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Opinioni

The Whale è un capolavoro, una rara balena bianca che salva il cinema dalla superficialità

The Whale, il film con protagonista un gigantesco Brendan Fraser candidato all’Oscar, è capolavoro di catarsi e disperazione. Amorale, feroce e spietato, impossibile non uscire dalla sala intimamente deflagrati. Che è successo a Charlie? Cosa sta succedendo a noi?
A cura di Grazia Sambruna
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Il cinema è un buio di persone” canta Mannarino in Maddalena, una poesia in musica che andrebbe ascoltata spesso. Quel “buio di persone”, Charlie, il gigantesco Brendan Fraser, protagonista di The Whale, l’ultimo capolavoro di Darren Aronofsky l’ha inglobato completamente dentro di sè, mangiando fino a diventare “disgustoso”. Siamo fin da subito nell’ultima settimana della sua vita: il corpo mastodontico gli impedisce di muoversi autonomamente, perfino ridere lo porta dalle parti dell’infarto, sibila a ogni respiro. Non è Moby Dick, romanzo a cui è particolarmente legato, è il Titanic.

Sta per schiantarsi, è evidente a tutti, al pubblico come ai tre alle volte quattro personaggi che ancora gli stanno intorno, pur trovandolo ripugnante per come si è ridotto. The Whale è la storia di un martirio autoinflitto, non parla di odio verso se stessi, ma di catarsi. Di una catarsi esagerata, folle, deformante che Charlie vede come unica via per pareggiare i conti. Si rifiuta di andare in ospedale, non vuole essere salvato né dagli uomini né da Dio. È lui che vuole salvare le persone che ama, anche se lo odiano. Non gli importa. Mortifica se stesso, fisicamente e spiritualmente, da otto lunghissimi anni perché spera, così, di fare almeno una cosa giusta nella vita. Che è successo a Charlie?

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È stato felice, nove anni prima. Per qualche mese. Aveva trovato l’amore e questo amore lo aveva dissequestrato dai binari di un’esistenza imposta, con cui conviveva perché non c’erano alternative. Quando l’alternativa, contro ogni pronostico, è comparsa, ha sparigliato tutte le carte e lui se ne è lasciato sedurre. Così, per una singola volta ha fatto esperienza di in uno stato di grazia che non è concesso ai mortali. Quel tipo di beatitudine che poi chiede il conto. E il conto, in questo caso, è stato altissimo.

Charlie ha deciso di non elaborare il lutto. Nemmeno di evitarlo. Ci si è immerso dentro, facendosene carico. Come se annullarsi potesse in qualche modo rendere giustizia alla persona che aveva perso. Quella persona se ne era andata per sempre, lui non poteva certo vivere al posto suo. Quindi tira avanti in costante penitenza, sempre sorridente e buono con tutti, dagli studenti dei suoi corsi di scrittura online, alla figlia Ellie (Sadie Sink, Stranger Things), un diavolo della Tazmania pieno di vita e malvagità adolescenziale che terrorizza perfino la madre alcolizzata Mary (Samantha Morton). “Non so perché sia venuta su così, è cattiva”, confida l’ex moglie a Charlie che subito replica: “Ma no, è meravigliosa. Solo che ho paura che possa dimenticarsene. E poi, scrive benissimo”.

Brendan Fraser e Sadie Sink
Brendan Fraser e Sadie Sink

Per quanto “odio tutti” sia pressoché l’unica frase che esca dalla penna della “mean girl”. Perché “i quaderni sono stupidi e il liceo non serve a un cazzo”. Poco importa, tanto è stata sospesa per aver fisicamente minacciato una compagna di classe.

Ellie è un disastro. Ma Charlie la vede perfetta. Perché è vera, onesta nella sua brutalità, non si lascia infinocchiare dalla retorica, dalle poesie, da ciò che tentano di insegnarle a scuola perché “si fa così”. A lei non frega niente di come si facciano le cose, vuole trovare una strada sua per farle tutte. E non è poi scontato a 16 anni. Considerato anche che era così, tale e precisa, pure quando ne aveva 12. C’è un tema a dimostrarlo. Alcune creature nascono straordinarie. Certo, poi si devono calmare. E Charlie ha sette giorni di tempo per compiere questo miracolo. Non la vedeva da otto anni, dopo il divorzio dalla moglie. Moglie che lo odia, sì, anche lei, ma allo stesso bene gli vuole ferocemente bene. Facendo la tara degli insulti che gli rifila, il netto è l’affetto spropositato che per lui nutre, nonostante tutto.

Charlie da otto anni mangia per Ellie che non può vedere, per Mary che è diventata un’alcolista dipendente dai farmaci, per l’infermiera Liz (Hong Chau) che ha perso il fratello e presta le proprie cure a questo Golgota di dolore umano consapevole di accompagnarlo verso la fine. In The Whale è tutto mirabile, anche il ragazzetto di una setta cattolica che bussa alla porta di Charlie per portargli il messaggio salvifico di Gesù. Aronofsky ha ritratto sullo schermo un Gesù laicissimo, profano, tutto sbagliato. Talmente immenso, in ogni senso, da non riuscire a rientrare nemmeno nell’inquadratura. Fraser ha gli occhi da buono, così buono da non meritarsi nessuna delle brutture della vita. Invece, gliene sono capitate tutte in una via crucis in parte caduta dal cielo ma soprattutto auto-imposta per rigore morale, speranza di redenzione. Sente di aver sbagliato tanto, Charlie, ogni cosa. Ha disperato bisogno di sapere, prima di andarsene, di averne azzeccata almeno una.

Si punisce programmaticamente per farsi carico del dolore di chi gli sta a cuore. E chi gli sta a cuore lo insulta, lo deride, lo riempie di improperi. Lui continua ad amare tutti, a ripetere “Mi dispiace”. Non sappiamo chi possa vantare abbastanza equilibrio per poter reggere un film monumentale come The Whale senza deflagrare su se stesso. È un racconto così intenso, così autentico e bello che andrebbe nascosto. Come si nasconde Charlie alla vista del mondo, come si nasconde tutto ciò che è straordinario. E che esiste, nonostante le disastrose apparenze, il cinismo e l’aridità di quel buio che sono le persone. Bisogna essere giganti per abbracciarlo tutto, quel buio. E una morale totalmente amorale di queste proporzioni può fare a meno degli Oscar – ha collezionato tre nomination, tra cui quella al Miglior Attore Protagonista. Capolavori emozionali come The Whale sono rarissimi, ma mostrano perché il cinema esiste.

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Sto scrivendo. Perennemente in attesa che il sollevamento di questioni venga riconosciuto come disciplina olimpica.
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