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Barbara Chichiarelli: “In Antonia raccontiamo donne lontane dai cliché, anche nella maternità”

Barbara Chichiarelli è Radiosa nella serie Antonia, su Prime Video. L’attrice romana si racconta in un’intervista dove partendo dal ruolo di una madre alle prese con stanchezza e isteria, scardina i cliché delle nostra società: dalla maternità, alla conoscenza di sé, fino all’importanza della formazione.
A cura di Ilaria Costabile
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Barbara Chichiarelli si è fatta conoscere dal grande pubblico ormai diversi anni fa, e da quando è comparsa su Netflix per la prima volta nel 2017, con Suburra, la sua carriera non si è più fermata. Da Favolacce dei Fratelli d'Innocenzo, che le è valso una nomination ai David di Donatello, passando per Maschile Singolare, toccando le vette di The Good Mothers, ora è su Prime Video con Antonia, una serie in cui interpreta Radiosa, una donna alle prese con la maternità che, però, non è così idilliaca come siamo soliti raccontarci.

In attesa dei nuovi progetti che sono in uscita, come "M, il figlio del secolo" l'attrice romana si racconta parlando di questioni che riguardano le aspettative che la società nutre attorno alla figura della donna: "Siamo spesso rappresentate come eroine, con questa maschera di infallibilità che però non corrisponde al vero". E, ancora, delle disuguaglianze che ancora ci sono e che dovrebbero essere scardinate: "Andiamo a vedere i dati, quanti studi sono stati fatti sul corpo dell'uomo e quanti sul corpo della donna", tracciando un percorso in cui la conoscenza di sé è un fattore imprescindibile per capire chi siamo, cosa ci emoziona davvero e, soprattutto, che tipo di mondo vogliamo costruire.

Il tuo personaggio si chiama Radiosa, un nome che però è in netta contrapposizione rispetto a come appare.

È interessante lo scarto che c’è tra il nome e la presentazione del personaggio, che poi si ispira ad una donna che realmente esiste. Radiosa ha avuto una figlia, la sua vita è totalmente cambiata, come lo è anche lei, e questo mutamento rappresenta anche il contrasto tra lei e Antonia. Sono migliori amiche e diventano lo specchio l’una dell’altra.

Riscontrando, però, che le loro vite sono ormai diverse.

Credo che siano la rappresentazione di un ostacolo l’una per l’altra. A Radiosa dispiace che Antonia non abbia fatto questo scatto di maturità, è un dispiacere che nasce dal desiderio di voler condividere tutto con le proprie amiche, anche passaggi di vita importanti, ma le cose non accadono sempre nello stesso momento. In più ora a Radiosa manca tutto quello che ha Antonia, come la libertà di cambiare i piani in corso. In entrambe c’è nostalgia di un passato insieme, ma anche di un presente in cui non possono confrontarsi.

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Il personaggio di Radiosa racconta anche qualcosa di cui si ha ancora reticenza a parlare: l’altro lato della maternità. La stanchezza, il timore di essere escluse dalla vita prima della gravidanza. Perché questa difficoltà nel parlarne?

Le autrici sono state molto intelligenti nel sottolineare un aspetto critico che riguarda la salute della donna. Sono contenta che il mio personaggio porti un altro tema tabù, che è il carico emotivo e fisico che la donna, da sempre, deve non solo sostenere, ma sostenere con il sorriso. Quando sappiamo che, poi, è molto più complesso. Una complessità non solo legata a questioni meramente pratiche, ma ad una trasformazione del corpo della donna e della sua psiche. Ci sono pochissimi studi sui cambiamenti celebrali che avvengono, ad esempio, durante la fase mestruale, figuriamoci quelli che avvengono durante la gravidanza e nel post.

Sembra quasi che a manifestare un malessere, in una condizione come quella della maternità ci sia una diminuito della madre stessa.

È proprio questo il percepito. Ma la maternità è così complessa, che non dovremmo più scusarci di nulla. Non siamo meno madri se ci lamentiamo, se diciamo che non ce la facciamo più.

