Claudio Amendola: “Dell’ipocrisia di chi snobba la Tv me ne sono fregato. Salvato da Totti e Ilary durante la separazione”
Raccontare un attore come Claudio Amendola significa dover tessere le fila di un passato importante, un'infanzia della quale non si può non tener conto, segnata dalla presenza di due genitori come Ferruccio Amendola e Rita Savagnone, tra le più belle voci del cinema italiano. L'attore romano torna su Canale 5 con la seconda stagione de Il Patriarca, serie di cui è anche il regista, in cui torna a vestire i panni dell'imprenditore Nemo Bandera. Eppure, davanti alla macchina da presa ci è finito spinto da sua madre, una donna che lo ha forgiato con la sua libertà di pensiero, il suo essere "una madre diversa dalle altre", come scrive nel libro "Ma non dovevate andrà a Londra?" la sua prima autobiografia, nelle librerie dal 12 novembre, in cui racconta la sua infanzia e quegli accadimenti che lo hanno reso l'uomo che è oggi. Della memoria, della politica, la televisione e l'ipocrisia di chi chi si approccia alle serie di grande popolarità con sufficienza Amendola ne parla con la certezza di chi sa di aver lavorato con l'entusiasmo di mettersi in gioco e non esita a farlo ancora: "Il ritorno dei Cesaroni è insidioso, ma non ho paura" ci racconta in questa intervista.
Torni a vestire i panni di Nemo Bandera, un personaggio che tu stesso hai definito sfaccettato: spietato e fragile allo stesso tempo. In che modo si incontrano questi due aspetti del suo carattere?
Si incontrano per cause di forza maggiore, perché la fragilità di Nemo viene fuori con la malattia, all’inizio della passata stagione. Si confronta con qualcosa di nuovo. Essere debole per un personaggio come Nemo è un passaggio complicato, destabilizzante e unire queste due sfaccettature è un po’ la sfida del personaggio.
Del Patriarca, come di altri prodotti tra cinema e tv sei anche regista. Dal punto di vista dell'esigenza comunicativa, cosa ti dà in più stare dietro la macchina da presa?
Che poi ci sto spesso davanti (ride ndr.). È chiaro che stando dentro la scena ne hai una padronanza diversa, da attore ho sempre sentito che quello spazio vitale ha bisogno di essere occupato, è uno spazio tuo nel quale muoverti. Immaginare, mettere in piedi le scene, essendone anche il pupazzo e dico pupazzo non a caso. Un grande regista, che era Steno, lavorandoci insieme mi disse che quando i pupazzi funzionano, i registi non devono fare niente. Sono molto d'accordo. E quindi, essere il regista di te stesso è faticoso, ma può essere un grande vantaggio.
Cosa dovrà aspettarsi il pubblico da questa seconda stagione?
Tutte le storie che abbiamo lasciato aperte, tutto quello che abbiamo seminato arriverà a dama. Il pubblico si è entusiasmato nel vedere questa serie, l'ho visto nei mesi successivi, in attesa della seconda. Il commento più frequente era "Però mi raccomando eh, a quello vendetta" (ride ndr.) Non sarà facile, ma credo proprio che arriveremo a soddisfare quella voglia di rivalsa.
Nell'intervista che hai rilasciato a Belve hai detto di aver iniziato a fare questo mestiere per fare un piacere a tua madre (Rita Savagnone ndr.). Cos'è che ti aveva chiesto?
Di fare un provino per Storia d’amore e d’amicizia, perché cercavano un ragazzo esattamente come me. Dopo mesi che insisteva, e nel frattempo non avevano trovato questo ragazzo, la mia è stata una fortuna sfacciata, per sfinimento le ho detto “va bene mà, ci vado”. Ed eccomi qua.
Possiamo dire sia stata la prima a riconoscere un talento.
Non so se mamma avesse intuito qualcosa o se fosse soltanto la speranza, la voglia di inserirmi, cogliere un’opportunità. In tutti i due casi è stata brava.
A proposito di tua madre, nella tua prima autobiografia "Ma non dovevate andà a Londra"?, la racconti come una donna libera, intraprendente, idealista. In cosa pensi di somigliarle?
In parecchi difetti. Però credo di somigliarle nella libertà di pensiero, nella consapevolezza che la vita è una e va vissuta. Ma soprattutto mamma mi ha insegnato ad essere un uomo libero.
Mentre tuo padre, Ferruccio (Amendola ndr.) nel libro è descritto come il padre della goliardia, soprattutto nei ricordi d'infanzia. Pensi mai che se ne sia andato troppo presto, prima che potesse vedere il successo che ti è arrivato dagli Anni 2000 in poi, nonostante fossi già noto come attore?
