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Più Interstellar che Toy Story, Lightyear si perde nei viaggi nel tempo e manca l’obiettivo

Ci si preoccupava della scena di una coppia gay con un figlio, ma “Lightyear: la vera storia di Buzz” ha ben altri problemi. Due su tutti: una storia di rara complessità e l’assenza totale di qualsiasi riferimento a Toy Story. La recensione finale di mio nipote di 5 anni: “Non ci ho capito niente”.
A cura di Andrea Parrella
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Da mesi quello con Lightyear: la vera storia di Buzz era l'appuntamento cinematografico più atteso in famiglia. Soprattutto da mio nipote di 5 anni, che aveva cerchiato in rosso da tempo la data d'uscita del film sul calendario. È importante dirlo perché diversi film che di recente sono andati a recuperare e ampliare storie celebri dell'universo Disney, presentano il conto di un oggettivo problema con il pubblico al quale intendono rivolgersi. Sono i bambini di oggi, educati dai genitori a una cultura dell'animazione fatta di pane e classici, oppure i bambini di ieri, che oggi sono proprio i sopra citati genitori?

Il primo equivoco dello spin off dedicato alla storia di Buzz Lightyear ha a che fare con questo aspetto: il film, promosso come un racconto verticale sulla vita del giocattolo spaziale di Andy in Toy Story, è strutturato su una linea narrativa di una complessità clamorosa, dalla quale i bambini sono esclusi. Tra viaggi spazio temporali, astrusi tecnicismi e lotte spaziali, Lightyear sfiora il perimetro narrativo di Interstellar (film di Christopher Nolan del 2014) che quello del film d'animazione. L'entusiasmo di mio nipote, che pure è particolarmente sveglio e non perché ogni nipote è bello a mamma sua, si è spento con il passare dei minuti, lasciando spazio ad un esplicito "non ci ho capito niente" come commento finale.

C'era chi (chi?) si preoccupava alla vigilia della dibattuta scena di una coppia gay con un figlio. Scena che si rivela un frammento infinitesimale del film sulla quale i bambini nemmeno hanno il tempo di riuscire a interrogarsi, non solo perché certe discussioni appassionano molto più i genitori dei figli – che ormai su certe cose nemmeno si fanno più domande – ma soprattutto perché il tortuoso sviluppo di Lightyear manca un obiettivo che pareva scontato alla vigilia: non c'è il benché minimo riferimento a Toy Story. Pur essendo uno spin off di quella che è definibile come la più fortunata serie animata Disney-Pixar, nel lungometraggio uscito nelle sale il 15 giugno non c'è traccia della linea narrativa che ha appassionato diverse generazioni e legato me e mio nipote in un unico interesse. Non si pretendeva certo un quinto Toy Story, ma se si parla della vera storia di Buzz ci si aspetta quantomeno un elemento di connessione che motivi l'epopea di questo personaggio. Fatta eccezione per la frase di rito "verso l'infinito e oltre", più che uno spin off di Toy Story Lightyear ha i tratti di un sequel di Gravity, proprio per rendere l'idea dell'immaginario al quale si riferisca.

Sia chiaro, queste critiche non intendono sostenere che non ci sia niente di buono in Lightyear: la vera storia di Buzz. La tipica ironia del mondo Disney, che qui trova spazio in una contaminazione di linguaggi tra uomo, macchine e strani esseri "alieni", al pari di un racconto di rara intimità che induce a un'interessante riflessione su se stessi, sulla capacità delle persone di percepirsi nella realtà, pesare le proprie capacità, che sonda il valore della cooperazione come presupposto imprescindibile per poter riuscire nei propri obiettivi. Il protagonista, Buzz, fallisce fino a quando pensa di poter fare tutto da solo, compreso assumersi la responsabilità dei fallimenti e la sua svolta consiste proprio nel capire che da solo non esiste. A culmine del ragionamento è proprio questo il solo ponte con il mondo Toy Story, in quanto combacia con lo stesso scatto compiuto dal giocattolo Buzz nel primo capitolo della saga. Valori che sono tuttavia adulti, maturi, da grandi, e confermano ancora una volta il tradimento delle premesse di un film che doveva essere un punto di incontro tra grandi e bambini. Che invece non toccano palla.

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"L'avvenire è dei curiosi di professione", recitava la frase di un vecchio film che provo a ricordare ogni giorno. Scrivo di intrattenimento e televisione dal 2012, coltivando la speranza di riuscire a raccontare ciò che vediamo attraverso uno schermo, di qualunque dimensione sia. Renzo Arbore è il mio profeta.
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