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Alessandra De Stefano: “Il Circolo degli anelli era una missione, raccontare lo sport oltre i risultati”

Intervista alla giornalista ed ex direttrice di Rai Sport Alessandra De Stefano, conduttrice de Il Circolo degli anelli che era stato un caso a Tokyo 2020. Dai risultati Rai alle Olimpiadi di Parigi appena trascorse, alla politica che dovrebbe rimanere fuori dallo sport, De Stefano traccia il suo manifesto: “Abbraccerei il presidente Mattarella, premiare anche chi è arrivato quarto ha un valore incredibile”.
A cura di Andrea Parrella
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Quando in televisione spunta un programma in cui si riconosce un contesto, un clima e un tono di voce, accade qualcosa di particolare. Per molti appassionati di sport egli ultimi anni questa cosa è successa con Il circolo degli anelli, lo spazio sportivo ideato e condotto da Alessandra De Stefano nel corso delle Olimpiadi di Tokyo, rimasto impresso nel pubblico perché capace di rompere una certa monotonia del racconto sportivo. Nel frattempo di acqua sotto i ponti ne è passata, Alessandra De Stefano è poi diventata direttrice di Rai Sport, ruolo che ha conservato poco più di un anno, per poi lasciare in polemica: "Ero diventata un nemico". Da allora è corrispondente da Parigi, dove si sono conclusi da pochi giorni dei giochi olimpici complessi per la Rai, che ha scelto di non confermare Il circolo. In questa intervista a Fanpage.it De Stefano ci racconta i suoi ultimi mesi, partendo proprio dalla Parigi in cui vive.

La città come sta vivendo la fine di questa vertigine collettiva?

Si riprende lentamente, è difficile dopo un evento così. Non sono stati solo giochi olimpici, in fondo Parigi voleva restituire un po’ il senso del verbo “flâneur ”, quel vagare senza meta, perdersi, non avere un orario e una direzione che aveva reso celebre Baudelaire. Io ho vissuto a Parigi a tratti alterni negli ultimi vent’anni e dopo gli attentati di Charlie Hebdo e i fatti della sera del Bataclan si era un po’ perso questo senso di leggerezza che mi pare di aver rivisto.

La sensazione era che Parigi volesse riaffermare una propria centralità nuova.

La città ha cambiato la sua geografia, cosa che accade un solo giorno all’anno, quando il Tour de France arriva sui Campi Elisi, cosa che quest’anno non è successa. Il Beach volley installato sotto la Tuor Eiffel , Place de la Concorde consacrata a questi sport, piegare Parigi a questi significa piegare non solo la geografia urbana e sportiva, ma quella sociale. Questi giochi sono stati altro, non vogliono passare e basta, oggi si discute se togliere i cerchi alla Tour Eiffel, perché a dispetto delle critiche dei tradizionalisti, sono qualcosa di fortemente rappresentativo.

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Un effetto sbornia che, una volta finito, lascia un po’ di tristezza. Si parlava di parigini scappati durante le Olimpiadi. È vero?

Sono effettivamente scappati, ma sul finale è un po’ cambiata la cosa, sono tornati perché vedere gli stadi pieni gli è piaciuto molto e tanti si sono ricreduti. I francesi hanno una cosa che a noi manca un po’, il senso di appartenenza a qualcosa fatto da loro, che difenderanno sempre. Un po’ come la laicità che è nella loro costituzione, il senso civico, il concetto di fare la coda, il senso del buongiorno. Da anni ho capito che in Francia se non dici "bonjour" non ti rispondono perché dentro a quella parola c’è tutto il rispetto che si deve a chiunque. Non è un semplice saluto e lo capisci solo stando qui.

Parliamo di te e riepiloghiamo le ultime puntate. Più di un anno fa lasci la direzione di Rai Sport in anticipo e diventi corrispondente da Parigi. Si lavora meglio quando le cose devi farle o quando devi gestirle?

Io so una cosa, ho sempre lavorato. Gestire e lavorare sono speculari, non ho mai smesso di considerare il nostro mestiere come artigiano, non lo fai per chissà quale onorificenza, ma per semplice passione, per me è un credo. Quando gestisci, a volte il fare non lo puoi fare perché ti scontri con tutta una serie di cose che chi fa non può vedere. Io a Rai Sport sono nata, cresciuta, ho percorso tutti i gradini possibili.

Tornare a un ruolo da inviata non ti sta stretto?