Possiamo dire che in Antonia ci sia la volontà di raccontare le donne distaccandosi dagli stereotipi?

Assolutamente. Ho apprezzato molto la scelta di Chiara (Martegiani ndr.) di liberarci dai cliché. Una donna che scopre di avere l’endometriosi, la immaginiamo che piange, si dispera, mentre Antonia fugge dal conflitto, dalla profondità, dalla riflessione perché non le va di affrontare un passato che, poi, è anche un presente. A ricordarle che non può scappare sempre, però, c’è la gallina.

A proposito di galline, possiamo dire che è metaforicamente l’avvisaglia di un qualcosa che non va, che necessita di essere cambiato. Nella tua vita quali sono state le tue “galline”?

Il mio corpo mi ha sempre dato segnali molto chiari che ho provato a recepire. Ogniqualvolta mi sono fatta male, ho cercato di vedere quell’incidente, quel dolore, in maniera olistica. Dov'è che mi sono rotta il ginocchio? Perché mi sono rotta proprio la spalla? Perché in questo momento ho la gastrite? Ho sempre dato un valore ad ogni avvenimento, provando ad ascoltarmi.

Una capacità che spesso viene a mancare. In teatro hai portato uno spettacolo dal titolo Cattiva sensibilità. Cos’è per te la cattiva sensibilità?

La cattiva sensibilità è il non ascolto. Credo che parta tutto da lì. Se non riusciamo ad ascoltare veramente l'altro, chiunque esso sia, qualsiasi ruolo rappresenti, non abbiamo una base di sensibilità.

Anche se poi, lo spettacolo in sé parla anche del ruolo della scuola, partendo dal romanzo di Charlotte Brontë.

Siamo partite dal romanzo di genere perché doveva essere uno studio propedeutico a uno spettacolo. Parliamo del periodo di formazione di Charlotte Bronte, quando viene mandata in collegio, ed è costretta a subire angherie e bullismo, costretta a crescere prematuramente per salvarsi. Abbiamo scavato anche nella memoria di quella che è stata la nostra educazione e formazione, molto diversa rispetto a come è diventata la scuola ora.

Barabara Chichiarelli a teatro in Cattiva Sensibilità
Barabara Chichiarelli a teatro in Cattiva Sensibilità

Eppure il dibattito sulla scuola è oggi molto attuale.

Credo che la scuola sia insieme alla famiglia un luogo da ricostruire, da rinsaldare. Se non lo capiamo come società continueremo a fallire, perché è lì che nasce tutto. È lì che si formano individui, le persone che poi contribuiranno a far crescere il nostro Paese. La scuola ha una funzione fondamentale e bisogna restituirle il peso specifico che ha,  bisogna investire lì, nella formazione. Ma anche nella crescita emotiva dei ragazzi. Non possiamo più fare tagli, girare la faccia dall’altra parte, indietreggiare, soprattutto dopo avvenimenti come quello di Pisa.

Tra i tuoi progetti più attesi c’è “M, il figlio del secolo” dove interpreti Margherita Sarfatti, definita l’amante di Mussolini, che ha contribuito a creare un certo immaginario del fascismo, per poi prenderne le distanze. Temi o magari speri che questa serie possa essere anche contestata quando uscirà?

È un progetto di cui mi riservo di parlare, proprio perché ancora deve uscire. Però tutti noi che ne abbiamo preso parte, ne abbiamo capito sin da subito il valore politico, soprattutto in questo momento storico. La Sarfatti, inizialmente, non aveva compreso quale potesse essere la deriva del consenso ottenuto da Mussolini, poi realizza che quest’uomo megalomane aveva superato tutto ciò che lei avrebbe mai potuto condividere. La nascita di un governo autoritario in Italia, e in altre parti del mondo, si è verificata con la diffusione di atteggiamenti illiberali, e se la storia insegna, bisogna spaventarsi quando viene limitata la libertà del cittadino.

