Chiara Celotto in Vincenzo Malinconico 2: “Abbiamo portato in tv quell’ironia intelligente che mancava”
Chiara Celotto ha solo 27 anni e un passato da ballerina alle spalle, ma la danza fa ancora parte di lei e del suo modo di stare al mondo. Se c'è una cosa certa è che il palcoscenico è la sua casa, il posto in cui riesce ad esprimersi, a far emergere il suo talento, a comunicare le sue emozioni. La vediamo su Rai1 nei panni di Alagia, in Vincenzo Malinconico – Avvocato di insuccesso 2, accanto a Massimiliano Gallo, una serie capace di portare ironia e allo stesso modo di far sorgere qualche riflessione: "È questo il valore aggiunto" racconta. Dal ruolo di questa giovane donna indipendente, il primo davvero importante, ne sono arrivati altri, sempre più stimolanti, sebbene Chiara è convinta che si possa fare qualcosa in più: "C'è bisogno di indagare in maniera più approfondita nella mente delle donne" ammette, convinta che i ruoli femminili possano diventare sempre più sfaccettati.
Ti ritroviamo nei panni di Alagia in questa seconda stagione di Malinconico. Sta per diventare mamma, è sicuramente maturata, cos'è che rimane immutato di lei dalla prima alla seconda stagione?
La sua positività nel guardare le cose, la leggerezza che, però, diventando mamma inevitabilmente perderà almeno un po'. In questa seconda stagione si pone più domande sul suo futuro, è più adulta, abbandona la spensieratezza, ma non il suo carattere ironico. Continuerà a prendersi in giro con Vincenzo, resterà quel rapporto paritario che c'è tra loro.
Il rapporto tra Vincenzo e Alagia, nei libri è raccontato in maniera dettagliata. In quanto autore dei libri, De Silva ha collaborato anche alla sceneggiatura, vi è stato d'aiuto per ricreare quella stessa armonia anche in scena?
Certo, De Silva è stato presente sul set e mi ha sempre fatto notare che, alla fine, il rapporto tra Vincenzo e Alagia è nella realtà il legame che unisce lui e sua figlia Chiara. L'ho conosciuta e sono entrambi molto diversi da me e Massimiliano, però è stato facile trovare quella chimica che sfocia nell'amicizia. La scrittura di De Silva ci ha aiutato molto, non è banale e non è melensa, descrive un rapporto molto umano, poco favolistico.
La fiction su Vincenzo Malinconico è stata accolta con grande entusiasmo dal pubblico e dalla critica, è stata definita come un "qualcosa che mancava". Se dovessi dirmi una caratteristica che la differenzia dalle altre fiction presenti in Rai, cosa mi diresti?
Un'ironia molto intelligente. Non si tratta solo di comicità, è una sfumatura diversa, perché l'ironia ti permette di riflettere su temi, magari non incredibilmente complessi, ma con cui abbiamo a che fare quotidianamente. Guardandola, oltre a divertirti, è come se avessi un'illuminazione.
Ma parliamo di Chiara. Dopo il liceo ho letto che avresti voluto fare psicologia, poi la vita ti ha portato da un'altra parte. Cos'è che ti affascinava di quel lavoro?
In realtà non è che avessi tutto questo slancio, cercavo qualcosa da poter coniugare con la danza, pensavo che in futuro avrei potuto fare qualcosa come la danza terapia, per seguire una strada che unisse la mia passione ad un lavoro canonico. Personalmente ho fatto tanta terapia, e mi ha sempre affascinato l'idea di poter leggere, in qualche modo, le persone e fare psicologia avrebbe approfondito questo aspetto, ma non mi avrebbe reso felice.
Fare l'attrice, invece, ti rende felice.
Sì, e poi penso che ci sia un parallelismo tra la psicologia e il mio lavoro. Affrontando un personaggio e seguendolo nelle varie situazioni che lo riguardano, devo entrare nella sua mente, capire perché si comporta in un certo modo in un determinato contesto. È come se analizzassi un essere umano, però scritto.
Parlavi di terapia, in un'intervista recente hai detto di aver attraversato un periodo difficile prima di prendere parte al set di Mameli e questa cosa si ripercuoteva anche sui casting. Cos'è che non ti faceva stare bene?
Ho avuto una brutta esperienza emotiva, che mi ha fatto perdere l'allegria, l'autostima, trovare la gioia in qualsiasi cosa. Ero spenta. Nei provini, ovviamente, questa cosa viene fuori, pur interpretando altre persone, sei sempre tu a dar loro vita e si può mentire, ma fino ad un certo punto. Non riuscivo ad essere una tavola bianca.
C'è qualcuno che questa cosa te l'ha fatta notare?
Sì, mi è capitato con un casting director che già conoscevo, mi disse che non mi trovava come al solito. E da lì ho pensato di dover prendere in mano la situazione.
La danza è stata una parte fondamentale della tua vita, cos'è che hai portato di quel mondo nella recitazione?