Per niente. L’inviato è il mestiere più bello del mondo, ti porta a far parte di qualcosa ma stare sempre ai margini. È come quando sei in auto ma non guidi, non gestisci tu la macchina ma puoi vedere tutto.

Dover dirigere Rai Sport ha limitato questo possibilità?

L'importante per me è sempre stato rimanere me stessa, essere coerente con le mie peculiarità. Certamente rimanere se stessi, quando si gestisce, è più complesso perché si rischia di diventare altro per far andare d’accordo le persone. Io non volevo fare questo, io volevo che le persone lavorassero per un progetto collettivo e spesso l’individualità nel progetto comune non vuole starci.

A tuo modo di vedere, in un tempo in cui con un telefono possiamo arrivare ovunque, il ruolo di mediazione del corrispondente è più o meno importante di quanto lo fosse in un tempo in cui chi era inviato rappresentava gli unici occhi di spettatrici e spettatori?

Io penso sempre di essere gli occhi dello spettatore. Quando sento che c’è un racconto da fare penso a chi a Parigi non ci è mai venuto. Non do mai per scontate le cose, al di là della tecnologia, conta l’uso che ne fai. Nella semplicità si può raccontare tutto e dire tutto, in questo il giro ‘Italia mi ha insegnato molto

L'esperienza professionale che ti ha cambiato la vita?

Dovessi un giorno, per puro caso, diventare presidente della Federazione della Stampa, oppure fare un decalogo, metterei come condizione essenziale quella di fare il giro d’Italia per attraversare un paese, scoprire gli italiani, le varie realtà che abbiamo. Ti trovi a lavorare con tempi e luoghi che aprono la mente, ti costringono a pensare a chi ci vive in quei luoghi, chi ci è passato. L’evento itinerante ti spoglia di ogni necessità, ti metti completamente a servizio dell’evento. Così ho provato a raccontare queste olimpiadi di Parigi.

Hai seguito le Olimpiadi anche da spettatrice. La tv francese ha raccontato le olimpiadi meglio o peggio di noi?

In questo senso io penso che l’Italia sia unica. La Francia ha privilegiato molto gli atleti francesi, cosa che noi non facciamo, ma loro su queste Olimpiadi avevano investito molto con un progetto economico importantissimo. Io ho spesso guardato RaiPlay, se pure con qualche secondo di ritardo.

Con il Circolo degli anelli durante i giochi a Tokyo puntavi a un tono, uno spirito, un linguaggio di racconto dello sport che appariva differente. Non si è mai parlato di un ritorno?

No. C’era stato un primo contatto per farlo in radio, poi non se n’è fatto nulla. Devo dire che io lo spirito del Circolo l’ho sempre fatto mio, per me lo sport è sempre stato molto più di se stesso, molto più di un risultato, ha un linguaggio universale che non può essere legato solo ai risultati, le performance, perché così è poco interessante. Per esperienza personale penso che i vincitori siano dei condannati. Al tempo io proposi a Salini di puntare su cosa c’era dietro a una medaglia o una sconfitta, ovvero i genitori, i nonni, i parenti, gli amici, che fanno avanti e indietro per sostenere gli atleti. Mi interessava fare quello e Salini mi sostenne dicendomi che era un’idea.

Le polemiche sorte per queste olimpiadi ci dicono che oltre lo sport c’è molto di più.

Lo sport deve essere libero e la politica non dovrebbe entrarci. Le foto da bambina della Khelif sono una sconfitta per il mondo dello sport. Chiedere a un’atleta di dimostrare al mondo che è una donna? Anche il CIO che porta il team dei rifugiati, cosa lodevole, ma poi penalizza l’atleta afghana che ha un mantello con cui chiede libertà per le donne afghane. Il suo gesto è stato di una forza pazzesca e quindi la rigidità di un regolamento è inopportuna. Lo sport tradisce tutto quello che non è sport e io se potessi abbraccerei il presidente Mattarella, perché questi quarti posti hanno un valore incredibile (il Presidente della Repubblica riceverà al Quirinale anche chi ha sfiorato la medaglia, ndr).

C’è chi invece li ha condannati in diretta, non capendo lacrime di gioia, come accaduto nel caso di Elisa Di Francisca con Benedetta Pilato. Cosa pensi di questo?