Parlando di donne di spessore che hai interpretato nella tua carriera. Sei stata protagonista di The Good Mothers, nel ruolo di Anna Colace, la pm che prova ad aiutare le donne di ‘ndrangheta. Come è stato lavorare su fatti realmente accaduti?

Come gruppo di lavoro abbiamo chiarito con sceneggiatore, produttori, registi, che non ci sarebbe stata un'operazione di mimesi. Abbiamo sentito sin da subito la responsabilità di trattare storie realmente accadute e, nel mio caso, mi sono documentata per quello che ho potuto. Abbiamo organizzato degli incontri con dei testimoni di giustizia, con la stessa avvocatessa di Lea Garofalo, che ci ha fatto conoscere delle realtà non distanti, purtroppo, da quelle storie. Ancora oggi.

Barbara Chichiarelli in The Good Mothers
Barbara Chichiarelli in The Good Mothers

Grazie a progetti come Libere di scegliere, però, qualcosa sta cambiando.

Ho avuto la possibilità di conoscere Alessandra Cerreti, è una donna stupenda. È veramente una persona che sta cambiando, ha cambiato tante cose, ha avuto il coraggio, la lucidità e la forza di farlo. Liberare donne che sono minacciate, messe sotto scacco dalle loro famiglie.

Restando in tema di ruoli importanti. La tua popolarità è nata con il personaggio di Livia Adami in Suburra, sei riuscita a liberarti dalla sua ombra?

Non saprei, non so come vengo poi percepita dal grande o piccolo pubblico. Ovviamente spero di non essere ricordata solo per quell’interpretazione.

Barbara Chichiarelli è Livia Adami in Suburra
Barbara Chichiarelli è Livia Adami in Suburra

Però un po’ la ringrazi.

Certamente, è stata l’inizio di tutto. Non potrò mai dimenticare quella serie, quella produzione. Come non potrò mai scordare il primo spettacolo a teatro. Sono le prime volte. Non conoscevo il linguaggio cinematografico, non ero mai stata su un set professionale, era il primo progetto Netflix in Italia, c'era una grande aspettativa nonché una grande voglia di non deludere tutti i reparti e gli attori. È stato veramente importante per me.

Hai dichiarato che questo lavoro ti ha permesso di ritrovare te stessa. Quali parti di te hai scoperto per la prima volta o hai ritrovato?

Questo lavoro mi permette e mi costringe a fare un esercizio costante. Ho a che fare con un materiale umano in generale e in particolare con il mio, ed è chiaro che questo per me è fonte di crescita. Devo entrare nel corpo, nella psiche, nei pensieri, nella vita di altri esseri umani, per poterli riproporre in maniera credibile. È un lavoro che ti costringe a crescere, perché ognuno di noi ha delle resistenze verso delle parti di sé. Ma non le ho indagate tutte.

E quali ti piacerebbe sperimentare?

Mi piacerebbe poterne sperimentare degli altri come la gentilezza, la fragilità da un punto di vista fisico, ma anche mentale. In questo senso credo che fare l'attrice mi abbia aiutato a crescere, perché mi ha portato a farmi delle domande necessarie su di me, su chi sono, su cosa mi piace, cosa non mi piace, cosa che mi emoziona.

Chiudiamo il cerchio e torniamo al punto di partenza. Credi che una serie come Antonia possa aiutare qualcuno a riconoscersi, a rivedere qualcosa di sé?

Se la serie riuscisse ad arrivare ai 3 milioni di donne affette da endometriosi che in qualche modo si sentono viste, considerate, sarebbe un grandissimo successo. Poi bisogna capire che quando si è in un momento di difficoltà, è importante parlare con gli altri, chiedere aiuto. Credo, inoltre, che la serie abbia un grande valore aggiunto.

Quale?

L’uso dell’ironia, della leggerezza può veicolare meglio determinati messaggi. Magari più dell’assertività che a volte invece crea una distanza. “Si fa così, si deve chiedere aiuto, devi parlare”, no, con la leggerezza cerchiamo di aprire anche questa riflessione, non solo sul dolore al femminile, ma su tutta una serie di questioni che ci riguardano.

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