La danza mi ha aiutato ad essere veloce nella ricezione delle cose da imparare e nella versatilità. I primi periodi in Accademia (al Teatro Bellini di Napoli ndr.), riuscivo subito ad andare nella direzione che mi veniva chiesta, anche se non in maniera eccellente. Però ho dovuto modificare la mia presenza sul palco, ero troppo leggera, poco piantata al terreno. Quando c'è da lavorare con il movimento riesco a concentrarmi di più, sono anche più naturale. Però non ho ancora mai fatto un provino per Step Up 13 (ride ndr)
Il fatto di aver ballato per così tanti anni ti ha messo in una condizione di continuo dialogo con la tua fisicità. Che rapporto hai, oggi, con il tuo corpo?
Ultimamente un po' complicato. Dopo aver fatto tanti anni di danza, trovo fare palestra noioso, poco stimolante. C'è stato un periodo in cui sono stata ferma e contemporaneamente sono passata dall'essere una ragazzina, all'essere una donna. Il mio corpo si è modificato e sono sempre molto critica. Non ho la stessa fisicità di quando mi allenavo tutti i giorni e mi è capitato di non sentirmi perfettamente a mio agio. Però, ad esempio, mangio con gusto quindi cerco di stare attenta, ripetendomi che non sono una modella, ma un'attrice.
Tra i personaggi che hai interpretato, c'è stato anche quello di Adele in Mameli su Rai1. Una donna rivoluzionaria, che ha lottato per i suoi ideali. Pensi che un personaggio del genere possa essere d'esempio anche oggi?
Rispetto all'epoca che abbiamo preso in considerazione (Risorgimento ndr.), non c'è più quel sentimento grande e univoco di lotta da parte dei giovanissimi. Oggi sembra che non ci siano più né ideali, né grandi nodi per sé stessi, per chi ci è accanto. Quindi non solo il personaggio di Adele, ma il progetto in sé, la storia di Mameli, può insegnare che si può combattere per ottenere qualcosa in cui si crede. Forse può anche insegnare a credere in qualcosa, anche se è molto difficile in questo momento storico, è come se già vedessimo tutto nero.
E personalmente, cos'è che ti aiuta a non vedere tutto nero?
È molto complicato, ci si deve aiutare da soli in quei momenti. Nel lavoro, semplicemente, la consapevolezza che questo è quello che voglio fare, le cose vanno avanti anche se posso scoraggiarmi. Meglio perseverare in quello che si fa con positività, piuttosto che con angoscia. Poi, certo, questo lavoro comporta un'altalena emotiva e non sempre è facile da gestire.
Parlando di perseveranza, credi che la determinazione sia un elemento imprescindibile per riuscire nel tuo lavoro?
Sì, assolutamente, perché ti porta a fare sempre di più. Ovviamente se si studia, le cose si fanno e si fanno bene, però è anche vero che bisogna saper accettare i propri limiti. La determinazione aiuta nel diventare precisi, concentrati, ad essere sempre più giusti. La frustrazione e la fatica più grande in questo lavoro non sta nel dover essere bravi, ma nell'essere giusto per un certo ruolo. E lì, c'è poco che tu possa fare.
Bisogna coltivare un po' di sana autostima.
Assolutamente. Spesso è difficile conservarla, è per questo che la terapia, in generale, è importante non solo per metabolizzare i propri traumi, ma soprattutto per accettarsi con i propri limiti.
In un'intervista parlavi della bidimensionalità dei ruoli femminili, confrontandoli con quelli maschili che reputi più tridimensionali. Cosa manca ai personaggi femminili e che invece dovrebbe esserci?
Un'attenzione alla mente femminile, perché è spesso trattata in maniera stereotipata, generica e credo ci siano delle sfumature più interessanti che si potrebbero dare ai personaggi femminili. Posso arricchire un'interpretazione studiando e quindi faccio emergere qualcosa in più, però se la sceneggiatura non ti permette di dare spazio a quel tipo di profondità, non verrà fuori.
Stai dicendo, quindi, che i personaggi maschili sono più interessanti?
Trovo che i protagonisti maschili in alcuni film siano più particolari, sono più sfaccettati. È un peccato, mi piacerebbe che anche per le donne ci sia quella definizione in più che le renda interessanti.
A proposito di personaggi femminili, ti vedremo in Sara su Netflix. Cosa puoi anticiparci?
Non so ancora quando la vedrete, però io interpreto Viola, una ragazza incinta il cui compagno muore. Si trova a vivere un paradosso, ha la vita dentro, ma deve fare i conti con la morte. È un personaggio drammatico, difficile da affrontare, perché non ho vissuto nessuna delle due cose. Ho avuto una buona guida e una grande compagna di scena che è Teresa Saponangelo.
Hai raccontato di aver avuto difficoltà, quando hai iniziato a recitare, pur essendo abituata al palco dopo anni di danza e spettacoli. Cos'è che ti intimoriva?
All'inizio non è stato per niente facile, il direttore dell'Accademia durante i primi provini mi spronava dicendomi che se non mi fossi buttata a fare le scene, non avrebbe potuto valutarmi. Vedevo gli altri attori entusiasti, non vedevano l'ora di mettersi in mostra, io avevo paura. Quando balli nessuno sa che puoi sbagliare, le parole sono riconoscibili, sei più esposta e di conseguenza sei più fragile.