Amore alla prova, Dr. Radavelli: “La crisi di coppia non è più tabù, parlarne pubblicamente aiuta”
L’intrattenimento, ma non solo. Lo scenario mediatico ci mette sempre più spesso davanti alla narrazione di dinamiche sentimentali, dai social alla tv, dagli show unscripted alla cronaca nera. La relazione amorosa in tutte in tutte le sue forme e criticità è un tema dominante e da spettatori ci ritroviamo coinvolti come parte attiva con il nostro giudizio.
Ma da cosa nasce e che tipo di conseguenze può avere la tendenza a spettacolatizzare i problemi di coppia? E soprattutto, esiste ancora una forma di intimità necessaria nelle relazioni? Ne abbiamo parlato con Matteo Radavelli, psicologo e psicoterapeuta che insieme a Giulia De Lellis conduce ‘Amore alla prova’, il nuovo format di Real Time che propone alle coppie in crisi una vera e propria terapia d’urto.
Il format si intitola ‘Amore alla prova – La crisi del settimo anno’. Ma esiste davvero questa famosa crisi? E in cosa consiste?
Diciamo che non esiste la crisi del settimo anno per definizione. Il settimo anno è socialmente individuato come emblema di un tempo entro il quale una coppia può considerarsi rodata, in cui sono stati già raggiunti i primi obiettivi insieme, superate le fasi dell’innamoramento, superata una possibile crisi. Non conta l’età anagrafica della coppia, ma piuttosto il momento in cui ci si ritrova a tirare le somme, a fare i conti con se stessi in vista di un nuovo ciclo necessario per la relazione.
Perché si tende a cedere proprio davanti a questa incertezza?
Proprio per la difficoltà nel rinnovarsi. Pensi ad una coppia di trentenni insieme da sette anni. Si sono conosciuti all’università, hanno portato avanti progetti di vita personali e al tempo stesso si sono fatti delle promesse. Scelgono di andare a vivere insieme o di comprare casa. Ad un certo punto potrebbero guardarsi negli occhi e chiedersi ‘E adesso?’. A quel punto devono scoprirsi capaci di ripartire e spesso alcuni rimangono ancorati a dinamiche del passato. Ci si inizia a dare per scontati, pensando che la coppia non possa trasformarsi.
Viene da pensare che sia più frequente in giovani coppie, piuttosto che in quelle mature.
Non c’è differenza in realtà, le sfide sono le stesse. Ci sono coppie che si conoscono a quarant’anni, hanno relazioni importanti alle spalle e magari dei figli. Devono capire come incastrare la presenza dell’altro nelle loro vite già costruite e capire che dimensioni dare alla loro famiglia allargata. E poi? Prima avevano una missione, uno scopo, ad un certo punto si tende a finire nell’insoddisfazione.
Alcuni protagonisti del programma hanno partner simili a loro, altri completamente diversi. Dunque, è più corretto dire che ‘Chi si somiglia si piglia’ o che ‘Gli opposti si attraggono’?
Sono veri entrambi. Quello che ci tiene uniti all’altro è sicuramente un principio di similitudine, ma quello che poi ci affascina e genera attrazione è la differenza. Sapere di essere apparentemente distanti, ma poi in fondo così simili è ingaggiante per una coppia. Innesca in noi la curiosità della scoperta: sapere che abbiamo un sistema di valori, di bisogni, di esperienze passate simili, che andiamo nella stessa direzione, ma che poi nel quotidiano ci raccontiamo vite diverse.
Nel programma viene proposto uno scambio di partner tra le coppie. Può davvero un esperimento di questo tipo rivelarsi efficace per risolvere i problemi di una relazione?
È sicuramente un esperimento efficace. Il principio che ha guidato la costruzione del programma, e quindi la mia analisi nella selezione delle coppie, si basa sul fatto che quando si vive una crisi siamo concentrati su ciò che non va. Siamo portati a vedere solo quello che manca nell’altro e ad idealizzare un partner ipotetico. Da qui la domanda: è davvero ciò che mi serve? O un presunto nuovo partner ideale mi terrà ancorato al problema e lontano dalla soluzione?
