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La recensione di Avatar 2: analisi di un un kolossal annunciato, tra meriti e cortocircuiti

Avatar – La via dell’acqua, il secondo capitolo della saga dei record diretta da James Cameron, dopo il primo weekend in sala è già un mastodontico successo mondiale. Almeno, a livello commerciale. Analisi di un kolossal annunciato, tra meriti e cortocircuiti che rischiano di far affondare la barca.
A cura di Grazia Sambruna
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Dodici anni di attesa, 10 milioni in cinque giorni se prendiamo in considerazione i soli box office italiani. Il primo weekend di programmazione nelle sale è stato da record in tutto il mondo: 134 milioni incassati negli Stati Uniti d'America, miglior risultato di sempre per James Cameron (anche se Disney stimava un botto ancora più esplosivo per il kick-off: dai 150 ai 175 milioni). Solo la Cina corre al cinema molto al di sotto delle aspettative, ma la ritrosia è dovuta alle restrizioni per la piaga del Covid, in cui da quelle parti si parla, purtroppo, ancora al tempo presente. Avatar 2 – La Via dell'Acqua non poteva che essere un successo globale, almeno quanto il suo predecessore, Avatar, ossia il film più visto della storia del cinema. E ci sta riuscendo: la matematica è dalla sua, visti i numeri di tale roboante esordio.

Siamo senza ombra di dubbio davanti a un kolossal. Se non al kolossal contemporaneo. Sì, ma il lungometraggio, di per sé, merita davvero questo febbrile entusiasmo di massa? Se sono in tanti a venerare Cameron come il santo patrono del cinema mondiale, parimenti esistono fazioni compatte che ritengono la saga di Avatar il più grande abbaglio della storia del cinema. Prova ne sarebbe questo secondo capitolo in particolare, troppo blando per essere di una qualche validità artistica, nonostante l'immenso successo commerciale e l'incredibile dovizia a livello tecnico. Andiamo ad analizzare insieme gioie e dolori del film sulla bocca di tutti e nel cuore di altrettanti.

"La via dell'Acqua non ha un inizio e non ha una fine", recita una delle battute più inflazionate del lungometraggio. Lo stesso si potrebbe dire del film: la durata XXL di tre ore e mezza, se da una parte polverizza tutto il chiacchiericcio sul drammatico crollo della soglia d'attenzione degli spettatori contemporanei, dall'altro può assumere, è oggettivo, i contorni di un fine pena mai. Le vicende della famiglia Sully potevano essere raccontate senza perpetrare un sequestro coatto del pubblico in sala. Però.

Però Avatar – La Via dell'Acqua è una gioia per gli occhi, grazie a effetti visivi mai così speciali. Con buona pace di chi pensa che la CGI (computer grafica, ndr) sia un limite al range di espressioni facciali dei personaggi con essa ricreati, qui la tecnica dà sfoggio del proprio meglio: gli occhi dei Na'vi, la bluastra popolazione indigena di Pandora, narrano una trama a parte, intensa, vivace, drammatica, piena di vibranti emozioni. L'opposto di quanto accadde, per esempio, nel live action del Re Leone dove gli animali della foresta parevano essere parte di un documentario, quando non semplicemente impagliati. Si può fare, dunque.

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Sussistono, comunque, tasti dolenti che non possono passare in sordina. In primis, la sceneggiatura: se tanta maniacal cura è stata affidata alla resa tecnica del film, lo stesso non si può dire della scrittura. Un pot-purri di retorica spesso in grado di far impallidire i più alti Maestri del melenso un tanto al chilo. Titani, per stare in Italia, del calibro di Fabio Volo e Francesco Sole. Il dogma su cui l'intero film si concentra è che una famiglia, in questo caso quella dei protagonisti, debba necessariamente restare unita: non esiste possibilità di separarsi. Anche se ciò comporta l'annientamento di intere specie, animali e umanoidi, guerre e sofferenze. Un concetto "antico", per dire il meno. E davvero poco realistico. Se è vero poi che vediamo una donna combattere col pancione, le figure femminili, almeno quelle in età adulta, sono perennemente rappresentate come isteriche in preda costante delle proprie emozioni. Ogni volta che un evento negativo scende in campo, eccole a infuriarsi e stracciarsi le vesti, fino a che non compare un uomo, tendenzialmente il loro, a prendere in mano la situazione, calmandole e riportando la situazione nei ranghi.

