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Saltburn su Prime Video, la recensione: come mai si parla così tanto del film con Jacob Elordi

Saltburn è il film di cui parlano tutti, da X a Tik Tok. Su Prime Video, l’opera seconda di Emerald Fennell è la favola nera di questo Natale. È un film esteticamente opulento, barocco e magnifico dal punto di vista visivo, con un grande cast, da Jacob Elordi a Rosamund Pike. Ma vuole tante cose, ottenendone solo alcune. E ha anche l’enorme difetto di essere troppo derivativo.
A cura di Grazia Sambruna
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Fa di tutto per essere disturbante. E, alle volte, ci riesce pure. Saltburn è la favola nera di questa Natale, il film Prime Video di cui si parla su qualunque social da X a Tik Tok fino al novello Threads. C’è chi lo considera un capolavoro e si dice sotto choc dopo averlo visto, altri lo reputano un gigantesco “Vorrei ma proprio non posso”, spernacchiandolo. Qui scriviamo chi ancora non si è lasciato tentare dal pigiare play sulla piattaforma di Bezos e, forse, dato anche il gran battage, ne sono incuriositi. Vale la pena dare una chance a Saltburn? Di certo, stando a questa recensione, si dovrebbe farlo con la consapevolezza dei suoi enormi difetti.

Saltburn è il nome dell’immensa tenuta che dà il titolo al lungometraggio, una mansion così sterminata e labirintica che, nonostante il corposo personale di servizio, ogni magnificente stanza è sempre impolverata. Appartiene alla aristocratica famiglia Catton, di cui fanno parte l’affettata mamma Elisabeth (Rosamund Pike), il ricchissimo papà Sir James (Richard E. Grant) insieme ai loro due figli, Venetia (Alison Oliver) e il bel Felix (Jacob Elordi), entrambi ventenni. Filantropi per posa e professione, i Catton hanno la nobile abitudine di dare asilo a qualche trovatello meno fortunato, salvo poi mandarlo via quando diventa “noioso”. Tra questi, ecco spuntare Oliver Quick, compagno di Università di Felix, interpretato dallo straordinario Barry Keoghan (già candidato all’Oscar come Miglior Attore non Protagonista per Gli Spiriti dell’Isola). Sempre gentile e mellifluo, nonostante abbia alle spalle un difficilissimo passato, il nostro, di scena in scena, lascerà sospettare al pubblico di avere più facce di un prisma. Una sorta di inquietante Ryan Gosling. O, forse, un’anima fin troppo candida per il contesto in cui si ritrova a vivere. Chissà.

Impossibile scrivere oltre senza fare spoiler, quindi riguardo alla trama ci fermiamo qui. Anche perché uno dei motivi per cui vale la pena di vedere Saltburn è proprio seguire il ping pong di intenzioni che muovono le gesta dei protagonisti. Buone? Cattive? Si scoprirà solo alla fine, in una scena che vuole essere più memorabile dello sfrenato balletto del Primo Ministro Hugh Grant in Love Actually. A tutti gli effetti, ne è la versione smaliziata, cattiva. Sulle note dell’immortale Murder on the dancefloor di Sophie Ellis Bextor, una goduria riascoltarla in cotanta, malefica cornice. I primi piani di Jacob Elordi, l’enigmatica, ipnotica performance di Keoghan, alcuni affilatissimi dialoghi, la perfezione estetica delle feste barocche e sfrenate dai Catton, i colpi di scena sanguinosi che arrivano tanto improvvisi quanto spietati, accolti da un understatement molto nobile, micidiale. Impossibile annoiarsi durante Saltburn, nonostante qualche lungaggine che rallenta l’evolversi della vicenda.

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Il film, però, ha un albero genealogico parecchio nutrito. Il suo principale difetto, soprattutto agli occhi dei cinefili, è l’essere essere troppo derivativo: pronipote de Il Talento di Mr. Ripley (1999, oggi su Netflix) e cugino britannico del coreano Premio Oscar Parasite, l’impressione è di averla già vista questa storia. Infatti, è così. Lo stesso Keoghan interpreta un ruolo sfacciatamente simile a quello che ci aveva già regalato ne Il Sacrificio del Cervo Sacro (2017, disponibile su Prime Video e Now) di Yorgos Lanthimos, premiato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia nonché già asso pigliatutto agli Oscar 2019 grazie a La Favorita. Insomma, Emerald Fennell per il suo secondo lungometraggio sceglie la strada del patchwork di qualità, cesellando un copia e incolla che potrà anche lasciare di stucco i più, donando però agli amanti della settima arte solo una mesta sensazione di déjà-vu. E questo è un peccato.

Questo è un peccato perché alla sua opera prima, Una Donna Promettente (2021, Prime Video), Fennell si era dimostrata in grado di portare sul grande schermo una trama altrettanto efferata e disturbante, ma originalissima. Stavolta, invece, si accomoda su interpreti, ruoli e dinamiche che non possono non funzionare, in quanto già testati e acclamati. Lo fa perdendosi un po’ per strada nel montaggio che, alle volte, finisce per raccontare in modo troppo confusionario e lacunoso una trama caotica fin dalla locandina. Il caos bisogna saperlo gestire e Fennell, anche interprete di Midge nel blockbuster Barbie, in Saltburn troppo spesso ne rimane inghiottita.

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Esteticamente opulento, barocco e magnifico dal punto di vista visivo, Saltburn è un film che vuole tante cose, forse troppe, ottenendone però solo alcune. Perfetto per due ore di intrattenimento da brivido educato, il suo maggior pregio è anche il principale difetto che gli si possa imputare: ricorda altre cose, già apprezzatissime dall’Academy come dal pubblico. Potrebbe essere, dunque, un buon punto di partenza per recuperarle, riscoprendo la filmografia di Lanthimos, l’esordio alla regia della stessa Fennell, Gwyneth Paltrow, Jude Law e Matt Damon in una torbida, misteriosa vacanza sulle coste nostrane nel 1999. Agli occhi di chi guarda, stabilire a chi il gioco delle tre carte sia riuscito meglio.

A cominciare dalla pirotecnica partitella a scacchi che è Saltburn, comunque un ottimo antipasto per farsi il palato su una tipologia di narrazione inquietante, morbosa, sbagliata e, proprio per questo, a suo modo mesmerizzante. Anche solo per la colonna sonora. Tentare di spiegarsi il finale e trovare le differenze con i film a cui così smaccatamente si ispira finirà per far parte dell’esperienza. Come riuscire a fiutare chi farà scacco matto.

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Sto scrivendo. Perennemente in attesa che il sollevamento di questioni venga riconosciuto come disciplina olimpica.
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