Nell’intrattenimento sono sempre più numerosi gli show che raccontano dinamiche di coppia, con particolare attenzione al tema del tradimento. Cosa ci spinge ad appassionarci a tal punto?
Sicuramente il paragone. Alcuni spettatori si identificano, altri si distanziano dalle situazioni raccontate, ma in tutti i casi usano quello che vedono come il metro di giudizio per loro stessi, che sia per ottenere il conforto nella differenza, o per ottenere il consiglio nella similitudine. Al di là del gossip che programmi del genere possono suscitare, diventa uno spunto di riflessione inevitabile sulla propria vita.
Dal punto di vista dei protagonisti invece, cosa può spingere una coppia ad affrontare i propri problemi pubblicamente (oltre ad un ritorno in termini di notorietà…)?
Esporre i propri problemi pubblicamente li rende reali. Socializzare una crisi, renderla esplicita all’esterno determina che il problema non è più soltanto nella nostra testa, ma è condiviso anche dagli altri. Inoltre, se la coppia sente di essere ad un punto fermo, rendere pubblica la crisi innesca in loro il dovere morale e sociale di affrontarlo. Comunicare un tradimento corrisponde ad una presa di impegno pubblico nella volontà di affrontarlo. In tv sicuramente questo ha un effetto maggiore, ma in fondo è un po’ quello che fanno tutti.
Quali possono essere però i rischi di una relazione in cui i problemi vengono così “spettacolarizzati”?
I rischi sono legati al fatto che esporsi mediatamente è una sorta di “all-in”. Non si può sapere quali saranno le conseguenze, l’unica certezza è che le cose cambieranno, nel bene o nel male. È il principio di fondo di tutte le terapie di coppia.
Il sessuologo Willy Pasini definiva l’intimità “il vero progetto degli anni Novanta”. Nell’epoca in cui siamo abituati al racconto di coppia anche via social, esiste ancora una forma di intimità necessaria?
Abbiamo alle spalle un contesto culturale in cui la relazione era non solo privacy, ma a volte persino censura, per paura del giudizio sociale. Molte coppie sono rimaste insieme pur essendo infelici perché la separazione non era prevista socialmente. Non era previsto chiedersi nemmeno come si stava all’interno di una relazione. Oggi la società è cambiata perché abbiamo imparato a parlarne. I ragazzi sanno benissimo che le coppie posso separarsi e le famiglie ricostruirsi. Gli adulti si sentono legittimati a chiedersi se sono felici, a poter cercare di migliorare la loro condizione, anche a costo di cercare nuove strade che prima erano negate. Ora, una nuova libertà implica una nuova responsabilità nella gestione degli equilibri. Ciascuno di noi quindi deve trovare la quadra con la privacy che personalmente sente di dovere a se stesso.
Anche la cronaca più spesso di prima ci rende spettatori di dinamiche tossiche che possono sfociare in tragedia. Il racconto mediatico in questo caso che tipo di conseguenze ha?
Quello della violenza di genere è un dramma sociale che è presente da sempre. Oggi sicuramente c’è una volontà e un bisogno diverso di fare informazione e di conseguenza anche di fare anche educazione relazionale e sentimentale a riguardo. Se non avessimo questo tipo di comunicazione non sarebbe possibile, quindi penso sia fondamentale. Tutto fa capo ai cambiamenti culturali di cui parlavamo. Oggi abbiamo messo più a fuoco quali sono davvero i nostri bisogni relazionali, ci rendiamo conto di come comunicare questi temi abbia un impatto sulle nostre vite.
Nello specifico, su quale errore relazionale di fondo occorre lavorare?
Sulla visione dell’amore come un sinonimo di controllo. In questo caso significa che c’è una patologia, perché più il mio amore cresce più cresce anche il mio controllo e di conseguenza nego all’altro la possibilità di essere. L’errore è confondere il concetto di amore con il principio di limitazione della libertà, che resta un diritto imprescindibile.