Sicuramente se n’è andato troppo presto. Papà è morto a 70 anni, oggi è da considerarsi quasi giovane. Non ha visto crescere Rocco, non ha visto i suoi bisnipoti, più che il mio successo che comunque è stato ampiamente condiviso, mi sarebbe piaciuto vivere tanti anni ancora insieme, ma sul lavoro meno. Mi sarebbe piaciuto capire cosa direbbe oggi della Roma (ride ndr.)
È stato esonerato anche Juric.
Eh viva Dio, meno male. Vediamo che succederà.
Aspettative per questa Roma? So che è un argomento tabù.
Non ne ho, non ne parlo (ride ndr.)
(Aggiornamento: A qualche ora dall'intervista è arrivata l'ufficialità del ritorno di Ranieri sulla panchina della Roma)
Nel libro racconti anche di aver ereditato da tuo padre la passione per le carte, cos'altro pensi di aver ereditato?
Più che ereditato ho imparato da papà due, tre cose fondamentali per il lavoro: la puntualità e il fatto che ci sono 70, 80 persone che lavorano per il bel faccione tuo. Me l'ha detto il primo giorno che sono uscito di casa per andare a lavorare. Rispetto è una parola che è sempre riecheggiata in casa mia, rispetto per il lavoro degli altri e per gli altri.
Parlando di successo, hai annunciato il primo ciak di una serie amata come I Cesaroni, il prossimo febbraio. Un ritorno attesissimo che, come tutti i ritorni, porta con sé delle aspettative.
Enormi.
Ecco, temi che rimetterci mano dopo tanto tempo possa essere insidioso?
Si, lo è. Ma non ne ho paura. È sicuramente insidioso, c’è un’attesa febbrile, che non va disattesa, ma allo stesso tempo siamo un gruppo solido. Ci sarà il gruppo storico degli autori, poi tutti i maschi Cesaroni torneranno. È vero, non ci vediamo da un po’, però sono convinto che ritroveremo quello spirito, quel metodo Cesaroni che abbiamo tanto raccontato. Sono molto curioso, oltre che super eccitato.
Che, poi, i Cesaroni come molti prodotti di lunga serialità hanno lanciato diversi attori emergenti.
Sì, assolutamente. Anche se è stata un’arma a doppio taglio. Qualcuno è stato più bravo a scegliere le occasioni, forse a volte ad allontanarsi prima. C’è stato e c’è uno snobismo rispetto agli attori che fanno serie televisive di grandissimo successo, ma anche molto popolari. È una roba antica, salvo poi andare in crisi il cinema e quelli che criticano la televisione ci si buttano, questa ipocrisia dura da sempre. Io ne sono l’esempio, me ne sono sempre fregato di questa roba, ho sempre fatto tantissima televisione e mi è capitato di fare anche qualche film al cinema, ma giusto qualcuno.
Pensare che in America funziona al contrario.
Eh perché noi prendiamo solo il peggio delle altre culture.
In questi anni non hai mai nascosto di aver dovuto fare i conti con problemi di dipendenza. Cosa hai imparato di te stesso in quei momenti, soprattutto una volta uscito?
Ho imparato questo: se abbiamo delle basi solide, e io le ho, e stanno proprio in quel libro, siamo più forti delle dipendenze, siamo più forti delle nostre pigrizie, il nostro lasciarci andare. Per me è stato ed è anche un motivo di orgoglio, non ho dovuto parlare con un medico, ho soltanto detto “A' Clà, ma che cazzo stai a fa?”. Chiedo scusa per il francesismo.
Sei sempre stato molto riservato, il fatto di dover rendere conto pubblicamente del tuo privato, in un periodo delicato come la separazione da Francesca Neri, è stato motivo di ulteriore sofferenza?
L’abbiamo gestita molto bene. Ne ho parlato quando era giusto parlarne, quando sarebbe stato ipocrita non affrontare il discorso, ma l'essere stati riservati, ci metto dentro Francesca ancora più di me, ha pagato perché siamo stati molto rispettati. Siamo stati anche fortunati, ci siamo separati nello stesso periodo di Totti e Ilary, quindi mi pare che l’attenzione fosse abbastanza spostata, non si sono risparmiati. L’ho ringraziato Francesco, gli ho detto “guarda grazie, perché così stanno tutti appresso a voi” (ride ndr.)
Da qualche tempo arrivi in tv anche come ospite di programmi, penso a Io Canto su Canale 5. Ma una virata verso una carriera da showman?
