“Ma una sirena non ha lacrime, per questo soffre molto di più”. Con tale citazione dalla fiaba originale di Andersen, si apre il nuovo live action Disney, La Sirenetta, in sala da giovedì 25 maggio. La frase si pone fin quasi da subito come una sfida per il pubblico bipede che di lacrime, invece, ne ha. Ed è chiaro che avrà da soffrire parecchio davanti al film diretto da Rob Marshall. Il regista che è stato dietro la macchina da presa per capolavori come la trasposizione cinematografica del musical Chicago (gli valse una candidatura agli Oscar), Memorie di un Geisha e Into the Woods, è entrato nel vortice dei live action Disney nel 2018 con Il Ritorno di Mary Poppins.
E questo ultimo lavoro potrebbe essere considerato un suo personalissimo grido d’aiuto. Se è vero che non gli si possono certo attribuire tutte le colpe, i live action sono da sempre una macchina macina soldi che di artistico non possiede nulla o quasi, La Sirenetta potrebbe essere il grado zero (o meno mille) dell’intera operazione nostalgia messa in piedi da Disney per fatturare milioni allietando le nuove generazioni di bambini, e falcidiando le infanzie dei loro genitori. Aladdin, Il Re Leone, Dumbo, La Bella e La Bestia e tantissimi altri storici cartoon da grande schermo sono stati deturpati senza pietà. La Sirenetta potrebbe essere il definitivo abisso di questa “saga”. Anche se non farà naufragio al box office. Draghiamo.
Innanzitutto, le ferali incongruenze. Sul pur nobile altare dell’inclusione e del no al razzismo, lo spettatore ha l’impressione che venga sacrificata ogni logica. La scelta è figlia di un grande dibattito che anima gli USA: si mira a mettere in secondo piano le etnie di appartenenza. Muovendosi all’interno di un cartone di fantasia in cui da sempre tutto è possibile (animali parlanti e compagnia), lo scopo diventa quello di mostrare ai più piccoli che tutti siamo uguali. Ne deriva che il colore della pelle sia indifferente perfino fra consanguinei stretti.
Se sulla carta le intenzioni sono più che buone, il risultato stride creando anche momenti di grande straniamento involontariamente comico. Scendono in campo, per esempio, le sette figlie di Tritone: Ariel (Halle Bailey) è nera, mentre le sue sorelle sono un mix di etnie davvero variopinto. C’è quella che sembra finnica, l’orientale, l’indiana, l’africana e così via. Il loro padre, come detto, è Tritone, interpretato dallo spagnolo Javier Bardem in costante recitazione basita. E le madri? Non si sa. L’unica informazione è che quella di Ariel sia stata “uccisa dagli umani”. È chiaro che non possa essere la stessa donna che ha partorito le sorelle della protagonista. Quindi, le altre? Oltre a non venir nemmeno citate, non hanno un ruolo nella vita delle fanciulle, né nel grande regno sommerso in generale. E questo porta ad alcune domande. Chissà, forse sono state fatte fuori una a una, tipo Anna Bolena, quando al re andava di esplorare altri “lidi”. Comunque, adesso che il sovrano ha sette figlie femmine, “empieza el matriarcado”. Il film si apre con una riunione del cda regnante in fondo al mar e le codate donzelle ci sono tutte (tranne Ariel, in ritardo). Perché l’empowerment è importante.
A fronte di un budget da 200 milioni di dollari – contro i 40 del cartone originale, la cgi (computer grafica, ndr) risulta fin troppo spesso un colpo di tridente ben assestato alle orbite dello spettatore. Una delle scene più amate, quella con la canzone In Fondo al Mar, pare un vecchio spot delle lamette anni Duemila. C’è un grosso problema, poi, come sempre, con l’espressività dei personaggi. E sta tutto negli occhi: Sebastian li ha piccolissimi, stilizzati. Quelli del gabbiano, anzi della gabbiana, Scuttle e del pesciolino Flounder, migliori amici della protagonista, sono vitrei. La versione cartoon originale aveva negli sguardi l’anima di ogni character. Proprio da lì, infatti, veniva trasmessa la loro vivacità, lo spavento, la determinazione, tutto lo spettro emotivo di cui disponevano. Il live action ha distrutto questo potenziale, non solo ne La Sirenetta, ma in ogni riadattamento precedente e, immaginiamo, lo farà anche in futuro. È un peccato. Qui, poi, c’è una ferale aggravante: i personaggi, in particolare Flounder, sono disegnati per ferire. Nessuno è “carino e coccoloso”, sembrano tutti reduci da un passato stupefacente nel senso meno positivo e allegro del termine. Tant’è che quando uscirono le prime immagini promozionali di Flounder, per esempio, si pensò a una bufala di Reddit. Non poteva essere. E invece lo era. Anzi, lo è. Purtroppo.