Marchand a Tokyo non ha vinto e qui  ha vinto tutto, perché nel frattempo ha capito tanto. Questi ragazzi vedono la loro vita cambiata quando hanno poco più di dieci anni e noi dimentichiamo che fino ai 25-30 fanno sacrifici totali che non possiamo immaginare. Lì devi scegliere l’aggettivo giusto per parlare di una sconfitta. La devi trasformare in altro e sai chi lo fa? Le famiglie, madri, padri. Questo era il senso del racconto nel mio circolo.

Insomma, visto quello che è accaduto, tre anni fa il vostro era stato precursore di certi messaggi su cui Rai sembra essere inciampata.

Se è così ne sono felice, significa che quello che abbiamo fatto sia rimasto.

Cosa pensi di come la Rai ha seguito quest’anno le Olimpiadi?

Credo che al di là di tutto quel che hanno fatto lo hanno fatto bene. In generale penso che la Tv debba tentare anche esperimenti nuovi. Il fatto che il circolo sia mancato a delle persone, forse, significa che stavamo rispondendo a una piccola missione.

Poi il circolo ha avuto anche la sua versione per i mondiali, forse lì l'effetto non è stato lo stesso.

La libertà di poter raccontare tutto è stata impagabile ed è quello che abbiamo provato a fare con i mondiali di calcio, ma ha funzionato meno perché il calcio è sacro. Ma questa sacralità su cosa si basa?

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Consideri quello un fallimento?

Niente affatto. Va considerato che avevamo una trasmissione senza l’Italia, con pochi investimenti e abbiamo fatto comunque un prime time con ascolti buoni.

Prima hai parlato di missione, il tuo mandato a Rai Sport in effetti sembrava avere questo sottotesto di missione. Col senno di poi lasciare è stato più doloroso o più liberatorio?

Nessuno dei due. Quando accetti di fare il direttore sai che comunque devi lasciare qualcosa. Mi sono detta di provare a fare qualcosa di diverso e sono riuscita a farlo. Io ho sempre lavorato in modo libero, dando valore alla bravura e le capacità, nemmeno al genere perché credo le quote rosa siano una stupidaggine. Provare a cambiare non è una roba semplice, significa anche convincere qualcuno che si debba fare, ci sono dinamiche per le quali qualcuno vede invaso il suo territorio, quando dici a qualcuno che una cosa non ti piace e vuoi cambiarla, la tua interpretazione di quella scelta è quasi impossibile da far accettare, ci si scontra con una realtà complessa.

Al tempo delle tue dimissioni parlasti di una Rai gattopardesca, quasi incapace di cambiare. 

Dico una cosa, la Rai è leader in tanti settori, compreso quello sportivo in cui l’offerta Rai è a 360 gradi. Il problema della Rai non credo sia una quesitone di mezzi o di offerta, ma di concezione del racconto, che io pensavo dovesse cambiare. Per esempio, a me non piacciono troppe parole nel racconto di telecronaca. Quando hai le immagini non devi per forza descrivere tutto. Questo non significa che non mi piacciano le telecronache, ma spesso si diventa troppo formali, vuoti. Volevo dei Tg sportivi che dessero più valore al racconto e meno ai minutaggi, non sempre è stato possibile. Per realizzare questi cambiamenti non basta un anno.

Una decisione importante che rivendichi di quei mesi alla direzione?

Quando ho detto no al campionato di basket italiano perché volevo la Coppa Davis. Me ne dissero di ogni, chiamai il presidente e gli comunicai questa scelta, che non era contro nessuno, pensavo semplicemente che entro due anni avremmo vinto la Davis e io volevo darla agli italiani. Sinner è la risposta. Un budget non è estensibile, devi togliere qualcosa e privilegiare delle scelte e non altre.

Avessi di nuovo la possibilità di riprendere la direzione, lo faresti?

A parte che non me la darebbero, ma io penso che mi piacerebbe fare altre cose con la stessa libertà con cui ho fatto il circolo, trovare una sponda di condivisione della visione di ciò che mi piace fare. Io non sono attratta dal potere, un grande direttore una volta mi ha detto che è bello fare il direttore, ma è molto più bello fare l'ex direttore. Io non chiudo le porte a nulla, ma se dovessi fare una cosa del genere vorrei avere alle spalle la solidità di poter cambiare. Non vorrei trovarmi più a dovermi scontrare con ripicche personali, fastidi e cose di questo tipo. Insomma, se ci fosse la garanzia di una panchina, forse sì

Mettere in panchina i narcisismi è difficile.

L'ego penso sia una condanna come la vittoria. Dico sempre che un pezzo non è la mia faccia, ma la mia firma.

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