Avatar – La via dell'Acqua è anche, se non soprattutto, una storia di integrazione. La famiglia Na'vi, costretta a lasciare la propria foresta di appartenenza, deve imparare a convivere con la tribù marina dei Metkayina, sulla costa orientale di Pandora. Sulle prime c'è grande diffidenza: Jake e parentado sono molto diversi dagli autoctoni, vengono considerati "mostri", "alieni" e sbertucciati per le difficoltà che hanno nel cavalcare gli straordinari coccodrilli-libellula che i Metkayina usano fin dalla più tenera età per spostarsi. Ne conseguono scene di bullismo, tanta, forse pure troppa "storia teen", denti stretti, cazzotti e calumet. Grazie anche all'ausilio di gigantesche (e splendide) balene in pericolo.

Il pericolo in questione, naturalmente, è l'uomo, unico vero villain del film. La razza umana, pronta a tutto pur di far quattrini, devasta l'ambiente di Pandora nei modi più sadici e irrispettosi che riesce a inventare, a bordo di accozzaglie di metallo hi-tech buone solo a demolire e brutalizzare. Il messaggio ambientalista è forte e chiaro, permea ogni scena del lungometraggio. Mette in opposizione, però, due estremi: la cupidigia umana che di fatto stupra un intero pianeta pensando solo ai propri interessi (e non alle conseguenze degli stessi) contro la serena vita del "buon selvaggio", con i suoi riti, la pace, e il look da rave anni Novanta, con tanto di dreadlock in testa, l'armonia universale e cangianti strisce fluo su tutto il corpo. La seconda fazione è, chiaramente, quella rappresentata come "migliore" dal film. E questa, dispiace, ma è faciloneria.

Una delle critiche più frequenti a Cameron, poi, riguarda la scarsa fantasia del regista (e sceneggiatore) della saga di Avatar. Se inventare da zero una nuova mitologia di cui nessuno conosceva alcunché e riuscire a farci appassionare milioni di persone è, senza dubbio, un colpo da maestro, risulta anche evidente che in 25 anni Cameron abbia tirato fuori tre film in totale, tutti con storyline molto simili, da Titanic al novello Avatar 2. In questo, nello specifico, riviviamo la scena del naufragio del Titanic (ok, si tratta di un'altra grande imbarcazione ma la sensazione di deja-vu è travolgente). Con l'aggiunta di qualche scazzottata al posto dell'orchestra che continua a suonare.

Il regista ha risposto a tali accuse parlando apertamente di citazionismo, di dichiarato omaggio alla sua stessa filmografia. I cinefili più accaniti, però, bollano tali ripetizioni come mancanza di estro, quando non palese pigrizia. E c'è solo da scegliere da che parte stare. Non sussistono risposte giuste o sbagliate sul tema. Per quanto la piaga della "ripetizione" falcidi anche la già povera sceneggiatura dell'opera. Forse perché, al netto della grandiosità degli effetti visivi, si è fatta a monte la scommessa che nessuno avrebbe poi badato più di tanto alla trama. Eppure.

Avatar – La via dell'Acqua è un'esperienza immersiva in un mondo visivamente fantastico da cui, però, si riemerge dopo troppo tempo e che richiede l'impiego di eccessive energie vitali per riuscire a seguire, mantenendo gli occhi aperti, l'intera narrazione. Narrazione che, in fin dei conti, si rivela essere poco più di un traballante predicozzo ambientalista tout court. Nonostante faccia acqua da molte parti, insomma, milioni di persone in tutto il mondo, lo stanno amando per il kolossal che dice di essere e che, dal punto di vista commerciale, sicuramente è e sarà. Per certi versi, verrebbe da aggiungere un purtroppo.

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Sto scrivendo. Perennemente in attesa che il sollevamento di questioni venga riconosciuto come disciplina olimpica.
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