In questi giorni a Park City, nello stato dello Utah, si sta svolgendo il ben noto Sundance Film Festival dedicato al cinema indipendente che viene organizzato, come sempre, dall'istituto non-profit fondato da Robert Redford. Un momento di sicuro interesse per il settore. È un'occasione in cui i registi di domani possono farsi notare – è qui che è stata scoperta gente come Rian Johnson (Cena con delitto, Star Wars: Gli Ultimi Jedi), Ryan Coogler (Creed, Black Panther), Damien Chazelle (La La Land) o Christopher Nolan (Oppenheimer) – nonché un appuntamento per degli incontri, botta & risposta o masterclass con quei filmmaker dalla carriera ormai stra consolidata che tornano volentieri in loco per parlare di quello che amano fare per vivere: girare i film.
Nell'edizione di quest'anno, fra gli ospiti illustri, possiamo annoverare Quentin Tarantino che, nel gennaio del 1992, debuttò proprio al Sundance con il suo Le Iene (Reservoir Dogs). Tarantino, che ormai da qualche anno quando non lavora su un set vive a Tel Aviv con moglie Daniella Pick e prole, è stato il protagonista di una chiacchierata con il critico cinematografico e accademico Elvis Mitchell, organizzatore di una serie di talk super esclusivi e accessibili solo previo invito. E nello spiegare perché, ultimamente, si sia dedicato più alla scrittura che al cinema, la sua ultima fatica C'era una volta a Hollywood è del 2019, sì è tolto il proverbiale sassolino dalla scarpa spiegando che, per lui, l'industria cinematografica non è più quella di un tempo.
Per Tarantino ora è più gratificante scrivere per il teatro che per il cinema. È risaputo e l'ha detto Quentin Tarantino stesso più di una volta: il decimo film che dirigerà sarà l'ultimo della sua carriera. Ultimato quello si dedicherà ad altro. Per il momento non si hanno notizie sulla sua prossima regia. Dopo aver scelto di accantonare il film The Movie Critic, il nostro ha deciso di concentrarsi sulla stesura di un'opera teatrale. Per tornare sul set di un lungometraggio vuole anche aspettare che suo figlio abbia un'età tale da capire cosa faccia suo padre per vivere; problema che, a suo dire, non si pone con sua figlia più piccola che definisce come un genio che “capirà tutto lo stesso”.
Interpellato sul perché di una scelta artistica che lo ha portato a favorire un settore in cui non ha praticamente esperienza rispetto a quello che lo ha reso leggendario spiega che, per lui, il teatro è l'ultima frontiera di quel patto esistente fra chi crea una storia e chi quella storia la fruisce, il pubblico. Ormai i film sono qualcosa che, quando va bene, ha una distribuzione in sala di appena un mese e “già dalla seconda settimana puoi guardarlo in televisione. Non ho iniziato questo mestiere per ottenere rendimenti decrescenti. La situazione era già brutta nel ’97. Ed era già abbastanza brutta nel 2019, che è stato l’ultimo fo**uto anno di cinema”. Portare i film nelle è solo una forma di esibizionismo perché per il sistema hollywoodiano conta solo lo streaming.
La “fissazione” di Quentin Tarantino per l'anno 2019
Che ci sia un prima e un dopo il Covid è tragicamente assodato un po' per tutti i settori. Tuttavia la crisi del cinema è qualcosa di molto più articolato, complesso e “multifattoriale” che deve fare i conti anche con i gusti di chi decreta successo e insuccesso delle proposte in cartellone: noi che paghiamo i biglietti.
In un periodo che ha visto i grandi franchise, come il Marvel Cinematic Universe, rubare la scena a molti già prima che il Coronavirus sconvolgesse la vita di tutti, Quentin Tarantino aveva detto che nel 2019 si era combattuta la “battaglia finale” fra le produzioni originali e i grandi blockbuster. E che i film non basati su questa o quella proprietà intellettuale avevano trionfato.
Come dargli torto: in quei dodici mesi, opere come Cena con delitto, Parasite, 1917, Noi (Us), Le Mans '66 e pure C'era una volta a Hollywood avevano conquistato il box-office. Dopo qualche mese sarebbero arrivati i lockdown, le chiusure dei cinema e la bulimica esplosione dello streaming. È per questa ragione che, anche al Sundance 2025, Quentin Tarantino ha nuovamente tirato in ballo l'ultimo anno del “cinema come lo conoscevamo”.
Perché è effettivamente così. Il covid ha accelerato quel processo per cui cinema, intesi come luoghi fisici, hanno perso la loro centralità sia per il pubblico e gli innumerevoli stimoli mediali a cui è sottoposto, che per le major che producono i film. Per cui è innanzitutto fondamentale che le finanze siano in attivo.
La riduzione delle finestre di esclusiva cinematografica
Chiaramente quella impiegata da Tarantino è un'iperbole del tutto giustificata per un autore come lui che ama visceralmente quello che fa per campare. Ma è purtroppo vero che ormai le finestre distributive per cui un film è fruibile esclusivamente in sala si sono assottigliate esponenzialmente durante il covid e, a parte qualche rara eccezione, nessuna delle Big di Hollywood è intenzionata a invertire la rotta.
