Nessuno tocca Paul Thomas Anderson. Il suo Licorice Pizza è in cartellone nei cinema nostrani dallo scorso 17 marzo ma del film, il nono covato dal mitologico genio dell’immaginifico visionario statunitense, si sente parlare oramai da mesi con il primo trailer a piede libero da settembre 2021. Tre le candidature all’Oscar 2022: Miglior Film, Miglior sceneggiatura originale e Miglior Regista. Cori di “Osanna eh” accompagnano la venuta del lungometraggio nei cinema italiani da così tanto tempo che per datare il primo encomio alla pellicola ci sarebbe da ricorrere al carbonio 14.
Però, ora che il prodigio è in sala, c'è una fetta di pubblico che invece di goderne, s’assopisce. Questo intorpidimento non viene segnalato nei titoli delle recensioni entusiastiche che state leggendo in ogni dove. Eppur si dorme, abbiamo appreso coi nostri vivaci occhi e colto tra le virgole dei pareri più ossequiosi. Nessuno ha il coraggio di scriverlo a chiare lettere, dicevamo, probabilmente per non passare da cinepanettonaro, da crudo e insensibile troglodita della Settima Arte. Quindi eccoci qua a indicare come mai questa pizza alla liquirizia non potrebbe che provocare una qualche reazione una volta vista sul menù. Ma proprio lì, sulla carta resterebbe. Pure scendesse dall’Olimpo dei Masterchef Cannavacciuolo in persona a validarne la bontà con la minaccia di un’affettuosa secca in pieno coppino, in caso di estemporanei disaccordi. Ecco, noi siamo in disaccordo. E proviamo a spiegarvi come mai.
Licorice Pizza è innanzitutto un divertissement. E null’altro voleva essere. Una commedia romantica ambientata negli anni Settanta che ha tutti i colori, le pose, i dialoghi sagaci e le scene così brillantemente assurde e spiazzanti che sono la cifra di Paul Thomas Anderson anche prima dei fulgidi tempi della pioggia di rane. In tre parole: esercizio di stile. Compresa la vena da talent scout di future stelle del firmamento hollywoodiano che il regista mostra ancora una volta di avere sempre pulsante. Se in Italia tremano tradizionalmente i polsi a sentir parlare di figli d’arte fin da quel tragico Sanremo 1987, qui troviamo come mesmerizzante protagonista Cooper Hoffman, classe 2003 e progenie del compianto Philip Seymour Hoffman, venuto a mancare nel 2014.
Il ragazzo è straordinario: di diverso dal padre ha solo i colori ma lo ricorda con una precisione chirurgica, pur essendo se stesso. Tutto, dalla gestualità al manifesto talento, ci dice che sia nata una stella, un enfant prodige come ben pochi ne capitano a cucciolata di generazione. E qui, non contestiamo. Cooper nel ruolo di Gary Valentine regala un’interpretazione perfetta pure quando resta zitto. Recita con gli occhi, le dita, le punte dei capelli e sospettiamo pure gli alluci. Ogni sua molecola è totalmente impegnata nel regalarci il personaggio, come fosse per lui un gesto di routine, qualcosa di perfettamente naturale. I comuni mortali respirano restando in vita senza farci caso, lui recita allo stesso modo. Ma un ottimo attore, si sa, non fa un grande film.
Nemmeno se la controparte femminile, Alana Haim, già prodigiosa musicista insieme alle due sorelle (anche loro nel cast), non perde un colpo delineando di battuta in battuta una specie di Xena degli anni Settanta armata di lineamenti spigolosi, affetto brutale, qualche trip quando la vita le è grama e di definitivi “Fanculo” come prima reazione a qualsivoglia contingenza. Pure quando vuole dire “Ti amo”, statisticamente le esce un improperio criminale. Insomma, una donna ferocissima nella sua fragilità e difficile da interpretare. In tutti i sensi, contraddizioni comprese. Eppure, anche qui, nulla da eccepire. Poi il buon Paul Thomas a completare il cast ha chiamato giusto due amici: Sean Penn e Bradley Cooper, qui straordinarie macchiette. Mentre sono in scena, è inevitabile pensare a quanto si siano divertiti pure dietro le quinte del set. Una scampagnata tra BFF che in Italia non può avere paragoni, contando che da noi, ad andare bene, per chiamare “Il Nome” del firmamento recitativo ti tocca cercare in rubrica il numero di Pierfrancesco Favino. Senza nulla togliere, ma Mystic River made in Italy se c’è stato, ce lo siamo persi.
