneggiatura. È stato un testo fondamentale. L'aspetto interessante sta nel fatto che sia davvero la versione di Mike, perché l'ha scritta a quattro mani con il figlio Niccolò. Già a leggerla, la sua vita sembra un film, sarebbe stato strano non realizzare una fiction.

Elia Nuzzolo, Mike Bongiorno da giovane
Elia Nuzzolo, Mike Bongiorno da giovane

Cosa ti ha incuriosito di più di questo racconto?

Il fatto che lui abbia vissuto sempre con una fede, quasi incrollabile, nelle coincidenze, nei colpi di fortuna, nelle persone incontrate per caso che poi lo hanno portato a diventare quello che è stato. Un atteggiamento sempre aperto nei confronti della vita, molto ricettivo. Questa visione speranzosa, gioiosa degli accadimenti, degli incontri è un elemento caratteriale e psicologico davvero importante.

C'è un momento nella fiction in cui Mike viene folgorato dalla tv e capisce che poteva essere la sua opportunità. Ribaltando la cosa su di te, ricordi il momento in cui hai capito che la recitazione sarebbe stata la tua strada?

Anch'io ero giovanissimo, quando ho sentito i primi battiti amorosi per quest'arte drammatica (ride ndr.). Avevo 17 anni, era la prima volta che salivo sul palco. Ero molto timido, come Mike all'inizio, però quasi in reazione a questa mia timidezza, indossando la maschera teatrale, riuscivo a dare la giusta voce ad alcuni aspetti di me che nel quotidiano non esprimevo.

E dopo tanti anni e tanti personaggi interpretati, quale credi sia l'insegnamento più importante che ti abbia dato questo lavoro?

Ho imparato che il gioco del fare finta è in realtà serissimo, ha bisogno di tanto impegno, dedizione, sacrifici. Ogni volta che finiamo un lavoro ce ne dobbiamo inventare un altro, è un mestiere che ha la precarietà scritta nella ragione sociale, devi farci i conti e devi avere chiaro il fatto che, comunque, è un qualcosa che ti serve a crescere. Al di là degli esiti, dei successi o degli insuccessi, è un percorso volto alla maturazione.

E quando hai iniziato a fare i conti col fatto che una chiamata potesse non arrivare?

Fin da subito. Mi sono imposto di non aspettare nessuno squillo del telefono. Mi sono diplomato all'Accademia Silvio d'Amico a Roma e mi sono sbracciato, mi sono inventato un lavoro. Scrivevo per il teatro, facevo delle regie, mi esprimevo come potevo, in piccoli ambiti, magari comunali a Palermo, nelle rassegne estive, facendo piccoli spettacoli. Mi sono detto che se volevo fare l'attore, avrei trovato il modo di farlo, in qualsiasi ambito o maniera. Lì mi sono reso conto che la mia passione era indipendente dalle chiamate esterne, partiva da dentro, e dovevo mettermi in contatto con quel desiderio lì.

E ti è mancato il teatro?

Purtroppo questo lavoro ha bisogno anche di contesti espressivi adeguati, non sempre la piccola parte, la partecipazione ad un progetto, anche se importante, ti consente di esprimerti al meglio, laddove avevo un'urgenza espressiva, mi sono sempre riferito al teatro. È l'ambito in cui mi sono formato, in cui riesco meglio ad esprimermi, poi se capitano bei lavori come questo di Mike, ad esempio, ma sono anche colpi di fortuna, non ci ho mai fatto troppo affidamento. Insomma, almeno fino ai 33 anni, ho sempre fatto piccole parti.

A proposito di ruoli, per diverso tempo hai preso parte a progetti che raccontassero la Sicilia, sottolineandone un determinato aspetto, relativo alla mafia, alla criminalità. Da siciliano, credi che abbiano inquinato, ancor di più, la percezione che si ha dall'esterno? 

Ci sono prodotti che nascono e cavalcano l'onda, raccontare la mafia, come anche la Camorra, diventa un pretesto per creare serialità di successo. Laddove ho subodorato un pericolo del genere, mi sono gentilmente defilato. Nel Capo dei Capi, ad esempio, è raccontato un pezzo di storia tragica della mia terra, sicuramente, ma ad esempio Squadra Antimafia dopo due stagioni sono andato via. Spero sempre di prendere parte a prodotti che abbiano un senso di denuncia, che raccontino aspetti anche poco noti.

Claudio Gioé ne Il Capo dei Capi
Claudio Gioé ne Il Capo dei Capi

Ad esempio con Makari, che sta avendo un grande successo, si è riuscito a raccontare la Sicilia senza lo stigma della criminalità, ma in maniera leggera. 

Con Makari abbiamo fatto un lavoro diverso, che ha dato i suoi frutti. Però è pur vero che bisogna fare sempre una distinzione, sono prodotti che hanno una finalità di intrattenimento. In merito al racconto della criminalità dovremmo chiedere conto alle istituzioni, a chi può diffondere con i giusti strumenti la cultura della legalità.

Claudio Gioé in Makari
Claudio Gioé in Makari

Che non spetta alla televisione o almeno non più. 

Credo che spesso ci sia l'idea che la televisione sia onnicomprensiva, culturalmente parlando, certo bisognerebbe dargli il giusto peso. Ecco, non è più la televisione di Mike, che in qualche modo era educativa, aveva un impianto ideologico che oggi è completamente scomparso. Prima la tv si poneva il problema di rispondere ad una richiesta di conoscenza, di crescita, sviluppo. Oggi, spesso, è solo intrattenimento e non sempre di qualità. Magari questa fiction può far maturare anche una riflessione sulla televisione.

In tema di riflessioni, cosa speri che possa suscitare nel pubblico questo racconto e la tua interpretazione di Mike?

Mi auguro che il racconto di questa vita straordinaria possa porre l'accento sul fatto che Mike ha affrontato ogni avvenimento, in maniera stoica, non è stato tutto semplice. Credo che oggi siamo tutti un po' viziati, abituati ad avere le cose facilmente, soprattutto noi occidentali, con la nostra cultura consumistica, in cui è tutto facile da comprare, basta scrollare il cellulare, muovere un dito e le cose ti arrivano a casa come per magia. Questa facilità ha deviato una parte importante nell'affrontare la vita, che è difficile, è piena di cose per le quali bisogna lottare. Questo penso sia l'insegnamento più grande, anche per i giovani, affinché non si abbattano, non si chiudano, non si lascino prendere dalla noia collettiva, dalla stanchezza cronica che tocca alcuni ceti sociali. Le cose non vengono dall'alto.

Che la vita di Mike sia un monito, allora. 

Esatto. Non è vero che non possiamo cambiare le cose, Mike con questa storia porta avanti un esempio straordinario di come le cose e la vita si possano affrontare con dedizione, impegno, tenacia e allo stesso tempo serenità, parole che oggi sembrano scomparse.

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