Tanto per fare un esempio pratico: a inizio ottobre del 2024 ha fatto abbastanza scalpore la notizia che la Warner avrebbe proposto a noleggio in versione digitale Beetlejuice Beetlejuice, la pellicola diretta da Tim Burton sequel del suo cult datato 1988. C'erano solo 33 giorni a separare il debutto cinematografico del film da quello dell'uscita in digital. E c'è di più: mentre Beetlejuice Beetlejuice era comodamente visibile a casa per la modica cifra di una ventina di dollari, stava comunque continuando a raccogliere bei soldi nelle sale. Il paradosso è abbastanza evidente.
Ed è un paradosso che si basa tutto sul fatto di voler lucrare ai danni degli esercenti e di non voler riconoscere che, nonostante il cinema debba fare i conti con una battaglia su più fronti per la sua sopravvivenza, per gustarsi un kolossal o una perla indie, le persone sono ancora disposte a investire il bene più prezioso e limitato a disposizione: il tempo. Guardare un film a casa, a noleggio digitale o su qualche piattaforma, è differente dal dover uscire di casa, affrontare un tragitto di andata e ritorno magari “impreziosito” dal traffico per recarsi fisicamente in un luogo che non è propriamente il salotto di casa. Dove siamo soggetti a mille distrazioni diverse. Andare al cinema significa affidare tot ore della nostra vita, così come la nostra attenzione, nelle mani di altri.
Siamo perfettamente consapevoli che i tempi cambiano e delle finestre semestrali per distanziare il grande schermo dal piccolo siano basate su una lettura datata del contesto. D'altro canto, 30 o 45 giorni, quello che è ormai lo standard di esclusiva per la sala, contribuiscono o potrebbero contribuire a falsare la percezione di una data opera da parte di un pubblico che non avverte più quella sensazione di urgenza di dover vedere un film al cinema se tanto, dopo una manciata di settimane, può essere visto a casa con addosso il pigiamone di pile.
La battaglia per preservare il grande schermo
Le parole di Quentin Tarantino, come abbiamo visto, non devono stupire. La sua è una posizione che viene condivisa, con delle differenti sfumature di “acrimonia” verso lo streaming, da alcuni dei più noti addetti ai lavori: Steven Spielberg, Tom Cruise, Paul Thomas Anderson, Martin Scorsese, Denis Villeneuve, le sorelle Wachowski. E Christopher Nolan.
Il regista inglese che negli anni ha dominato il box-office e, con Oppenheimer, ha trionfato anche agli Oscar è da sempre uno dei più strenui difensori della fruizione cinematografica dei film. Per lui, vero e proprio architetto della regia grandeur in IMAX, non potrebbe essere altrimenti.
Un modo di pensare, il suo, che non è neanche anacronisticamente arroccato su posizioni di totale intransigenza verso il piccolo schermo, tutt'altro. Ritiene semplicemente che un lungometraggio debba avere un percorso che nasce al cinema con una finestra di esclusiva appropriata (90, 100 giorni) che poi si articola in tutti quei passaggi intermedi – home video fisico e digital, streaming e tv lineare – che peraltro garantiscono un equo compenso a tutte le persone coinvolte nella macchina produttiva hollywoodiana. Per i registi e protagonisti coi nomi scritti a caratteri cubitali sui poster, ma, soprattutto per tutte le maestranze che sudano le proverbiali sette camicie sul set di una qualche produzione e che fanno affidamento sui cosiddetti residuali – ovvero quelle percentuali sugli utili di una pellicola che arrivano per mezzo del suo sfruttamento in tutti i passaggi citati qualche riga fa – per costruirsi un fondo pensione o per potersi pagare l'assicurazione sanitaria. Gli scioperi degli attori e degli sceneggiatori del secondo semestre del 2023 erano motivati anche dalla spinta degli studios verso lo streaming e gli “accordi capestro” che, naturalmente, non avrebbero influito sulle finanze di un Christopher Nolan o di un The Rock, ma sulla “classe operaia” di Hollywood sì.
Le pubbliche rimostranze delle personalità citate, per quanto strano possa sembrare considerati i loro conti in banca, sono tanto di carattere artistico quanto etico.
Proprio Nolan ha spinto fino alle estreme conseguenze questa sua filosofia divorziando dalla Warner bros dopo quasi vent'anni di riuscitissima partnership. Il motivo? Sempre quello, lo streaming. Fra il dicembre del 2020 e per tutto il 2021, l'ex dirigenza della major aveva unilateralmente scelto, limitatamente all'importantissimo mercato americano, di portare tutti i film del suo listino contemporaneamente al cinema e sulla piattaforma streaming di proprietà, nota al tempo come HBO Max. Il regista d'Interstellar e The prestige è diventato il capofila e principale portavoce di chi, per le ragioni spiegate prima, era del tutto contrario alla cosa.
E non a caso, il suo Oppenheimer (così come la sua prossima fatica, un kolossal basato sull'Odissea) è stato prodotto dalla Universal, l'unica grande major insieme alla Sony Pictures decisa a preservare in modo più deciso di altri competitor l'esperienza e il mercato cinematografico. Un'esperienza che va difesa strenuamente anche e soprattutto da parte di tutti noi. Il pubblico.