Non sono uno showman, magari lo fossi, però a me il mezzo piace molto. L’esperienza di Scherzi a Parte, che ho presentato per due anni, il sabato sera che ho fatto su Rai1, mi piace moltissimo la televisione. Non lo escludo, ci pensiamo da tanti anni a Mediaset a fare qualcosa, però poi arriva sempre una fiction, un film, che ci fa dire "vabbè facciamo questo altr’anno". Però tutte queste puntate con Gerry, me lo spizzo, me lo studio bene (ride ndr.)
Tra le tue regie più recenti c'è I Cassamortari, di cui ho letto vorresti realizzare anche un terzo capitolo.
Mah c’è l’idea, Ari-Cassamortari si chiude con un’apertura enorme, quindi non è detto che Tri-cassamortari non si possa fare.
La tematica trattata è particolare, è un modo goliardico per esorcizzare l'idea della fine?
Forse sì, inconsciamente. Mi sono suicidato nel primo Cassamortari, quindi immagina che rapporto io abbia con la morte. È ineluttabile. Che devi fa? Prima o poi arriva, mi rendo conto che sia meglio tardi che prima.
Hai sempre detto di esserti sentito libero di sbagliare da ragazzo. Credi di aver lasciato la stessa libertà ai tuoi figli?
Decisamente sì, hanno sbagliato molto meno di me. Ma credo sia assolutamente inevitabile, formativo, poi ci sono sempre quegli errori che avendo delle basi solide eviti di fare. Credo che anche i miei figli, sia le ragazze, che Rocco, nel momento della stronzata abbiano detto "vabbè dai fermamose".
Nel libro scrivi: "Sento di essere stato figlio nella stessa maniera in cui loro sono stati genitori. Sono molto debitore per ciò che ho ricevuto, ma penso di aver restituito tanto". Cosa hai restituito?
Affetto, amore, fiducia, soddisfazioni e quando dico di essere stato figlio nello stesso modo in cui loro sono stati genitori è senza l’obbligo di essere figlio. Sono uno che ha smesso di partecipare agli appuntamenti canonici, natalizi, prestissimo. E allo stesso tempo non gli ho mai rimproverato una grande libertà che si sono presi nel ruolo di genitori. Delegare a donne di servizio, a fratelli maggiori, perché avendo un fratello maggiore di tre anni, quando lui ne aveva 12 io ne avevo 9 stavamo a casa da soli, prendevamo l'autobus la mattina per andare a scuola, già da piccolissimi, perché se mamma non aveva il turno, col fischio che si alzava. Beh chapeau.
Che valore ha la memoria per te?
Un valore enorme, io vivo di ricordi, ma non perché vivo di ricordi, ma perché mi piace proprio ricordarli, perché mi emoziono. La memoria è fondamentale per le società, sia memoria storica che affettiva, è così che creiamo il mondo che stiamo creando. Conoscere il passato, quello che hanno vissuto i nonni, ma non facendo la crostata della domenica, imparare dalle generazioni precedenti è una cosa che non possiamo perdere. Non è retorica, è veramente importante avere quegli insegnamenti. È vero che la storia di ripete, è vero tutto, ma bisogna averne memoria. La memoria è quel fil rouge che non possiamo tagliare con il passato, con la nostra storia.
A proposito di storia, nel libro racconti del viaggio nei paesi dell'Est che per tua madre ha rappresentato una grande disillusione. Ma allo stesso tempo, è stato il motore di una tua forte fede politica. Come si reagisce al vedere come sono cambiate nel tempo le cose?
Si reagisce con la memoria, con un po’ di nostalgia, non lo nego. Con la certezza di avere delle basi, quell’importanza che la mia generazione e quelle precedenti davano alla politica con la P maiusciola e ai politici. Oggi ti cascano un po’ le braccia, vedere ogni tanto in televisione politici della prima repubblica che all’epoca non stimavi tantissimo e riconoscerli come giganti rispetto alla classe politica odierna, ma fugando ogni colore per carità. La politica era ed è una cosa importante, alla quale però mi approccio con la versione nostalgica di me. Ogni tanto penso se fosse vivo De Andrè, se fosse vivo Gaber, ma che direbbero oggi? Scriverebbero delle cose meravigliosamente belle, ma se fosse vivo Enrico Berlinguer, se fosse vivo Giorgio Almirante? Questo è terribile.
Chiudiamo con una chicca: ti senti un simbolo della romanità?
Sì (ride ndr.) Mi ci sento perché a forza di sentirmelo dire, di farmi prendere la guancia, perché a me me fanno ancora a' scafetta, (il gesto di prendere la guancia tra due dita ndr.), che è segno di grande intimità. Mi sento parte di questa comunità, perché ancora mi piace chiamarla comunità, ed è un motivo di orgoglio, ma non tanto per la Roma, ma per Roma.