“Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo” è l’incipit di uno dei romanzi più conosciuti della storia della letteratura ottocentesca, si tratta di Anna Karenina, scritto dal genio di Lev Tolstoj che aveva capito una cosa fondamentale, prima ancora di Freud o di Jung, e cioè che il luogo in cui nasci determina in qualche modo chi sei e che tutti i nuclei familiari, in un modo o nell’altro, sono simili e pieni di contraddizioni. Non può esserci frase migliore per iniziare a raccontare “Il filo invisibile”, film uscito da qualche giorno su Netflix, che parte da un assunto incredibilmente semplice: siamo a noi a definire i limiti e le categorie di normalità, per cui se non riusciamo ad accettarle, significa che non riusciamo a superare e modificare i nostri stessi pensieri.
La storia è quella di Leone, un ragazzo di appena 15 anni, figlio di Paolo e Simone, sì, due uomini, che hanno il volto di quei bravissimi attori che sono Filippo Timi e Francesco Scianna. Leone per la scuola realizza un progetto in cui racconta la sua famiglia, per dimostrare a tutti che pur avendo due papà la sua è una famiglia come tutte le altre. Attraverso un filmato, quindi, ripercorre i momenti più importanti e significativi della loro vita insieme, ma come un fulmine a ciel sereno si troverà a dover raccontare anche le difficoltà, perché non tutte le famiglie sono felici per sempre, sebbene lo vogliano, e per tutte si intende anche quelle arcobaleno.
Il film affronta con una estrema delicatezza, ma anche dinamicità, il paradosso che vivono le cosiddette famiglie omogenitoriali, in un incatenarsi di luoghi comuni e intoppi burocratici che rendono difficile tutto, anche stabilire chi sia il genitore da mettere sul certificato di nascita, quando questa finalmente avviene. E quindi se Paolo e Simone hanno deciso di coronare il loro amore, avendo un figlio e facendosi aiutare in questa impresa da una loro amica, Tilly, l’impegno, la dedizione e l’amore che mettono nel crescere il loro Leone, non è abbastanza per abbattere pregiudizi e occhi curiosi di chi vede quel nucleo familiare come un esperimento a cui guardare sospettosamente.
Non mancano gli sguardi dei compagni di classe, maliziosi e forse anche scandalizzati, arrivano le domande invadenti “ma chi è il tuo padre biologico?” e arriva anche l’amore, quello di Dario che scopre di essere omosessuale e dà per scontato che anche Leone, figlio di due gay, lo sia. Ma no: “Mi dispiace deludervi, ma non sono gay, dove sta scritto che perché i miei lo sono devo esserlo anche io? ” dice arrabbiato il ragazzo, quando scopre che Anna, la sorella di Dario di cui si stava innamorando, lo aveva adescato solo per aiutare suo fratello. E l’amore, come unisce, poi, a volte distrugge.
Ce lo insegna la letteratura, il cinema, la vita di tutti i giorni e quindi, anche un matrimonio tra due uomini può finire, anche dopo vent’anni, forse soprattutto dopo vent’anni, quando l’arrivo di un figlio cambia le abitudini, abbassa la libido, la vita di coppia passa in secondo piano, il numero a cui pensare non è più due, bensì tre e tutto viene messo in discussione. Così, quando Paolo scopre improvvisamente che Simone lo tradisce, gli cade il mondo addosso. Due anni di tradimenti, bugie, sentimenti nascosti, spiattellati durante una cena per celebrare due decenni insieme, che si trasforma in un rinfacciarsi mancanze.
Sì, proprio come in una famiglia come tante, in cui mamma e papà litigano, in cui si tradiscono e magari si separano. E i figli, che siano cresciuti da due uomini o da un uomo e una donna, soffrono lo stesso, come ci mostrano le lacrime di Leone, il suo cattivo umore, la sua necessità di essere lasciato in pace, perché si sente al centro di un conflitto che non sa e forse non vuole gestire.
Una guerra tra due persone che si amavano e che ora sembrano odiarsi, una guerra che non vede trattati di pace, ma solo minacce di ferite ancor più grandi da infliggersi l’un l’altro, come se non bastasse veder soffrire e sbandare un ragazzo che chiede solo tranquillità. Ma sarà proprio questo conflitto a far emergere una verità amara: dopo che il giudice ha rigettato la proposta di mettere il nome di entrambi i padri nel certificato di nascita, perché in Italia vige il principio della genitorialità solo biologica, Paolo e Simone decidono all’insaputa l’uno dell’altro, di sottoporsi al test di Dna, per poi scoprire che Leone non è figlio biologico di nessuno dei due.
E ora? E ora, dopo il trauma iniziale e il desiderio di vertigine che coglie Leone, c’è da chiedersi: quanto è importante sapere di chi si è figli se, poi, a crescerti e renderti quello che sei sono state due persone che hanno voluto fare il dono più grande che si possa consegnare ad un essere umano, ovvero dargli il loro amore? Forse a pensarci non è così importante, non è fondamentale, imprescindibile. Scoprire dove siano state piantate le proprie radici è un diritto sacrosanto, ma il modo in cui l’albero cresce e quanto sia rigoglioso, dipende dal nutrimento del suo terreno, e quello non sempre arriva da chi ha messo il seme.
Il filo invisibile, raccontato dalla bravura del giovanissimo Francesco Gheghi, ci insegna ancora una volta che non esistono limiti all’amore, non ci sono diversità se non quelle che siamo noi stessi ad imporci e che, in fin dei conti, siamo noi a stabilire la natura dei legami che ci sostengono, perché tutti siamo collegati da un sottilissimo filo, basta solo trovarlo.