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Camilla Mancini: “I bulli mi isolavano. Ho odiato il mio cognome, si avvicinavano a me solo per mio padre”

Camilla Mancini, figlia di Roberto Mancini, si racconta in un’intervista. Nel suo libro “Sei una farfalla” tocca temi come il bullismo di cui fu vittima da piccola.
A cura di Eleonora di Nonno
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Camilla Mancini, figlia dell'ex c.t dell'Italia Roberto Mancini, l'8 ottobre ha esordito con il romanzo Sei una farfalla in cui tocca il tema del bullismo di cui lei stessa è stata vittima. La 27, infatti, ha spiegato che a causa di un problema durante il parto è nata con una paresi sul viso: "A scuola mi dicevano ‘Non puoi giocare con noi, sei diversa'. Vedevano un volto che non erano abituati a vedere e mi isolavano". In un'intervista al Corriere della Sera ha parlato del rapporto con suo padre, del suo ultimo libro e delle difficoltà vissute nel corso della sua vita.

Camilla Mancini: "Il mio cognome è stato un fardello"

Camilla Mancini ha sempre avuto la passione per la scrittura, fin da quando era piccola. La molla per scrivere un romanzo le è scattata un paio di anni fa durante un viaggio a Parigi. Nel suo libro parla di ciò che conosce: "Come avere un papà ingombrante perché famoso". Nell'intervista ha spiegato che spesso ha sentito la sua mancanza: "Sapevo che si trovava lontano per lavoro e che lo faceva anche per la famiglia. Quando ero piccolina, lo vedevo in tv e chiedevo ‘Ma perché papà è dentro quella scatola nera?'. Mi faceva strano. Ma attraverso questa mancanza fisica mi ha insegnato il senso del dovere e del sacrificio". Tra i ricordi felici con lui c'è quando si addormentavano insieme:

C'è una foto in cui ho gli occhi semiaperti per controllare se stesse dormendo anche lui oppure no, forse avevo paura che potesse andarsene all'improvviso. Ricordo anche quando si sedeva sul divano a guardare le partite. Lo raggiungevo, mi interessavo, gli facevo domande. "Ma tu non ti spegni mai?", scherzava. Ci accomuna da sempre un'ironia sottile.

Camilla Mancini ammette di aver anche "odiato" il suo cognome: "Quando per esempio le persone si avvicinavano a me per arrivare a mio padre, o quando mi chiedevano ‘Ah ma sei suo parente?' e la conversazione si focalizzava solo su di lui. Quelle persone non vedevano Camilla ma solo Camilla Mancini". Ha aggiunto che spesso è stato un fardello: "Sentivo la responsabilità di rappresentarlo in un certo modo e  quindi mi privavo delle esperienze delle mie coetanee". È consapevole di essere una privilegiata ma sa anche cosa significa sentire la mancanza di abbracci e carezze: "Si pensa che i ‘figli di' siano degli alieni, quando invece vivono emozioni umane. Io per esempio non sono stata immune dal bullismo. La sofferenza non guarda in faccia, colpisce e basta".

"Ho lottato con lo specchio, ora mi voglio bene"

Camilla Mancini è nata con una paresi facciale. "A scuola mi dicevano ‘Non puoi giocare con noi, sei diversa'. Vedevano un volto che non erano abituati a vedere e mi isolavano. Avevo sette anni, mi creava un senso di vergogna e spaesamento – ha raccontato – Diversa da cosa, mi chiedevo. Più avanti il bullismo è diventato subdolo. ‘Ah, ma cosa hai al viso?', oppure ‘Perché hai la bocca così?'. Non me ne capacitavo. Pensavo ‘E se non volessi rispondere?'". Per anni ha combattuto contro la sua figura allo specchio, evitando di guardarsi: "Non mi piacevo e non mi sentivo rappresentata da quell'immagine. Ero in lotta con la mia identità. Non riuscivo a capire chi fossi al di là di quel cognome che portavo. Ora sono arrivata a uno stato di accettazione, mi dico "sei bellissima" e che mi voglio bene". Ad aiutarla è stata la terapia: "Ho iniziato per una motivazione che non mi riguardava in prima persona ma, quando inizi a tirare fuori, scavi sempre di più nel tuo passato, tornando a ciò che sei stata da bambina". Ha scritto un libro per mettere a disposizione la sua testimonianza per altre persone. Ai bulli direbbe di stare attenti alle conseguenze di ciò che dicono: "Tanti ragazzi non riescono a convivere con quel senso di inadeguatezza e si tolgono la vita. Ma non porto nessun rancore, la sofferenza mi ha insegnato ad accogliere o al massimo a compatire".

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