Tutto ciò, però, pur essendo verissimo, non risponde alla domanda iniziale: come mai, a fronte di un cast così straordinario e a botte di romanticismo e scazzi da defibrillatore, la gente in sala s’assopisce? Licorice Pizza è un film noioso? No. Non del tutto. Anche solo perché Paul Thomas Anderson non può, si sospetta a livello genetico, fare qualcosa di “brutto”, in senso assoluto. Paul Thomas Anderson, però, come tutti noi comuni normali, possiede una mano sinistra. E anche, è comprensibile, la voglia di non dover necessariamente fare la Storia del Grande Cinema a ogni respiro. Stiamo parlando del genio che ha adattato per il grande schermo Vizio di Forma, dando una struttura all’impossibile romanzo originale di Pynchon con una sceneggiatura da urlo e un Joaquin Phoenix memorabile forse ancora più che in Joker. Grazie a Anderson, abbiamo Magnolia, Il Petroliere, Boogie Nights, solo per citare alcuni dei titoli più clamorosi di suo pressoché esclusivo conio. Con una capacità di passare da un genere all'altro senza colpo ferire, sempre ineccepibile. Di conseguenza, quando si legge che ha sfornato un nuovo “capolavoro”, s’accorre in sala con l’idea di trovarsi davanti a qualcosa di prodigioso tipo rendere espressiva e senza ironia drammatica la recitazione di Tom Cruise (sì, Anderson ha fatto anche questo). Ecco, dopo Licorice Pizza non uscirete certo dal cinema con l’impressione di aver buttato via 133 minuti del vostro tempo. Ma, se non sarete in estasi mistica, vi ritroverete col senso di colpa di non aver capito qualche cosa, di meritarvi In Vacanza su Marte vita natural durante.
Sradicate immediatamente questo principio di relazione tossica indotta: Licorice Pizza, siamo certi pure nelle intenzioni di chi l’ha creato, è una favoletta naïf che ha il sacro vantaggio di non essere ombelicale, di mostrare perfomance recitative al limite dell’incredibile incastonate in una trama… carina. Non priva di tempi morti e lungaggini adattissime a rifrancanti pisolini. Ciò non significa che non possa essere, a livello comparativo, il Miglior Film dell’anno. Ma di certo non è il Miglior Film di Paul Thomas Anderson. Licorice Pizza è bello da vedere come un camion che principia una discesa senza benzina. Ma nessuno resterebbe sveglio in contemplazione per due ore davanti a questa scena. Fosse su Youtube, si appiccerebbe l’inizio incuriositi dall’impresa per poi mandare avanti veloce fino al punto d’arrivo finale. Insomma, si schiantano o no? Con buona pace di quello che accade nel mezzo. Chi lo definisce "capolavoro" stracciandosi le vesti, più che un fine intellettuale, è sicuramente qualcuno che non sa pronunciare il cognome di Barbra Streisand con cognizione fonetica. E chiunque abbia visto il film sa come Bradley Cooper-Jon Peters reagirebbe davanti a tale affronto.
Intanto, ce lo immaginiamo proprio, il nostro Paul Thomas, quello che amiamo e veneriamo per il visionario che è, a ridersela sotto i baffi davanti alla plateale evidenza di non essere stato compreso: dopotutto, non è niente male ritrovarsi candidati alla dorata statuetta, pure in categorie di lusso, solo per il nome di battesimo che si porta e per la totale reverenza al proprio incredibile curriculum artistico precedente. E così Anderson sta agli Oscar con una pizza alla liquirizia, impastata per scherzo, per divertissement, per vedere l’effetto che fa. E l’effetto è una miope allucinazione collettiva che erge il più semplice dei calembour a prodigio gourmet, incensandolo come fosse una delizia eccellente, sofisticata addirittura. Ed ecco che il gustosissimo cortocircuito fatto di apparenze e inchini è servito. Il fascino discreto della piaggeria.