Il doppiaggio de La Sirenetta è stato molto criticato fin dal momento in cui Disney ha rilasciato le prime clip del film. Al centro delle polemiche, in particolare Mahmood, “reo” di aver dato la voce al granchio Sebastian. Se “In Fondo al Mar”, brano di punta dell’intera colonna sonora, è a tutti gli effetti uno scempio, nel complesso il cantante si rifà col parlato. Bisogna farci l’orecchio, ma ora della fine del primo tempo, sembrerà sempre meno ubriaco. Questo non implica che chi si è assunto il rischio di sceglierlo, abbia posato il fiasco. Se però si entra in sala con aspettative bassissime, se ne fuoriesce quasi stupiti in “positivo”.
Veniamo al Principe Eric (Jonah Hauer-King). Lo vediamo fin da subito a bordo di una nave, in mare aperto, insieme a un nutrito equipaggio. Per via di una tempesta, l’imbarcazione fa naufragio. Così scopriamo che tale “viaggio”, descritto dal protagonista come fondamentale per appagare la propria bramosia di scoperta dei misteri degli abissi, si stava tenendo a trecento metri dalla riva, dove svetta il castello in cui il rampollo è cresciuto e vive. Caspita, che avventura.
Il buonismo Disney c’è sempre stato e non ha senso lamentarsene ora. Vero è, però, che nel corso degli anni ha provveduto a piallare uno dei punti di forza di ogni film: i cattivi. Qui Ursula (Melissa McCarthy), per esempio, è poco più di una macchietta ululante, una specie di Wanna Marchi (promette anche pozioni in grado di far perdere peso ed è subito scioglipancia) molto meno efficace dell’originale. Criminoso il taglio che hanno subito le sue scagnozze murene, terrificante braccio armato dell’ingiustizia nel cartone del 1989. Ora compaiono sullo schermo il tempo di un tuffo veloce. Anche loro con un design che grida vendetta.
Dubitiamo di poter essere accusati di spoiler scrivendo che un lieto fine ci sarà. Ariel e il Principe Eric, dopo varie peripezie che tenteranno di allontanarli, convoleranno a nozze. Con buona pace del fatto che lei sia appena “adolescente”, come si ribadisce più volte all’inizio del film. Se il loro amore compie il miracolo di abbattere i pregiudizi, unendo i regni della Terra e del Mare che fino ad allora non si piacevano granché, c’è da dire che non sia poi, in effetti, tutto questo grande amore. Lei gli salva la vita riportandolo a riva quando la nave del principino fa naufragio. Lui la intravede, in stato di semi-incoscienza, per una frazione di secondo mentre si riprende dallo sfiorato annegamento. E resta ossessionato dalla sua voce, nonché dalla sua coda. Da lì, la “ama”, ricambiato. I due si dedicano grandi dichiarazioni in contumacia, ma non si conoscono. Lui è palesemente attratto dal fatto che lei sia una creatura marina e niente più. Nella realtà dei fatti, è il classico colpo di fulmine che non vuole sentire ragioni e che si risolve nel giro di una settimana. Poi, sconosciuti come prima. Qui, sfocia in faraoniche nozze. Ma è la magia Disney, lo è sempre stata. E va bene così. Forse.
La Sirenetta è un live action che incarna tutti (o quasi) i cortocircuiti dei nostri tempi, compresa l’annosa pigrizia degli sceneggiatori. Per 135 minuti. Se di sicuro piacerà ai bambini come tutte le cose molto colorate, per uno spettatore dotato di un minimo di senso critico, sarà dolorosissimo naufragio. La trama è totalmente sacrificata ai bei messaggi di inclusione che, a lungo andare, risultano molesti. Perché esagerati, esasperanti. Alla disperata ricerca di almeno un elemento che funzioni, ci attacchiamo alla faunistica dei fondali che, se non altro, sembra deliziosa tempura. Sul finale, sirenetti sbucati fuori da chissà dove, fanno ciao con la manina. Ed è subito Drag Race. Si esce dal cinema con l’idea che, dopotutto, forse sarebbe stato meglio fare un giro all’acquario comunale.